Una rassegna attraverso i secoli dei vari appellativi al femminile
di Guglielmo Colombero
Nel numero precedente della nostra rubrica, ci siamo soffermati a riflettere sul problema del sessismo che dalla lingua si traspone nella società, di cui il nostro linguaggio quotidiano è specchio.
Con questo articolo intendiamo continuare la nostra riflessione, indagando ancora sulla tematica in una prospettiva storica, filosofica e culturale che ci permette di comprendere la provvisorietà della presenza femminile nei diversi contesti sociali che hanno caratterizzato la nostra Storia.
La nomenclatura del potere femminile attraverso i secoli
Un caso emblematico di imbarazzo linguistico nella trasposizione al femminile lo rintracciamo già in riferimento alla fascinosa figura di Cleopatra: il titolo di faraona appare più consono al pollaio che alla reggia. Per la bella seduttrice dei Cesari gli storici usano il termine più generico di regina d’Egitto (in greco, basilissa, che è il femminile di basileus, sostantivo che significa sovrano. La più celebre delle basilisse sarà, mezzo millennio più tardi, Teodora, incoronata imperatrice di Bisanzio dal marito Giustiniano).
Nella Roma imperiale, al termine imperator non risulta mai associato quello di imperatrix (solo più tardi, in epoca medievale, imperatrix mundi è l’appellativo della Fortuna nei Carmina Burana). Anche Livia Drusilla, vedova di Augusto, si dovrà accontentare del titolo di Augusta, mentre Elena, madre di Costantino il Grande, otterrà quello di nobilissima femina.
Nelle ville del patriziato romano, accanto alla figura del dominus, il padrone, sorge quella della domina, la padrona, la quale, se ha polso, diventa quasi una despota, una tiranna (detentrice, soprattutto, delle chiavi della dispensa…).
Nella Britannia celtica, la casta sacerdotale dei Druidi (una specie di teocrazia depositaria di segreti millenari) possiede il proprio versante femminile. Narrano le cronache del IV secolo che fu una Druidessa a profetizzare a Diocleziano, quando ancora portava l’uniforme di centurione, il delinearsi nel suo futuro dello scettro imperiale.
In pieno Medioevo, nel 924, l’ambiziosa nobildonna romana Marozia si appropria di un appellativo fino ad allora esclusivamente maschile, facendosi solennemente proclamare senatrix dal pontefice Giovanni X, il che suscita l’indignazione dello storico inglese Edward Gibbon, implacabile censore della pornocrazia, ovvero del “governo delle puttane”. Nello stesso periodo, ecco l’usurpazione sacrilega (ma quasi sicuramente leggendaria) della papessa Giovanna, a cui fu affidato tale incarico, data la credibilità del suo aspetto mascolino, smascherato subito dopo e punito con il linciaggio.
Nel XIV secolo, Eleonora d’Arborea governa con pugno di ferro la Sardegna, riverita e temuta come giudicessa.
Con l’appellativo di marescialla diventa celebre la fiorentina Leonora Doli Galigai, moglie di Concino Concini, favorito della regina di Francia Maria de’ Medici, caduta in disgrazia dopo l’esecuzione del marito e condannata nel 1617 alla decapitazione con l’accusa di stregoneria per volere del re Luigi XIII.
Nella Repubblica di Venezia, la nobile consorte del Doge assume il titolo di Dogaressa, rivestendo, sebbene fosse depauperata di qualsiasi potere, un ruolo fondamentale nei ricevimenti e nelle celebrazioni.
A Costantinopoli, nell’harem del Sultano, spicca solitamente una favorita che ottiene il titolo (esclusivamente formale) di Sultana (da cui la rinomata uva sultanina, prelibatezza riservata alla tavola dei signori del Corno d’oro). L’unica sultana a esercitare concretamente il potere fu la vedova dell’ultimo degli ayyubidi in Egitto, Shajarat al-Durr, bellissima ex schiava turca vissuta attorno al 1250, che inaugurò la dominazione mamelucca, risposandosi con il comandante delle sue guardie.
Nell’Europa feudale, le donne dell’aristocrazia ottengono il riconoscimento delle versioni femminili dei vari gradi di nobiltà. Eccetto che per marchesa, si utilizza sempre la forma in essa, per cui troviamo principessa, arciduchessa, granduchessa, duchessa, viscontessa, contessa, baronessa.
Nel Regno di Francia, la sposa dell’erede al trono ha diritto all’appellativo di Delfina, ma anche l’amante del re Enrico III di Valois, l’incantevole Diane de Poitiers, ottiene in epoca rinascimentale il titolo di Gran Siniscalca, ereditato dalla tradizione carolingia.
Nel secolo dei Lumi, in Prussia, la sorella prediletta di Federico II il Grande, Guglielmina (amica di Voltaire e amante delle belle arti), si fregia del titolo di margravia.
In tempi più recenti, la sventurata Mafalda di Savoia, morta a Buchenwald nel 1944, diventa langravia d’Assia in seguito al matrimonio con un aristocratico tedesco.
Nei monasteri, gli ordini di clausura istituiscono gerarchie corrispettive a quelle maschili: la badessa è l’abate al femminile, così come la generalessa (e anche la superiora e la consigliera).
Nell’immensa Russia, rigidamente patriarcale (è consuetudine che il marito fustighi la moglie almeno una volta la settimana, anche se non ha nulla da rimproverarle, tanto per ricordarle chi comanda in casa), le donne si affacciano nelle stanze del potere a partire dal 1682, quando la rivolta degli strelzi (le guardie imperiali create da Ivan il Terribile) proclama reggente Sofia Romanov, sorella del futuro czar Pietro il Grande. A Sofia viene conferito il titolo di zarevna, ma sette anni dopo Pietro la esautora, le fa rapare i capelli e la fa segregare in convento fino alla morte. Nel 1725, dopo la morte prematura di Pietro il Grande, inizia l’era delle czarine, destinata a durare sette decenni (i due unici sovrani maschi, Pietro II e Pietro III, regnano per poco tempo: il primo muore di vaiolo, il secondo strangolato da alcuni cospiratori): Caterina I, Anna Ivanovna, Elisabetta Petrovna, la tedesca Caterina II la Grande, che solo nel 1796 lascia il trono a un erede maschio, il figlio Paolo.
Le monarchie europee più evolute rendono omaggio alle donne coronate. Il 1 maggio 1876 la regina Vittoria è proclamata “imperatrice delle Indie” (Empress of India). L’unico inno nazionale al mondo con la strofa variabile legata al sesso di chi siede in quel momento sul trono, God Save the Queen, conferma questo spirito paritario insito nella monarchia britannica.
Nella Vienna mitteleuropea dell’impero Austro-ungarico, invece, il titolo di kaiserina (adottato da Maria Teresa d’Asburgo nel Settecento) assume nuovamente un notevole prestigio solo grazie al fascino e all’intelligenza (anche politica e diplomatica) di Elisabetta di Wittelsbach, imperiale consorte di Francesco Giuseppe (la mitica Sissi).
Ultima, sinistra espressione al femminile di un ruolo politico eminentemente maschile è quello da conducator a conducatrix. Dapprima oscura impiegata ministeriale, Elena Ceausescu, sposando nel Dopoguerra il segretario del partito comunista romeno, ne diviene l’eminenza grigia, l’anima nera. La conducatrix gozzoviglia con caviale e champagne, mentre i bambini romeni malati di Aids crepano negli orfanotrofi-lager come animali in un canile. Finalmente, nel dicembre 1989, alcuni giovani soldati insorti le legano le mani dietro la schiena, incuranti delle sue grida lamentose, la spingono contro un muro insieme al marito tiranno e la fucilano.
Le nuove amazzoni: rivoluzionarie, brigantesse e guerrigliere
La Rivoluzione francese non emancipa le donne (suona come enunciazione tipicamente sessista persino la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 4 agosto 1789), ma, in alcuni casi, ne mette in luce lo spirito combattivo.
Thérésa Cabarrus, moglie del deputato Tallien, è una delle artefici della caduta di Robespierre e passa alla Storia come Notre-Dame de Thermidor. Quanto al titolo di Impératrice des Francais, lo otterranno le due mogli di Napoleone, Josephine de Tascher de la Pagerie, l’ambiziosa creola venuta dalla Martinica, e poi l’austriaca Maria Luisa d’Asburgo.
Nell’Italia unificata solo sulla carta, suscita scalpore la figura di Maddalena de Lellis, meglio conosciuta come Padovella, la brigantessa del Matese. Alcune fotografie d’epoca la ritraggono mentre impugna lo schioppo con la faccia feroce. Scontati 25 anni di carcere, de Lellis torna al suo paese d’origine e si redime dedicandosi agli orfani poveri (morirà settandaduenne nel 1908).
Una vicenda analoga quella della comunarda Louise Michel (nome balzato alla ribalta grazie all’omonimo film francese del 2008, diretto da Gustave de Kervern e Benoît Delépine), la quale però non impugna le armi per depredare i ricchi, ma per combattere contro gli zuavi mandati da Thiers ad annientare la Comune di Parigi nel 1871. Esiliata in Nuova Caledonia, si occupa della scolarizzazione degli indigeni kanaks.
Anche la soldadera Dolores Jiménez y Muro, passata indenne attraverso il macello della Rivoluzione messicana e morta nel 1925 a 77 anni, è una rivoluzionaria che lotta al fianco del mitico Emiliano Zapata. Comunarde, brigantesse, soldadere: declinazioni al femminile di protagonismi in passato esclusivamente maschili, segni dei tempi che cambiano, eroine di una revanche neoamazzonica risorta sulle ceneri del matriarcato, che sa conquistarsi uno spazio anche nel lessico mediante l’onda d’urto delle rivoluzioni del XIX e del XX secolo.
A loro si aggiungono guerrilleras, camaradas, tigri Tamil, la metà oscura del cielo, che metabolizza la violenza tipicamente patriarcale assorbita in duemila anni di Storia e la risputa fuori come un rigurgito corrosivo. Anche se sussidiaria rispetto all’egemonia iconografica del “Che”, la sua compagna d’armi Haydée Tamara Bunke Bider, uccisa dai rangers boliviani il 31 agosto 1967, al guado di Puerto Mauricio, passa alla Storia come Tania la guerrillera.
Anche Carlota Tello Cuti, terrorista di Sendero Luminoso, giustiziata sommariamente dai militari peruviani il 14 novembre 1984 a Pangora, diventa famosa come la Camarada Carla.
Infine, una tigre Tamil, Thenmuli Rajaratnam, confeziona una corona di fiori imbottita di tritolo e il 21 maggio 1991, a Sriperumbudur, si fa saltare in aria insieme al primo ministro indiano Rajiv Gandhi.
In questi frammenti di tragedia storica la parità lessicale è frutto di un teorema nichilista: la donna rincorre l’uomo nella parabola del parossismo distruttivo e lo affianca, ansimante. Forse sotto questo aspetto sarebbe stato meglio per lei rimanere indietro…
Il sessismo pruriginoso dell’immaginario filmico: padrine e pretore
La fenomenologia cinematografica degli anni Settanta, in Italia, ci offre un panorama illuminante del sessismo linguistico.
La valanga delle televisioni private ancora non aveva travolto i cinema di periferia, le famigerate terze e quarte visioni, in cui pellicole spesso scadenti circolavano fino allo sfinimento. La censura governativa opponeva ancora un argine, sempre più vacillante, alla rappresentazione esplicita del sesso, per cui il pubblico maschile si doveva accontentare. Attrici rinomate per i loro vistosi attributi da maggiorate come Carmen Villani, Edwige Fenech, Femi Benussi, Nadia Cassini, Paola Tedesco e tante altre davano vita a una galleria di figure post-sessantottesche, in cui la teologia femminista della liberazione sessuale finiva contaminata da rigurgiti di feticismo voyeuristico e ostinatamente fallocratico.
La dottoressa del distretto militare, la gorilla, la lupa mannara, la poliziotta della buoncostume, la seminarista, la portiera nuda, la supplente, la professoressa di lingue, la pretora, la soldatessa alla visita militare, la pistolera, la sceriffa, persino la padrina… La stagnazione obsoleta e parassitaria di un paese arretrato, ancora intrappolato in spaventose sacche di arretratezza sociale frutto del clericalfascismo oscurantista del Ventennio, espelleva i propri anticorpi nelle fogne della sottocultura cinematografica, fumettistica e pseudopornografica.
Ma nel frattempo il paese progredisce, sia pure a piccoli passi: il delitto d’onore scompare nel 1968, il divorzio è introdotto nel 1970 e sventa il colpo di coda fanfaniano del referendum abrogativo nel 1974, la patria potestà viene abolita nel 1975, l’aborto non è più reato nel 1978 e supera lo scoglio della crociata di matrice polacca del 1981…
Intanto, quasi a volersi vendicare, il cinema di largo consumo (dominato da produttori e registi di sesso maschile) si accanisce sulla donna, calpestandola come feticcio sessuale, come oggetto di consumo, anche negli stravolgimenti del lessico, che comunque nascondono sempre un’intima prevaricazione filosofica ed esistenziale. Il “tallone di ferro” maschilista mostra le prime incrostazioni di ruggine, ma continua a opprimere le donne italiane e non solo. Le eccezioni sono rare.
Nel 1970, ispirandosi a un proprio romanzo, Alberto Bevilacqua dirige il film La califfa, dove Romy Schneider volge al femminile l’etichetta adottata per i maschi-padroni dell’harem, urlando in faccia agli uomini la sua voglia di emancipazione e di libertà, anche sessuale (come puoi sentirti libera se non sei nemmeno padrona del tuo corpo?). Schneider tornerà pochi anni dopo a interpretare un ruolo affine in La banchiera, film francese sulla figura di Marthe Hanau, La Banquière des années folles, travolta come Stavinsky nel 1935 da uno scandalo finanziario che ne provocò il suicidio.
In tempi più recenti, il ciclone di Tangentopoli spazzò via Anna Chiara Danieli, capitana d’industria friulana…
Tornando al mondo delle arti figurative, un’altra curiosa trasposizione femminile di un appellativo (satanico e non religioso) solitamente maschile, riguarda Leonor Fini, la diavolessa di Parigi, pittrice dalla bellezza arcana e inquietante come i quadri che dipingeva.
Un’avanguardia intellettuale per abbattere il sessismo linguistico
La filosofa Edith Stein, ebrea polacca che si convertì al cattolicesimo e, divenuta suora carmelitana, morì ad Auschwitz il 9 agosto 1942 a soli 51 anni (fu santificata nel 1989 e proclamata compatrona d’Europa), aveva individuato gli elementi generali della distinzione fra maschile e femminile, precisandone le caratteristiche peculiari irriducibili.
Secondo Stein, proprio queste differenze determinano il destino di ogni essere umano, per cui invita a ripensare il femminile in rapporto al maschile, per trovare una relazione equilibrata fra i sessi (il concetto di parità espresso in altri termini…).
Sicuramente, uno dei versanti cruciali su cui operare questa revisione è quello della comunicazione sia scritta che verbale. Il teologo dissidente Hans Küng si spinge ancora oltre: «se noi tutti, donne e uomini, non tolleriamo più il sessismo e il patriarcalismo: fin quando nella chiesa il potere resta solo nelle mani dei maschi, mentre dalle donne ci si aspetta che servano per amore e rappresentino la dimensione della premura e della dedizione, l’unità di potere, giustizia e amore, fondamentale per i cristiani, viene infranta e rovinata; […] in tutto il mondo le donne hanno cominciato a smascherare il sessismo e il patriarcalismo presenti nella chiesa e nella teologia cristiana; esse non accettano più le strutture ecclesiastiche e teologiche di subordinazione delle donne, ma le criticano apertamente come espressione di un dominio ingiusto e ingiustificato […] nella convinzione, che “in Cristo non c’è né uomo né donna” (Gal 3,28)» (da Visione di una Chiesa futura, 1987).
Rispetto alla «reductio ad masculum» della donna, auspicata nel Vangelo apocrifo di Tommaso (unica possibilità di accesso per lei alla beatitudine celestiale), sicuramente qualche passo in avanti c’è stato… Lo evidenzia Laura Tussi, docente di lettere e giornalista, studiosa di tematiche sociopedagogiche, in Le differenze di genere nella cultura occidentale (su HREF="http://www.peacelink.it/sociale" TARGET="_new">www.peacelink.it, 23 giugno 2009). Qui l’autrice ha analizzato un aspetto fondamentale della disuguaglianza sessista sul versante storico-filosofico: partendo dal presupposto che la cultura trasmessa appartiene alla civiltà patriarcale del passato, Tussi osserva che «il patriarcalismo appare naturale, così ovvio, scontato e inevitabile da non dover essere nemmeno segnalato. L’atto di questa segnalazione è ritenuto offensivo nei confronti della popolazione femminile, forse per un malinteso criterio di correttezza». Sarebbe come omettere di citare l’antisemitismo per timore di offendere un ebreo…
Per cui, se ogni forma di sapere androcentrica è definibile come sessista (e le origini di questa discriminazione hanno radici antiche: Aristotele riteneva le donne esseri incapaci di ragionare e le catalogava come una sottospecie umana), sessiste sono le origini della filosofia occidentale di matrice greca, sessista è il lessico stesso della filosofia (che «non si avvale di neologismi coniati in epoca posteriore»).
Nella cultura anglosassone, invece, è riscontrabile un atteggiamento più pragmatico, che punta a sbarazzarsi, sia pure con gradualità, delle incrostazioni sessiste presenti nel linguaggio (un prototipo assimilato anche in Italia è quello del sostantivo manager: prevale ormai l’uso di donna manager, senz’altro più incisivo di la manager). Del resto, l’illustre linguista britannico Neil Smith, collegando la lingua alla psiche, negava la possibilità di legiferare su come la gente si esprime.