I libri che vengono presentati in questa rubrica sono testi, come si evince chiaramente dalla titolazione della sezione stessa, destinati a non prendere la polvere. Quello che qui presentiamo, Latifondo. Economia morale e vita materiale in una periferia dell’Ottocento (Marsilio, £. 42.000), relativo alla struttura del latifondo in Età moderna e contemporanea, è indubbiamente uno di questi. Come si noterà è un’analisi approfondita che parte da un caso specifico, emblema di una situazione più generale.
Marta Petrusewicz, autorevole storica modernista dell’Università della Calabria, attraverso l’analisi di numerose fonti, disegna dunque lo scenario economico, politico e sociale di un’azienda latifondistica, quello della famiglia Barracco di Crotone, a sua volta parte di un sistema produttivo che copriva un vasto territorio, dal crotonese sino all’hinterland cosentino.
È stato Pino Arlacchi a fornire le caratteristiche strutturali di questo sistema, individuate in:
a) la spettacolare concentrazione della proprietà fondiaria (l’1,3% della proprietà copre l’80% della superficie coltivabile);
b) il peso veramente minimo della piccola e della piccolissima proprietà, che occupano rispettivamente il 6,5 e il 3,8% del territorio agricolo;
c) una grande proprietà terriera che gestisce in genere in prima persona i rapporti di produzione;
d) nell’ambito dei rapporti la prevalenza quasi assoluta del lavoro salariato.
Sempre secondo Arlacchi, il latifondo rappresenta una struttura economica a se stante, originale che non può identificarsi né con la tenuta feudale, né con la moderna azienda agricola capitalista. La sua tesi è che il latifondo crotonese sia riuscito a rafforzarsi grazie ad una forma repressiva della forza lavoro, sostenuta essenzialmente da due elementi: l’autocrazia dei grandi proprietari e lo squilibrio permanente del mercato del lavoro, nel quale l’offerta era di molto inferiore alla domanda proveniente da masse di braccianti provenienti da centri anche molto distanti da Crotone.
Il potere latifondista si era espresso attraverso la burocrazia repressiva al servizio del latifondo, che era altresì strumento per il reclutamento della manodopera stagionale attraverso il sistema del caporalato [1].
La Petrusewicz, rispetto al modello proposto da Arlacchi, sposta in avanti la data di nascita di quello che gli studiosi chiamano il latifondo borghese; non più gli inizi dell’Ottocento, ma gli inizi del Novecento, almeno per quanto concerne la Calabria, poiché per la storica polacca, nonostante il coraggio finanziario e la capacità imprenditoriale di alcuni componenti della famiglia Barracco, il loro latifondo è spiritualmente, se non formalmente, legato all’economia e alla società dell’Antico regime [2].
La crescita dei possedimenti e l’affermazione del latifondo
La famiglia Barracco, d’origine patrizia cosentina, con una tradizione di cultura e d’impegno politico, aveva già giocato un certo ruolo nelle vicende regionali. Questo ruolo di patrizi, però, non aveva mai soddisfatto le loro ambizioni; pervasi da una velleità agraria, essi per secoli avevano tentato di costruirsi un patrimonio terriero. L’ascesa economica comincia nel 1806, anno in cui vengono emanate le leggi eversive della feudalità, e il grosso delle spese andrà avanti fino al 1849, anno della morte del barone Luigi, seguita dal trasferimento della famiglia a Napoli.
Il trasferimento del cuore della famiglia nella capitale non si trasformerà in assenteismo, il controllo degli affari calabresi era possibile grazie a forme di rilevante solidarietà e cooperazione all’interno della famiglia, la cui chiave è da ricercarsi nella sua adesione all’istituto del “maggiorascato”. Esso proteggeva la proprietà che rimaneva indivisa ed impegnava i cadetti in un controllo scrupoloso dei possedimenti. Il potere della famiglia si consolida con un iter di alleanze matrimoniali con l’aristocrazia del Regno, votati ad aumentare lo status, il lustro e l’influenza della stessa sul territorio.
I Barracco cominciano a costruire il loro “impero” attraverso l’acquisto di grossi cespiti territoriali già feudali, appartenenti in proprietà burgensatica a membri illustri dell’aristocrazia del Regno, e proseguono le loro acquisizioni territoriali con l’acquisto di beni dello stato; impinguano i loro possedimenti attraverso le riscossioni di alcune ipoteche che erano garanzie di prestiti che alcuni proprietari avevano contratto con loro; rilevano somme che i piccoli creditori vantano nei confronti di grandi proprietari, per cui i terreni che successivamente ottengono, sono frutto di vendite giudiziarie in quanto sono diventati i creditori principali; usurpano quote del demanio silano, un fenomeno né nuovo né isolato alla Calabria; acquistano quote contadine, con un meccanismo che si avvale dell’inefficienza delle leggi.
I contadini, infatti, come conseguenza della divisione in massa di una quota delle terre già feudali, si trovavano in possesso di terre di estensione troppo limitata e di scarsa qualità, e per poter sopravvivere spesso preferivano disfarsi delle terre poco fruttuose in cambio di un compenso contante, anche se formalmente le quote erano incedibili.
La proprietà e “l’impresa latifondista”
Il latifondo dei Baracco ricopriva, perciò, una superficie di 30 mila ettari su una lunghezza di oltre 100 km. Il latifondo, secondo l’autrice, non era una “terra senza uomini”, bensì, un’area densamente popolata con i suoi modi di produzione e distribuzione, con le sue gerarchie e regole. Lo scopo del proprietario non era quello di trasformare tali equilibri esistenti, ma di finalizzarli alla realizzazione del surplus produttivo, per cui aveva tutto l’interesse a rispettare tradizioni e differenze specifiche e usarli a suo vantaggio.
I confini del territorio corrispondevano ai confini del potere che vi esercitava il latifondista Barracco: questi era insieme il più grande proprietario e datore di lavoro, il punto di riferimento in tutte le sfere economiche e sociali, il principale punto di riferimento politico-clientelare, usufruiva quasi in regime di monopolio della violenza ed era perciò il responsabile della pace sociale.
La ricerca mette in luce una notevole elasticità dell’impresa latifondistica, che si manifesta nella molteplicità delle forme contrattuali, nella varietà degli istituti giuridici, nella forte differenziazione delle colture, nonché nella convivenza ed interdipendenza tra l’autoconsumo e la produzione per il mercato. Il tipo d’organizzazione produttiva e i metodi adoperati dipendevano dal carattere dell’attività stessa: ad esempio, la pastorizia, si serviva delle tecniche tradizionali universalmente conosciute e non gravate da sistemi fissi; le filande o i conci di liquirizia, importavano macchinari sofisticati, mentre la cerealicoltura, seguiva i cicli estensivi da sempre praticati; le colture del bergamotto o la produzione dell’olio, impegnavano specialisti agronomi.
L’impresa latifondistica era caratterizzata da un alto grado di autosufficienza, la diversificazione permetteva di produrre in proprio tutto quello che serviva alla sussistenza dei padroni e dei lavoratori, inoltre, l’impresa era autosufficiente rispetto a quasi tutti i servizi, dai trasporti alle costruzioni. Nel latifondo Barracco, la presenza del lavoro salariato appare come un aspetto piuttosto limitato della condizione dei lavoratori del latifondo, le retribuzioni erano solo in parte fissate in denaro, l’altra parte era determinata in generi, uso della terra e compartecipazione ai prodotti.
Le uniche distinzioni rilevanti erano quelle tra i lavoratori a salario fisso, i cosiddetti provvisionati, e quelli a salario saltuario, i braccianti. Tramite le retribuzioni sia in denaro che in natura, possiamo conoscere la stratificazione sociale all’interno del latifondo. Vi erano i sovrastanti impegnati nella sorveglianza di persone, cose e attività; i componenti dell’amministrazione, taluni intellettuali impegnati in compiti di alta direzione, altri impiegati come fattori e magazzinieri; i domestici dei casini dei Barracco, gli artigiani, i massari e gli “acquaruli”; i lavoratori della pastorizia societaria con pecorai e caprai; i lavoratori della pastorizia gestita in economia.
I modelli produttivi
La maggior parte della produzione veniva immessa sul mercato e il sistema latifondista aveva con esso un rapporto doppio: la parte ricca della produzione, era destinata al mercato metropolitano napoletano, esso esprimeva una domanda potenzialmente illimitata, ma dettava le proprie regole riguardo i prezzi, le misure, le qualità, e richiedeva la consegna delle merci sul posto; la parte povera che soddisfaceva l’autoconsumo, e il suo surplus, era venduta invece sui mercati locali.
La flessibilità dell’organizzazione latifondistica permetteva, da una parte, di adattarsi alle alterne vicende del mercato, trasformando il capitale da una forma ad un’altra ma senza mai intaccare la propria struttura; dall’altra, essa poteva incrementare la sua produzione commerciale con risposta non solo agli stimoli positivi, come i prezzi agricoli alti, ma anche a quelli negativi, prezzi bassi, del mercato. Il primo aspetto della flessibilità permise all’azienda latifondistica di oscillare, nel corso dell’Ottocento, in modo indolore, tra industrie armentizie e cerealicoltura, di passare dalla cerealicoltura all’olivo, di introdurre il cotone, di impiantare gelseti e la radice di liquirizia, di adeguarsi a quasi tutte le oscillazioni del mercato d’esportazione senza rinunciare al suo carattere policolturale. Ciò che importa ricordare e che il sistema colturale era quello presente da secoli nell’economia della regione, come hanno evidenziato gli studi di Giuseppe Galasso sull’economia calabrese del Cinquecento. Il secondo aspetto della flessibilità, quella nei confronti delle oscillazioni dei prezzi, permise all’impresa latifondista di superare brillantemente le periodiche depressioni del mercato e prosperare nei periodi sia alti che bassi del ciclo economico.
I latifondisti privilegiavano la riproduzione dello status e del tenore di vita raggiunto, a scapito della massimizzazione del reddito monetario. L’articolazione dell’impresa permetteva, poi, di sfuggire alle strozzature dei commercianti intermediari, la vendita in loco, e a Napoli, era curata dagli stessi dipendenti del latifondo. Il trasporto nella capitale era effettuato in proprio, con navi noleggiate, e successivamente le merci venivano custodite nei magazzini di proprietà dei latifondisti.
Dal punto di vista dell’organizzazione produttiva, i Barracco, ben consapevoli delle difficoltà di rendere fruttuoso i propri possedimenti, adottarono due provvedimenti fondamentali: da una parte unirono i piccoli appezzamenti poco redditizi in un continuum propizio alla coltura estensiva mista con la transumanza, realizzando così economie di scala; dall’altra, nominarono una serie di fattori ed amministratori sparsi per la proprietà, muniti di delega del potere di contratto e di riscossione. L’amministrazione era composta da una serie di aziende minori, ciascuna delle quali aveva a capo un amministratore, un fattore o un caporale che rendevano conto a scadenze fisse al barone o baroncino, oppure, dopo la metà del secolo, all’amministrazione centrale.
I tre tipi di affari, per la gestione dei quali un amministratore aveva la delega padronale, e cioè la produzione, l’associazione e la cessione dell’usufrutto, corrispondevano alle tre forme di conduzione dell’economia latifondista. Il proprietario di solito sceglieva la forma di conduzione secondo il tipo d’attività, del grado di commercializzazione e della sua capacità di controllo. Le terre di prima qualità, situate in punti strategici dal punto di vista commerciale, restavano in gestione diretta e vi s’impiantavano le masserie, con i pascoli addetti alle proprie industrie. Le terre di seconda e terza qualità e i fondi decentrati rispetto alle sedi amministrative, venivano cedute in affitto, che spesso serviva ad integrare in natura i salari. In ultimo la conduzione in società, veniva scelta per i casi dove il controllo salariato delle attività sarebbe stato inefficiente, come nell’allevamento.
“Efficienza economica” e “garantismo sociale”
Il latifondo si presentava perciò come una struttura organica e razionale, sorretta da due elementi fondamentali: l’efficienza economica e il garantismo sociale. Il sistema garantista era un luogo d’incontro delle aspettative condivise dai padroni e dai lavoratori, circa certi bisogni e certe aspirazioni, circa i diritti e i doveri reciproci; in poche parole, una forma di consenso a proposito di ciò che doveva costituire lo scambio uguale, tra la protezione e il servizio. Con dispendio d’energie e mezzi, i Barracco realizzarono i prerequisiti necessari ad una transizione all’economia capitalistica.
Ma nulla indica che queste precondizioni avrebbero per se stesse potuto determinare un ulteriore sviluppo nel senso capitalistico o che tale evoluzione fosse ambita dai suoi fautori. Per la Petrusewicz, la fine del feudalesimo aprì la strada al latifondo, ma senza imprimervi un carattere capitalistico. Infatti, i padroni non divennero borghesi, e i lavoratori non divennero proletari; la ricerca del guadagno rimase subordinata a quella della sicurezza e della conservazione di posizione, titoli e capitale sociale. Il latifondismo rimase un sistema in equilibrio per più di mezzo secolo.
Quel che cominciò ad intaccare quest’equilibrio negli anni Sessanta dell’Ottocento, a renderlo più fragile e mostrarne i limiti, fu la tendenza alla modernizzazione, che si rese necessaria e forzata, quando si dovette prendere atto che le fonti tradizionali di reddito non consentivano più di far fronte alle spese di rappresentanza nonché alle nuove spese politiche. Il settore naturale del latifondo continuava a provvedere ai bisogni di sussistenza della famiglia, ma questa era ormai ben poca cosa rispetto ai crescenti bisogni di beni e servizi che l’economia latifondistica non poteva fornire, e che dovevano essere acquistati con denaro. I vecchi metodi di maggiorazione del reddito, diventavano più difficili da praticarsi per l’esaurimento di terra disponibile e per la stretta fiscale. La famiglia si trovava quindi di fronte al problema di come aumentare i redditi.
La modernizzazione che i Barracco cominciarono ad introdurre nel latifondo consisteva sì nell’innovazione tecnica, ma soprattutto nella trasformazione radicale della gestione dell’impresa. È doveroso ricordare che, per quanto riguarda il progresso tecnico, il latifondo Barracco era sempre stato un’impresa avanzata e spesso lodata per il suo impiego di tecnologie e macchine moderne. Con l’Unità d’Italia e l’introduzione della tariffa doganale piemontese nell’ex Regno di Napoli e la riduzione dell’80% dei dazi protettivi, si crearono non pochi problemi per i proprietari terrieri meridionali. I Barracco, data la buona congiuntura mondiale per il grano, cercarono di compensare il calo dei redditi, ampliando la parte della proprietà coltivata in proprio. Man mano si sciolsero le società con i lavoratori, si abolirono le compartecipazioni, venivano eliminate le cessioni d’uso della terra, diminuirono le dimensioni globali dell’impresa. Così il numero dei terraticanti fu ridotto drasticamente, e le terre volte interamente alla coltura granaria, incorporate nelle grandi masserie. Questo provvedimento sembrava propizio: rispondeva alle opportunità di mercato, aveva un effetto positivo sulla produzione, ma tale soluzione ebbe effetti sociali negativi.
I primi segni del declino
La modernizzazione, avendo scosso il sistema garantista, fece aumentare la conflittualità e creò le prime difficoltà nel reperimento della mano d’opera; in pratica, fece perdere al sistema latifondista la sua autosufficienza e lo rese economicamente e socialmente vulnerabile. Malgrado la depressione dei prezzi e qualche difficoltà con i cereali, l’economia latifondista sembrava andare bene, finché la politica commerciale italiana rimase liberista e continuò a tenere aperte le frontiere commerciali. Ma i veri segni del declino diventarono palesi con l’introduzione delle tariffe doganali del 1887. L’impatto che le leggi protezionistiche ebbero sul movimento commerciale dei prodotti agrari, in Italia, fu particolarmente dannoso per i prodotti tipici del Sud.
Com’è noto la Francia, il partner commerciale più importante, soprattutto per quanto riguardava le produzioni agricole meridionali, aveva risposto ai provvedimenti protettivi italiani con la cosiddetta “guerra doganale”, che colpì principalmente il vino, l’olio e la liquirizia, mentre la Russia impose un dazio del 300% sull’importazione degli agrumi italiani. È evidente che la produzione agraria meridionale, inclusa quella latifondista, si trovò in difficoltà non per conseguenza delle modificazioni sui mercati mondiali, ma a causa della politica commerciale italiana, che in risposta a queste provocò la chiusura dei suoi tradizionali sbocchi di mercato.
I latifondisti rimasero liberisti, non solo non appoggiarono le misure doganali del 1887, ma si opposero anche all’interno del cosiddetto “partito degli agrari”, dove erano però una minoranza. L’opposizione fu debole, i parlamentari latifondisti si limitarono a manifestare il dissenso assentandosi dal Parlamento durante le votazioni di quelle leggi che incidevano sui loro interessi, barattando il loro comportamento benevolo nei confronti del governo con l’accoglimento delle loro richieste su altre questioni vitali del latifondo e questo ben testimonia la loro inconsistenza politica.
La crisi dell’economia latifondistica che ne seguì, fu profonda e non ci fu modo di uscirne conservando il vecchio sistema. Molti latifondi sparirono, quelli che sopravissero, come il latifondo Barracco, uscirono trasformati. Fu questa la fine del latifondo garantista.
Christian Bianco Fiore
NOTE
[1] Cfr. Fausto Cozzetto, Estratto da prospettive Settanta 4/1981, Guida Editori, p. 484.
[2] Cfr. Idem, Latifondo: un modello storico da rivalutare criticamente, in «Pitagora», Luglio/Settembre 1990, Rubbettino, anno II, p. 80.
C. B. F. è appassionato di Storia moderna. Attualmente è impegnato in studi di ricerca sulla Storia economia calabrese.
(direfarescrivere, anno II, n. 7, settembre 2006)
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