Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
Questioni di editoria
Il significato intimo
del raccontare storie
Un curioso anti-manuale di stile
e tanti esempi illustri. Da Garzanti
di Eliana Grande
«Questo libro non è un manuale di scrittura», precisa Ferruccio Parazzoli – docente di scrittura creativa e autore di numerosi romanzi, saggi e racconti – in Inventare il mondo. Teoria e pratica del racconto (Garzanti, pp. 144, € 14,00), a dispetto di quanto il titolo sembrerebbe indicare, almeno di primo acchito.
L’affermazione, curiosa solo in apparenza, nasconde in realtà un’intima connessione con la finalità complessiva del testo. Riteniamo di poter rintracciare tale finalità fin da subito, nell’Introduzione: «L’uomo è la sola creatura che si rifiuti di essere ciò che è», esordisce l’autore citando Albert Camus. E immediatamente dopo aggiunge: «Per accettare di vivere chiediamo che ogni cosa, anche la più banale, la più quotidiana, rimandi, sotto la forma che la rende comunemente decifrabile ma sottomessa alla legge della caducità e del dolore, a una realtà tanto più ricca da essere nello stesso tempo una inesauribile foresta di simboli. È la vivificante realtà dello spirito che assume nell’arte la sua forma visibile».
La scelta di introdurre il lettore al libro facendo ricorso a questo tipo di registro, e creando questa particolare “atmosfera”, dischiude un orizzonte più ampio di quello che può essere lecito attendersi da un manuale di scrittura. Pare voglia indurre a interrogarsi soprattutto su “che cosa significhi” scrivere, piuttosto che su “come lo si debba fare”.
Le parole che abbiamo voluto riportare creano un’aspettativa che non riguarda ricette, istruzioni per l’uso, schemi predefiniti, scalette, inquadramenti e tecnicismi vari. Piuttosto, ricollegandosi allo stesso titolo, essa è tensione e attesa di entrare in un mondo. Quel mondo che lo scrittore, in quanto artista, propriamente “inventa”. È il mondo al quale si è accennato sopra, identificato come «vivificante realtà dello spirito che assume nell’arte la sua forma visibile».

Lo scrittore: artista e artigiano
La vocazione dello scrittore, dunque, è mestiere ed è arte. Anzi: prima è arte e poi è mestiere. Beninteso: ciò non significa che non vi siano regole, metodi, tecniche. Colui che narra è chiamato a imporsi una disciplina, a rispettare tempi, scadenze, esigenze esterne e personali. Usa trucchi da illusionista, modelli di riferimento, lucide strategie da pianificare e mettere in atto. Può sentirsi, a volte, anche “ossessionato” dai suoi stessi personaggi, imbrigliato dall’evoluzione della trama, dalla suddivisione in capitoli, paragrafi, sottoparagrafi. Paralizzato dalla pagina bianca o assillato da un nome, che dev’essere quello e non un altro. Da una virgola, che deve stare lì e non altrove.
Ma prima di tutto questo, secondo una precedenza che non è solo cronologica ma anche sostanziale (e, potremmo dire, essenziale), il narratore è chiamato a decodificare e trasmettere un’intuizione, un’ispirazione. Se vogliamo, una “visione interiore” che esige da lui una forma visibile, comunicabile all’esterno e, nel caso specifico, al lettore. E questa, l’abbiamo visto, è arte. Arte della parola e del silenzio, della punteggiatura e dello spazio bianco, del sussurrato e del gridato, del taciuto ma lasciato intuire e del riportato alla luce da luoghi remoti dell’inconscio.
E se scrivere, allora, è inventare il mondo, colui che scrive deve immaginarselo e descriverlo così vividamente, questo mondo, da risucchiarvi dentro il lettore quasi senza che egli stesso se ne accorga. Rapirlo dal contesto reale in cui si trova, dalla situazione e dalle circostanze in cui è immerso, e trasferirlo repentinamente ma con forza in un contesto nuovo, in quel mondo che ha inventato. Farlo raggiungere, investire o accarezzare, in ogni caso coinvolgere da altri suoni, colori, voci, volti, storie.

La scrittura “viva”: la “temperatura”…
Il foglio di carta, la pagina scritta, diviene così finestra, varco, passaggio da una dimensione all’altra, dal reale al simbolico, dal quotidiano all’immaginario, dall’esterno all’interno, senza, tuttavia, che il mondo nuovo perda nulla in vitalità, intensità, sensorialità, rispetto al contesto reale che ciascuno esperisce ogni giorno.
Scorrendo le pagine, ad esempio, Parazzoli ci invita a riflettere su come ogni libro abbia una sua caratteristica “temperatura”: «La temperatura che cos’è? Prendo un termometro, segna 35, segna 37, ci sarà un po’ di febbre; 39, 40: è febbre alta. E così è la pagina di qualunque libro. Tutti i libri, tutti i romanzi, come i corpi umani, hanno la loro temperatura». E continua spiegando che ciò è dovuto al fatto che «anche i libri sono dei corpi vivi» e «hanno una loro temperatura che gli è stata trasmessa dall’autore». E via con gli esempi e le citazioni, da Henry Miller a Yasunari Kawabata, da Louis-Ferdinand Céline a Georges Bernanos, e poi François Mauriac e Stephen King, Allen Ginsberg ed Eugenio Montale, nell’intento di mostrare come e perché alcune storie raggiungono temperature elevatissime, mentre altre sono gelate, sotto zero.

…e la voce dei libri
Oltre ad avere una propria temperatura, ogni racconto ha anche una sua voce caratteristica, quella di colui che, appunto, racconta. È la voce narrante: «Attraverso la voce narrante il mondo assume o perde fisicità». Con la sua intonazione, con il suo timbro e il suo ritmo specifico, essa si fa strumento creativo del mondo del narratore. Ecco perché «uno scrittore non può non pensare all’importanza della voce con cui si appresta a raccontare».
Ma prima ancora di usare la sua voce, egli deve trovarla, riconoscerla: «C’è qualcosa che risuona dentro di noi e che precede il fatto di esprimere. Se non sentiamo una voce dentro di noi che precede il fatto di esprimere, non riusciremo a scrivere».

Le due dimensioni dello scrivere
Incuriosiscono, rapiscono, affascinano fin dal titolo le pagine del libro intitolate: Orizzonti perduti. Lungo il periplo di un mondo alieno. Qui, mentre l’itinerario nella dimensione del narrare sta già virando verso la sua fase conclusiva, incrociamo sul nostro cammino termini capaci, per la forza del loro significato, di arrestare il nostro sguardo, mantenere viva l’attenzione, stimolare, ancora, alla riflessione. Sono parole che risuonano all’interno, perché abitano le profondità dell’animo umano, esplorate e scandagliate nel corso dei secoli da artisti, poeti, filosofi e ogni sorta di “inventori di mondi”. Termini come metafisica, mistica, mistero, rivelazione, vero, falso, sublime. Parole che portano la leggerezza e la freschezza dello spirito ma che, al tempo stesso, pesano, bruciano per l’intensità del loro senso. A volte spaventano, altre volte vengono svuotate di significato. Eppure restano lì, perché fanno parte della natura umana, della “bidimensionalità” che ci contraddistingue: «Chi vuole diventare uno scrittore deve […] tenere presente che non esiste solo la dimensione orizzontale ma esiste anche la dimensione verticale».
Il narratore, continua Parazzoli, deve saper cogliere «la sfida di sfondare la parete invisibile, ma indubbiamente esistente, che immette nella dimensione che si spalanca oltre la fittizia realtà quotidiana, tuffarsi oltre la parete […] e scoprire l’assurdo, lo stupore, lo scandalo di un’altra realtà, assai più vasta di quella materiale tra cui i corpi nascono, vivono e muoiono». E nell’indicare che «Il termine etimologicamente esatto che definisce la dimensione oltre la parete è: metafisica», l’autore precisa anche che la dimensione di cui parla non va intesa con valenza religiosa ma, ci sembra di poter dire, “psicanalitica”. La linea verticale, infatti, svetta verso l’alto ma contemporaneamente sprofonda verso il basso, nel sommerso, nell’inconscio: «I grandi scrittori che hanno usato la linea verticale sono scesi anche nell’abisso, nel profondo – de profundis; se dietro questo sia il fantasma di Dio, perduto o raggiunto, la mistica, è un’altra questione».
Il circolo si chiude, dunque. L’indicazione della dimensione metafisica fornita nelle ultime pagine risponde direttamente all’aspettativa creata dalle prime, quando si parlava di «vivificante realtà dello spirito».
E nel duplice orientamento della scrittura, verticale e orizzontale, rintracciamo la doppia dimensione dello scrittore, artista e artigiano, delineata fin dall’inizio. Del resto: «Fare lo scrittore vuol dire impegnarsi seriamente sia da un punto di vista artistico sia professionale. Le due cose non sono separate. Può avvenire, ma solo per disgrazia».

Eliana Grande

(direfarescrivere, anno VI, n. 53, maggio 2010)
 
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