Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
Un editore al mese
«Di nuovo Natale e non ricordo altro, ma tutti quei
maledettissimi squilli, quelli, li ricordo benissimo»
Vicende minimaliste di una donna della generazione del telefonino.
Relazioni umane, lavoro, amore: tutto risulta precario e provvisorio
Un racconto di Ande Di Luna, analizzato da Angela Verzelli  
La voce narrante del racconto breve che proponiamo questo mese presenta frammenti di vita quotidiana tra gli squilli incalzanti di un telefonino e i ricordi di una storia d’amore che, ci pare di capire, è finita qualche anno prima.
Un po’ ermetico nell’intreccio (siamo costretti a interromperci per chiederci chi sta telefonando a chi, se allo spettacolo sul barcone assista la coppia o anche l’amica e come vada poi a finire la storia con Luca), ci lascia però intuire con chiarezza come la vita proceda per incastri e sovrapposizioni di situazioni reali che non siamo in grado, quasi mai, di padroneggiare.
Il precariato di Paola: un’esperienza comune a tanti trentenni emerge qui come una delle tante facce della sua vita frammentata e, quasi senza più opporsi, il personaggio ne fa un elemento costante del suo andare avanti.
La politica, l’impegno, il femminismo: sguardi di generazioni diverse si proiettano sul contesto collettivo e individuale di un cambiamento sociale che ha reso quasi vecchie e banali parole d’ordine che sembravano avere un enorme valore solo pochi decenni prima.
Proiezioni di un futuro incerto: la maternità forse, prima o poi; la pensione, chissà quando, per chi un lavoro fisso già ce l’ha; una storia d’amore stabile, non fatta di frammenti di pomeriggi, se mai ci sarà modo di averla. Insomma, tutto ci appare, in questo racconto, come un flash, e quei maledettissimi squilli che aprono e chiudono il testo ci lasciano il dubbio se rispondere o no alla chiamata che, forse, cambierà la nostra vita.

Angela Verzelli


Stage Generation: parole al telefono in tempo di crisi

Prendete la parola “cellulare”: ma voi lo ricordate, il suo significato, prima che indicasse il telefonino? Io, dopo neanche un anno, ero già in crisi: dimenticato, rimosso. E giù a rimuginare su come sia stato possibile vivere tanto tempo senza lo strumento infernale, almeno noi, noi che abbiamo nel nostro vissuto almeno vent’anni di pace, noi che della generazione ribelle raccogliamo ora i frutti migliori. E quando si contestava, dico ora, come si poteva mai protestare senza il telefonino? Adesso, nella mia ventiquattr’ore, ne porto due, quando non li dimentico con tutto il genere umano delle loro rubriche nel tipico posto introvabile di quando squillano e si sta aspettando proprio quella chiamata urgente e imprevedibile che cambierà il corso della più grama esistenza…
Anche quel pomeriggio di Natale fu così. La spiaggia, la pioggia, il telefonino e il migliore amico di lei che seguiva il dibattito parlamentare sulla fiducia ad un governo di sinistra. Non so più come finì, ma tutti quei maledettissimi squilli, quelli, li ricordo benissimo.
Una mia amica diceva che avrebbe resistito stoicamente fino alla fine, che non le andava di dedicare alle persone le briciole di tempo avanzato tra una azione e l’altra nel ritmo frenetico delle sue giornate romane.
Quando aveva voglia di rilassarsi e di tornare ad amare il mondo e quindi a parlargli – perché parlarsi è molto più che amarsi, sapete, parlarsi è il modo in cui l’amore si manifesta nel linguaggio –, lasciava la capitale e veniva a Sabaudia.
In realtà non riuscivo a immaginarla in riva al mare e nemmeno china sul lago nell’atto di specchiarsi il viso e le mani, forse perché la vedevo sempre costretta in quel diavolo di tailleur così poco femminile, l’armatura aziendale sotto la quale secoli di Bradamanti, di Erminie e di Clorinde si muovevano nei loro sinuosi corpi di donne in carriera.

«Se mi accompagni sul barcone, ti mostrerò l’approdo di Ulisse in queste terre». «Paola, non so se potrò assentarmi dal lavoro nel fine settimana, vediamo».

Luca era un vero imbranato, anche se fingeva di no: non si decideva mai in nulla. Avevo scoperto un angolo di paradiso e ogni volta che ci tornavo non potevo non pensare a lui. Lì il cellulare non esisteva, guai a turbare la quiete del lago, anche perché non ci si poteva arrivare da quel viottolo: era p r o p r i e t à p r i v a t a . Bisognava passare, per la precisione, dal Villaggio dei Giornalisti e chissà in che modo la mano potente dell’Ordine aveva allungato la sua ombra su quella striscia paradisiaca dell’Eden latino…
D’inverno era magnifico. Non c’era nessuno a saccheggiare il paesaggio con le sue sudicie orme di rapina e con quelle volgarissime cofane di insalata di pasta preparate la mattina prima di indossare costume e copricostume, pareo e pantapareo e venire al mare tutti colorati come se si pretendesse di competere con il cielo e con il sole.
Era tutto deserto, desolato come nel giorno conclusivo di una fondazione storica.

«Ah, Luca, finalmente sei arrivato! Appena in tempo per imbarcarsi…».
«Ho fatto una corsa… sulla Pontina era tutto bloccato e, quando sono arrivato qui, ho sbagliato strada, mi sono ritrovato davanti a una chiesa piccolissima dove c’era una…».
«Va bene, va bene, me lo racconti dopo, adesso vieni con me nell’Odissea…».

Gli attori erano bravissimi e lo spettacolo talmente verosimile che, prima di capire che si trattava di una finzione teatrale, eravamo arrivati al centro del lago con il sole al tramonto, però il pensiero era rimasto fisso alla madonnina di legno che dal fondo di quella chiesetta sembrava bearsi e annuire dinanzi allo spettacolo della natura.
Paola mi raccontò che durante l’adolescenza, coi suoi amici, venivano spesso qui a organizzare degli scherzi… come quella volta in cui l’assessore alla cultura scivolò giù dal palco presenziando a una serata musicale estiva. La buccia di banana l’avevano messa proprio loro i Setenevaitipentirai, stufi di restare a suonare per amici e parenti dopo essere stati abbandonati dalle personalità e dalla stampa per la sesta edizione: politicanti! Non capivano ancora che c’era bisogno di loro tra la gente, che i giovani non andavano abbandonati alle sole orazioni della Madonna della Soresca.

«Be’, così avrebbero imparato!», commentò Paola quando cercai di protestare durante il racconto della sua piccola bravata di brigata. Sì, perché loro volevano fare gli alternativi, ma finivano sempre per prenderci un sacco di mazzate. Una volta ruppero addirittura il vetro di un’auto parcheggiata nelle piazzola di sosta sul lungomare per prendersi una borsetta con tanto di contenuto e di documenti. Peccato, perché trovarono solo Lavorare stanca e le Poesie del disamore di Pavese: il book-crossing in quegli anni non esisteva neanche da lontano nelle menti degli italiani e di scimmiottare la setta dei poeti estinti, poi, nemmeno a parlarne.
Nel frattempo sul barcone era salito anche lui, Odysseus. Si dovette proprio mangiare il fegato, l’attore, quando la prima della classe di turno gli rovinò, pronunciandola insieme a lui, la fatidica, sospirata, sussurrata, sognata, ultima battuta del monologo mitologico: me al largo / sospinge ancora il non domato spirito/ e della vita il doloroso amore…
Paola nemmeno se ne accorse, il suo campo era decisamente un altro. Chissà cosa faceva Luca, lì, attento e morigerato accanto a me su quella barca, quale diamine di pensiero doveva attraversare le sue meningi per allontanarlo in quel modo da ogni plausibile scopo di seduzione. Con la promozione a capo del personale, sai che difficoltà destreggiarsi con tutti quei numeri di buste paga, protocolli e contratti, non era proprio nelle sue corde, si vedeva lontano un miglio. Già, contratti, il sogno di ogni trentenne del terzo millennio, il miraggio di questa generazione di superlaureati destinati alle fotocopie dai generosi padri della rivoluzione giovanile dal trenta politico che non si decidono a mollare le proprie poltrone neanche con la minaccia di una pensione da riscuotere per la prima volta nell’oltretomba. E quale Orfeo tornerebbe allora a recuperare la sua Proserpina sessantottina?
Ma Luca ce l’aveva fatta, anche perché non era un trentenne della Stage Generation e la promozione era ormai soltanto questione di pochi giorni, insomma una mera formalità.
Ormai tutti applaudivano entusiasmati dalla performance sul barcone e anche noi ci alzammo per sbarcare.
Baciammo la petrosa Itaca aziendale appena il giorno dopo, uno dei terribili lunedì lavorativi nel mirino di adulti e meno adulti, dopo una serata di magia sotto la luna di Circe.

«Era stata un’illusione… addio contratto a tempo indeterminato, lo sapevo».
«Ma Paola, te lo dico sempre che a sgualdrineggiare col capo ci si guadagna poco, e non provare a darmi della moralista. Di cosa si lamentano le donne se del proprio sesso fanno la sola arma contro il potere del maschio dominante?».
«Smettila con questi slogan da gramigna, Giulia, questa volta non è come pensi».
«Ah no? E com’è?».
«È che, nonostante le mie iniziali pessime intenzioni, questa relazione è diventata importante».
«Nonostante il playbambino e la sweetmoglie?».
«Mhhh… cosa vuoi che mi importi della sua famiglia? Ce l’avremo mai noi una famiglia? Se per permettersi un figlietto, dobbiamo diventare delle floride quarantenni… È un istituto ormai antiquato, comincia a metterlo nello scontro generazionale per quando ti scornerai con la tua pupa adolescente…».
«Va be’, guarda, se hai intenzione di continuare su questa linea, magari ci salutiamo, però, ti ricordo che sono già tre anni che va avanti questa manfrina e che non ti ho sentita felice neanche una volta da quando è cominciata. Perché non pensi a qualcosa di più serio?».
«Tipo?».
«Tipo che tra un mese si vota per le politiche, tipo che se continui a sostenere coloro che lottano per il precariato, passerai pure i prossimi quattro anni in stage non retribuiti».
«Già, le politiche, non ci posso pensare. Io lavoro e l’azienda guadagna. Non poteva darli a me quei soldi, lo Stato?».
«Sai, Paola, il vero problema è che quasi tutti i partiti agiscono in questo senso. Solo ultimamente sembra pentirsi anche la sinistra, però bisogna vedere fino a quando… Magari informati un po’, poi decidi. Certo difficile isolarsi al punto di non accorgersi del cancan dei media che, da quando siamo in campagna elettorale, non parlano d’altro…».
«Pensa come sto! Va bene, allora sai cosa faccio adesso? Magari chiamo Luca e ne parliamo, tanto mi ha detto che nel fine settimana viene a Sabaudia in quella casa che ha comprato quell’anno che è diventato direttore del personale».
«Ecco, non avresti potuto partorire idea migliore, mi complimento. Vieni con me a sentire il ministro delle politiche sociali piuttosto, terrà un incontro pubblico con la stampa proprio domani mattina».

Quei due avevano un rapporto a pelle veramente distruttivo e pensare che non si erano neanche mai incontrati.

«L’ironia di Giulia non mi è mai piaciuta, Paola, te l’avevo già detto? Parla come se la realtà fosse tutta bianca o tutta nera, come se scegliere fosse facile…».
«Lascia stare questi discorsi, Luca, sono anche banali, volendo».
«Scusami Paola. Tra poco sarò da te in ogni caso, ne riparliamo, se vuoi. Ci vediamo davanti alla Villa Romana tra una mezz’ora».

E di nuovo era Natale, il quarto, tra discussioni e lacrime inutili. Cosa mi aveva detto la testa quando mi innamorai di lui, non lo so ancora. La mezz’ora sembrò un’eternità, ma anche quel pomeriggio fu così. La spiaggia, la pioggia, il telefonino e la migliore amica di lui che seguiva il dibattito parlamentare sulla fiducia ad un governo di destra.
Sono dieci anni che torno qui ogni inverno quando piove. Mi siedo sulle scale di legno che passano sulle dune e ascolto, ascolto il presente, perché ogni storia trae la propria luce e la propria intensità dal presente e serve, nel suo significato più profondo, solo al presente. Il freddo, i passi, le orme, il viola, gli uccelli… non so nemmeno più come finì, le mie parole erano incendi / le mie parole eran pozzi profondi / verrà un giorno un giorno improvvisamente / sentirai dentro di te / le orme dei miei passi / che si allontanano / e quel peso sarà il più grave.
E non ricordo altro, ma tutti quei maledettissimi squilli, quelli, li ricordo benissimo.

Ande Di Luna

Chi è
Così si autodescrive Ande Di Luna: «Umanista e giovane cittadina del mondo, appartiene alla Stage Generation e a quella categoria di donne e di uomini del presente e del futuro alla ricerca di altre possibilità nell’arte, nella politica, nell’impegno sociale e civile. Incapace di prendersi troppo sul serio, ama l’ironia e l’umorismo e ride quando si potrebbe piangere. L’altra sua occupazione (non retribuita) è porsi delle domande, motivo di emarginazione da parte del popolo della Tv spazzatura e del talk show. La sua identità plurima e itinerante – mai ambigua, mai doppia – la vede insegnare nelle scuole superiori, scrivere in diversi giornali e riviste, cantare non soltanto sotto la doccia, militare per la città di tutti».

(direfarescrivere, anno II, n. 2, gennaio 2006)
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