Le donne hanno rivendicato da tempo il proprio diritto ad una reale uguaglianza con gli uomini. In numerosi stati occidentali sono state varate le condizioni paritarie fra uomini e donne, sancendo uguali diritti e uguali doveri e la stessa dignità nella famiglia e nell’ambiente di lavoro. Ma siamo certi che l’emancipazione femminile si sia compiuta?
C’è un “luogo” nel quale la presenza femminile sembra ancora incerta. Questo “luogo” è il nostro linguaggio quotidiano.
Eppure la grammatica italiana è chiara. I nomi che indicano esseri viventi sono mobili: hanno una forma maschile e una femminile. Quest’ultima, a seconda dei casi, presenterà la desinenza in -a, in -essa, in -trice, in -ina: maestro/maestra, dottore/dottoressa, attore/attrice, eroe/eroina.
E quindi: ministra, sindaca, deputata, avvocatessa, direttrice. Forse “suonano male”? Vuol dire che c’è un pregiudizio: forse non è il vocabolo a “suonare male”, ma il suo significato, non c’è un problema di forma, ma di sostanza. Non siamo abituati a queste parole al femminile perché le donne non hanno mai ricoperto, prima d’ora, quelle posizioni. Ora che le ministre, le deputate e le architette ci sono, usiamo le parole giuste: finché useremo espressioni anomale per indicare le donne (per esempio: la donna ministro), la loro presenza in posizioni di prestigio sarà sempre percepita e perpetuata come un’anomalia.
Il convegno presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia
Da oltre due decenni studiose e studiosi italiani affrontano il problema del sessismo linguistico e dibattono la tematica per sensibilizzare i mezzi di informazione e di comunicazione ad un uso non sessista del linguaggio: proprio di recente, presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, si è svolto un convegno intitolato Donne, lingua e politiche linguistiche il cui scopo principale era, appunto, «sensibilizzare la società civile italiana sull’importanza di rendere visibili le donne ogni volta che queste siano le protagoniste, da sole o insieme agli uomini, di fatti e decisioni importanti per il nostro paese».
Alma Sabatini (purtroppo prematuramente scomparsa in tragiche circostanze), studiosa del linguaggio e autrice di un testo fondamentale in materia di discriminazione sessista come Il sessismo nella lingua italiana (in collaborazione con Marcella Mariani, Edda Billi, Alda Santangelo), edito dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1993, sognava di «promuovere un’operazione di visibilità della figura femminile sul piano linguistico attraverso l’adozione ufficiale dell’uso del genere femminile per le cariche istituzionali e per tutti i ruoli e professioni ricoperte da donne».
In pratica, Sabatini esortava sia a evitare il maschile non marcato e l’articolo con i cognomi femminili, che ad accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi prevalenti e a usare il femminile nei titoli professionali in riferimento alle donne.
Di tenore analogo è l’istanza portata avanti da Cecilia Robustelli, autrice (insieme a Martin Maiden) di A Reference Grammar of Modern Italian (edito da Oxford University Press, Usa, 2009), riassunta nell’affermazione: «ciò che non si dice, non esiste».
Infatti, all’interno del vademecum Saperi e libertà. Maschile e femminile nei libri, nella scuola e nella vita, Robustelli affronta nel saggio Lingua e identità di genere il problema della metamorfosi lessicale, indispensabile per superare il sessismo linguistico. In altre parole, lo avrebbe potuto ribadire Marguerite Yourcenar nel suo romanzo Opera al nero, mettendo in bocca al protagonista Zenone – mentre contempla la propria immagine riflessa nello specchio – la frase «non habet nomen proprium» [1].
Se anche Umberto Eco si fosse reso conto che era fallita la sua tormentosa ricerca de Il nome della Rosa? È innegabile che «stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» [2], per cui, se il genere femminile già esiste prima che le sia attribuito un nome, vuol dire che si tenta, subdolamente, di negare l’esistenza di un qualcosa che comunque c’è, facendo credere che non esista.
In concreto: il sindaco di sesso femminile esiste, anche se nel vocabolario non troviamo la parola sindaca o sindachessa.
Il linguaggio sessista, quindi, come autorevolmente sostiene Adriana Perrotta Rabissi, esperta di Storia del femminismo e figura di spicco della Rete informativa “Lilith” (in Linguaggiodonna, primo thesaurus di genere della lingua italiana, scritto insieme a Maria Beatrice Perucci, Utopia, 1989, e nato da un’elaborazione compiuta dal Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia, in collaborazione con la Libreria delle donne di Firenze), non è definibile solo come «il prodotto e il riflesso dell’organizzazione sociale dei parlanti, ma è, innanzitutto, lo strumento che dà forma alla realtà; è il luogo in cui si costruiscono e stabiliscono i modelli di comportamento, le rappresentazioni sociali, le visioni del mondo a cui si adeguano e si conformano le donne e gli uomini».
Il linguaggio come strumento
Il linguaggio monosessuato è un potente strumento di oppressione culturale: discrimina le donne in quanto tali, esclude il genere femminile, emargina sia il femminino che la femminilità, sminuisce l’espressione del femminile e la subordina al maschile, mortifica le aspirazioni della donna, ignora le sue istanze, censura le sue proteste, rimuove il sedimento storico del matriarcato, confina la cultura femminile in riserve recintate, ghettizza il pensiero femminile, ne addomestica le pulsioni liberatorie e ne ammansisce la dissidenza contro la mentalità maschilista, ridimensiona la componente (maggioritaria) femminile della società e ne svaluta l’importanza, ne deprezza il peso politico.
In Parlare e scrivere senza cancellare uno dei due sessi (da Educare ad essere donne e uomini: Intreccio tra teoria e pratica, a cura di Eleonora Chiti, Rosenberg e Sellier, 1998) Perrotta Rabissi sottolinea che «un certo modo di parlare, appreso fin dalla prima infanzia, e, in quanto tale, percepito comunemente come un fatto naturale, e non storicamente determinato, diventa per automatismo un certo modo di pensare che nel nostro caso comporta una svalorizzazione del femminile». E siccome è appurato che noi esseri umani, a differenza del mondo animale, «percepiamo-decifriamo la realtà in cui siamo immerse/i attraverso le lenti, schemi e categorie concettuali, apprese dalla nostra lingua», è indubitabile che la lingua costituisca «i binari su cui viaggia il nostro pensiero». Per cui «ciò che non ha nome nella nostra lingua per noi non esiste, con fatica riusciamo ad immaginare qualcosa che non sappiamo nominare». Da questi assunti di base è facile dedurre che una lingua androcentrica finisce per rendere “invisibili” i soggetti femminili e ne «occulta sia la presenza sia l’assenza […] dai processi della vita sociale, politica e culturale».
Molte delle dissimmetrie semantiche presenti nella lingua sessista sono espressione di un «ordine simbolico e materiale che ha confinato le donne nell’ambito del corpo, della sessualità, della riproduzione biologica e sociale, della cura familiare; ogni situazione che vede le donne fuori da questa sfera va considerata provvisoria e accessoria».
Tale stato di provvisorietà è testimoniato proprio dalla lingua e dai suoi usi, specie in quei settori in cui la presenza femminile, in ambito storico e culturale, era “innegabile” e doveva necessariamente trovare collocazione nell’immaginario collettivo.
Diversi e numerosi sono gli spunti che, in tal senso, si possono trovare nella Storia. Una panoramica su alcuni di essi sarà oggetto del prossimo articolo della nostra rubrica.
Guglielmo Colombero
[1] - La citazione in lingua latina, cui si fa riferimento, non può essere esplicitata nella sua traduzione letterale, ma la stessa autrice chiarisce meglio il suo significato subito dopo: «Era di quegli uomini che fino alla fine non cessano di meravigliarsi di avere un nome, come chi passando davanti a uno specchio si stupisce d’avere un volto e precisamente quello».
[2] - «La rosa originaria esiste solo nel suo nome; noi non possediamo che nudi nomi».
(direfarescrivere, anno VI, n. 54, giugno 2010)
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