Anno XX, n. 226
dicembre 2024
 
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Tra comicità e surrealismo, ecco la tranquilla vita
di una città del Mezzogiorno stravolta dai terremoti
La decadenza dei costumi e delle virtù sono narrate in un romanzo,
coedizione Illisso/Rubbettino, ripubblicato dopo oltre cinquant’anni
di Gaetanina Sicari Ruffo  
Uno dei testi della preziosa collana, curata dal professore Aldo Maria Morace dell’Università di Sassari e presidente della Fondazione “Corrado Alvaro”, denominata Scrittori di Calabria, che raccoglie libri divenuti classici della cultura regionale (per maggiori informazioni, clicca qui), è la Città delle Corti, (Prefazione di Pasquino Crupi, Illisso/Rubbettino, pp. 229 € 5,90) di Natalino Lanucara.
Diviene un inconsueto romanzo realistico l’efficace rappresentazione di una città del Sud devastata dal terremoto, i cui abitanti superstiti regrediscono quasi ad un’epoca “antropozoica” fino a confondere i vizi con le virtù ed a capovolgere le normali regole del vivere. Pubblicato per la prima volta nel lontano 1949, il testo appare un sapido miscuglio tragicomico, una specie di Hilarotragoedia alla Manganelli, con nomi e situazioni che richiamano la classicità, ma non la solennità di quell’eroico periodo.
Lo stesso titolo, che potrebbe far pensare alle luminose corti rinascimentali, ad altro non allude che ai cortili di cui abbondano le costruzioni fatiscenti di quella comunità disastrata, ridotta a vivere in promiscua vicinanza ad un livello molto basso di primitivi istinti. L’esistenza sembra apparentemente svolgersi con il consueto intreccio d’intrighi e di schermaglie.
A suo fondamento c’è la regressione che è miseria non solo materiale, ma anche morale, un melmoso appiattimento sulla più bassa ferinità, raccontata con il sorriso distaccato di chi non può far altro che registrare la consuetudine all’indifferenza per la condizione di avvilente degrado umano in cui versa. I poveri superstiti, protagonisti della storia, non sono neppure illuminati dal sentimento di pietà di chi scrive, bensì rappresentati con estrema spregiudicatezza, senza turbamenti morali. Ne deriva un romanzo che in altri tempi, meno smaliziati dei nostri, si sarebbe potuto definire sperimentale, ma che, come vedremo, si rivela un divertissement moderno.

Una tipologia umana votata alla sconfitta
La rappresentazione si svolge in una città meridionale, abbandonata a se stessa , senza leggi e regole se non quelle della sopravvivenza. Lo scopo dichiarato dallo scrittore è di dimostrare come possa la gente, dopo una terribile esperienza come quella della furia devastatrice della terra, rinascere e tornare alla civiltà nel giro di qualche decennio, tra un terremoto ed un altro. Sembrerebbe trattarsi d’un racconto altamente tragico, invece, proprio come in un pastiche letterario, si mescolano elementi diversi, che spesso toccano il comico e il surreale. Tale genere letterario, già noto fin dall’antichità, è stato spesso abbinato a rappresentare la decadenza dei costumi, delle leggi e delle istituzioni. Pensiamo al greco Luciano nei suoi Dialoghi delle cortigiane, al Satyricon di Petronio o alla satura menippea di Seneca nell’Apokolokyntosis in cui motivi di risentimento politico, mescolati a quelli sociali e personali, hanno offerto, già fin da quel tempo, un affresco originale di comportamenti umani.
Il romanzo di Lanucara si presenta, quindi, con la chiara intenzione di cogliere le evidenti contraddizioni di quel processo umano che, in particolari condizioni ambientali, tutto è tranne che civile ed ordinato. Un modo, insomma, di rappresentare ricorsi storici particolarmente difficili da cui, nonostante tutto, per forza d’inerzia, si riesce a venir fuori, più per caso che per sollecitazioni eroiche.
Non si tratta, a mio parere, della storicizzazione d’un episodio in un suo periodo determinato , ma della caratterizzazione d’uno stadio dell’umanità regressa, come può succedere per una guerra, una pestilenza o altra calamità naturale, oggi purtroppo ricorrenti in alcune parti del globo, un esempio di rivisitazione del mondo dei superstiti com’è stato nel corso del Novecento per il 1984 di Orwell, per Belmoro di Alvaro o per Il superstite di Cassola, tanto per citare alcuni noti esempi.
Il critico russo Michail Bachtin ha ben definito questa categoria dell’istintività primordiale in contrapposizione con quella razionale più sofisticata delle età progredite e l’ha considerata alla base della scrittura umana.
Visto sotto quest’ottica, il testo non si può solo definire un prodotto del neorealismo novecentesco, ma soprattutto un’elaborazione più sottile e complessa che si nutre dei succhi di tutta una cultura che caratterizza trasversalmente la storia umana e fa leva sulla smitizzazione e sul paradosso. In essa sfocerebbero le delusioni del proprio mondo esistenziale ed insieme la critica, abbastanza evidente, della presunta caparbietà dell’uomo di voler sopravvivere a tutti i costi, quando tutte le forze della natura sembrano congiurare per distruggerlo.
Il romanzo non ha infatti una lieta conclusione, come potrebbe essere quella della rinascita o della ricostruzione del territorio interessato : «pareva che gli uomini non avessero fretta di ricostruire, quasi che le costruzioni fossero di cattivo augurio ed attirassero rovine e sciagure. Ogni casa che sorgeva era come una cima che attiri il fulmine».
Solo due personaggi scampano ad un successivo terremoto che azzera tutto: si salvano con la fuga il capo dei giovani ed Ottavia, la capitana delle vergini. Una fuga la loro che assomiglia a quella, fuori dal mondo allora conosciuto, di Belmoro e Stella, protagonisti del testo incompiuto e pubblicato postumo da Alvaro.

Le contraddizioni della cultura contemporanea
Appare chiaro che il romanzo sottintende la riflessione d’un intellettuale a cui i conti dello sviluppo della storia, in senso diacronico e sincronico, non tornano, perché ad essere sempre uguale, con la variante della negatività e della positività, secondo le circostanze, non è solo la natura della storia, ma l’essenza stessa umana che ritorna ad essere quella delle ferine età in estreme condizioni di vita. Ha fatto scuola in tal senso il naturalismo francese che sembra ora del tutto dimenticato. Ma nel romanzo mancano le tare ereditarie, l’asfittico familismo e il ritorno allo stato d’innocenza, che di volta in volta accendono il dibattito per spiegare fenomeni societari altrimenti inspiegabili. Sembra prevalere, invece, il fatalismo di cui tutta la vicenda si tinge, quel rassegnarsi ad essere immobili ed impudichi, a strisciare piuttosto che a rialzarsi per tentare una reazione in qualche modo decorosa e consapevole della dignità umana.
È questa purtroppo ancora un’anomalia della civiltà contemporanea che, mentre celebra le sue conquiste innalzando alle stelle gli ultimi ritrovati della scienza e della tecnica, non s’accorge delle sacche d’arretratezza che pure conserva dentro il suo seno. Purtroppo sono esse a innescare un grave dislivello di consapevolezza e di eguaglianza e a generare discriminazioni e conflitti pericolosi.

Gae Sicari Ruffo

(direfarescrivere, anno II, n. 10, dicembre 2006)
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