Quale periodo migliore dell’autunno, per parlare di giovani e di lettura? Sì, perché in autunno, si sa, cadono le foglie e, all’apertura del nuovo anno scolastico, cadono anche le illusioni di chi opera nell’ambito dell’istruzione ma pure di studenti e genitori che si ritrovano ad affrontare i problemi dell’anno precedente, ancora insoluti, se non acutizzati dall’intervento di qualche provvedimento “nuovo di zecca”.
Proprio in questo autunno caldo di riforme (e di proteste) della scuola pubblica, gli editori italiani hanno scelto per gli “Stati generali dell’editoria”, il convegno biennale organizzato dall’Aie (Associazione italiana editori) svoltosi a Roma nei giorni 1 e 2 ottobre, il tema: «Scommettere sui giovani». E infatti di giovani si è parlato moltissimo − grazie anche ai numerosi studi prodotti dall’Istituto di ricerche politiche e socioeconomiche Iard Rps − , molto di lettura, ma, forse, troppo poco di editoria, dei problemi e delle prospettive di tutti i protagonisti della “filiera del libro”: editori, librai, bibliotecari, autori.
Obiettivo del convegno era creare un’occasione di riflessione tra gli editori e un momento di aperto confronto con il governo. Tra i relatori molti responsabili dell’Aie, sociologi, docenti universitari, giornalisti e anche personaggi di spicco della politica (ben tre ministri: della Gioventù, Giorgia Meloni, dell’Istruzione, Mariastella Gelmini e dei Beni e le attività culturali, Sandro Bondi; purtroppo assente, con una comunicazione dell’ultimo momento, il segretario generale della Presidenza del consiglio e capo dipartimento informazione ed editoria, Mauro Masi). Gli interventi di due relatori europei, impegnati nelle attività di promozione del libro rispettivamente nel Regno Unito e in Spagna, hanno contribuito a dare una prospettiva più ampia al convegno.
Appresso cercheremo, senza pretese di esaustività, di dare un quadro dei principali elementi che sono emersi.
Perché mai dovremmo «Scommettere sui giovani»?
In continuità con il tema scelto per il 2006, «Investire per crescere», si è voluta focalizzare l’attenzione sull’istanza secondo la quale, in un’epoca in cui le materie prime scarseggiano e il mondo globalizzato richiede competenze elevate, le vere risorse su cui investire siano le persone, e in particolare i giovani. Perché? Almeno per tre ordini di motivi: uno economico, uno sociale e uno etico.
Lo sviluppo culturale dell’ultima generazione e, in prospettiva, del paese si ripercuote positivamente sullo sviluppo economico, sul Pil e sulla competitività dell’Italia in ambito internazionale, le statistiche lo dimostrano ampiamente. Cultura, quindi, uguale investimento e non “spesa che non ci possiamo permettere”, come spesso è percepita, in primo luogo – purtroppo − da chi ha la responsabilità politica di operare delle scelte.
Parallelamente, questo sviluppo innesca una dinamica volta a innalzare il grado di mobilità sociale nel paese, ad aumentare, cioè, la possibilità per tutti di migliorare la propria condizione in termini di benessere economico e di riconoscimento sociale, ma anche di partecipazione, di impegno, di consapevolezza, incoraggiando, come feedback positivo, l’auspicato «sviluppo della persona», richiamato dal presidente della Repubblica nell’intervento di cui è stata data lettura all’inizio del convegno.
Beni “intangibili” evidentemente, questi ultimi, che sarebbe limitativo misurare soltanto sulla base della produttività.
Il punto di vista degli editori
Per gli editori (pur sempre imprenditori), su cui – è ovvio – non può ricadere tutto il rischio e il carico economico di un progetto complesso e di lunga durata che riguarda l’intera nazione, si tratta anche di aumentare la domanda di consumo culturale, puntando a conquistare la platea dei giovani in un mercato come quello del libro in cui, in maniera anomala, è l’offerta, e non la domanda, a guidare le fluttuazioni.
Un’offerta molto ampia, in verità: circa 60.000 nuovi titoli all’anno. «Molti libri importanti, e importanti anche perché molti», come ha fatto notare il presidente dell’Aie, Federico Motta, nel suo discorso di apertura, sottolineando l’importanza di garantire, in ambito culturale, la molteplicità e il pluralismo, strumenti di democrazia e di libertà.
Il mercato italiano del libro, pur relativamente esiguo, pare contraddistinto da una sostanziale stabilità, che se da una parte lo ha protetto dagli scossoni delle recenti crisi, dall’altra lo “cristallizza” in una situazione di grande divario: una vasta parte della popolazione che legge molto poco o non legge affatto e una élite che legge moltissimo. E, se è vero che i giovani leggono più dei loro genitori, è anche vero che i ragazzi italiani leggono meno dei loro coetanei europei e quasi mai per motivi professionali o per imparare delle abilità. In un bizzarro incrocio di significati, il libro viene raramente percepito come mezzo di risoluzione dei problemi o di consultazione, mentre la laurea, per eccellenza suggello dell’acquisizione di un sapere di ampia portata teorica, è diventata un requisito strumentale per trovare più facilmente un lavoro.
Aumentare la domanda di lettura, dunque, ma come si fa a stimolare qualcuno a leggere, se “non capisce quello che legge”? Il dato più preoccupante, infatti, emerso dai test europei Pisa-Ocse (il Programme for International Student Assessment dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) somministrati ai nostri giovani è il basso indice di literacy, cioè della capacità di comprendere o interpretare il significato di un testo. Il punteggio medio per l’Italia relativo alle competenze nella comprensione letteraria dei testi è minore di 23 punti della media europea (469 contro 492).
Foto di gruppo: un ritratto socioculturale dei giovani
Sulla condizione giovanile attuale ha estesamente riferito, tra gli altri, Carlo Buzzi (Iard Rps), offrendo alcune chiavi di lettura dei principali aspetti demografici, sociali e culturali: ne è emerso un ritratto di ragazzi che, a causa della diminuita espansione demografica, crescono circondati da adulti, e, pur essendo esposti a un maggior numero di stimoli e dotati di maggiori competenze, risultano svantaggiati quanto ad autonomia (intesa come “libertà di sbagliare”) e socialità; ragazzi che entrano precocemente, già a 11 o 12 anni, nell’adolescenza, (come atteggiamento culturale, più che età biologica) e ne escono tardivamente, condizionati – è vero – dal mercato del lavoro, ma anche da una intrinseca resistenza ad affrontare le tappe di passaggio della vita e acquisire ruoli adulti. Basta dire che la fascia di età di coloro che sono considerati “giovani” – nel rappresentare statisticamente i fenomeni della società – è passata dai 15-24 anni degli anni ’80, ai 15-34 di oggi.
In linea generale i giovani di oggi rappresentano, rispetto al passato, un gruppo più omogeneo: le differenze tra i sessi, tra Nord e Sud, tra chi risiede in una grande città o in un paese sono meno marcate di una volta e le mode del mondo globalizzato hanno contribuito ulteriormente a uniformarne lo “stile”, ma le differenze e la frammentazione si sono spostate sul piano della scelta di significati e simboli che alimentano un senso di appartenenza, creando una segmentazione che resta, in qualche modo, più nascosta e difficile, per gli adulti, da “leggere”.
Un altro tratto significativo che caratterizza culturalmente i giovani d’oggi è il loro modo di rapportarsi al tempo. La vita galoppa veloce, il nostro mondo cambia in maniera rapidissima e raramente c’è per loro il tempo, e tanto meno l’abitudine, di “metabolizzare” le esperienze; intrappolati allora tra un passato che fatica ad avere spessore e un futuro sfuggente, problematico, opaco, i giovani sono diventati «presentisti»: guardano al presente e questo orienta il loro modo di prendere le decisioni, privilegiando quelle scelte che mostrano di essere «reversibili», non definitive, e che spesso sottoscrivono all’ultimo momento utile.
Il naturale adattamento, come le leggi di sopravvivenza insegnano, ha dotato i giovani di maggiore flessibilità, ma anche i loro valori sono diventati, non già “inesistenti” (che è un luogo comune), piuttosto non organizzati, “relativi”: i giovani sono pronti a passare da un sistema di riferimento culturale e valoriale all’altro anche diverse volte in un giorno, semplicemente mutando l’ambito di esperienza, senza avvertire contraddizione o trasgressione. Se, però, questi sistemi di riferimento sono lontani tra loro o addirittura in contrasto, l’adattamento può diventare una forma strisciante di schizofrenia. Tanto più importante allora diventa che possano acquisire strumenti interiori e di pensiero adeguati per affrontare la vita, e la lettura è proprio uno di questi.
L’amore per la lettura: non “ereditario”, ma spesso “ereditato”
“Lettori si nasce”? Forse no, ma certo lo si diventa molto presto.
Gli studi statistici presentati dallo Iard Rps evidenziano che la tendenza a diventare lettori è fortemente influenzata dal grado di istruzione dei genitori (i figli di genitori laureati hanno circa il triplo di probabilità di diventare “lettori” rispetto ai figli di genitori non laureati).
Questo aspetto mostra di avere un impatto diretto sul rendimento scolastico e quindi, indirettamente, ha influenza sulle scelte professionali dei ragazzi e, perciò, sulla posizione sociale degli uomini e donne che essi diventeranno. Insomma, la “familiarità” o meno con i libri e la lettura rischia di creare una discriminazione nell’ambito della società, poiché genera un circuito perverso che finisce per deprivare ulteriormente i più deboli, indipendentemente dal talento. Occorre allora compensare a livello sociale questo squilibrio, perché è proprio la mancanza di opportunità di miglioramento a trasformare una società da “ineguale” a “iniqua”.
Ma, se prescindiamo dal background culturale di ciascuno, quali sono gli strumenti facilitanti di cui un ragazzo dispone per avvicinarsi alla lettura? La scuola (pubblica) certamente è uno di essi, ma non solo: il teatro, il cinema, le biblioteche, gli eventi culturali o di intrattenimento; tutti questi mezzi si rafforzano l’un l’altro, creano curiosità, vivacità, stratificano la conoscenza e stimolano il formarsi di nuovi nessi concettuali. Perfino la tecnologia digitale, di cui i giovani sono grandi utilizzatori, può essere uno spunto per la conoscenza e, quando non viene usata in tal senso, non è con la lettura che entra in competizione, ma piuttosto con la fruizione degli spettacoli televisivi.
Grandi (o piccole) assenti: le biblioteche
Le biblioteche sono spesso dimenticate quando si parla di promozione del libro, e assenti, in tutti i sensi, sono proprio le più piccole, quelle comunali o scolastiche, che dovrebbero costruire sul territorio un tessuto capillare e di qualità, favorendo l’incontro tra popolazione e abitudine alla lettura. Eppure non è stato sempre così: chi scrive ricorda che, pochi decenni fa, in tempi meno bui, le biblioteche scolastiche, anche nelle piccole città, rimanevano aperte durante l’estate per tutti i bambini che volevano trascorrervi il pomeriggio a leggere, un’iniziativa a costo (quasi) zero.
Oggi invece, anche laddove le biblioteche sono diffuse (la Regione Lazio, rappresentata dall’assessore alla Cultura, Cecilia D’Elia, ha vantato il 70% di copertura del territorio), la frequentazione da parte della popolazione (e dei giovani) non è molto assidua, forse scoraggiata da una inadeguata disponibilità di libri e di titoli. D’altra parte, come è stato evidenziato anche da Martino Montanarini (consigliere incaricato per le problematiche relative all’editoria per bambini e ragazzi dell’Aie), nonostante la presenza di alcune encomiabili iniziative − come “Amico libro” o “Piovono libri” −, insegnanti e biblioteche sono lasciati soli e non sono abbastanza agevolati da misure economiche o fiscali. Come se non bastasse, i fondi pubblici destinati alle biblioteche sono diminuiti del 28% solo quest’anno.
Peccato, perché la biblioteca aiuta anche a socializzare e favorisce lo scambio di idee, in contrasto con la figura del «lettore noioso, solitario, fuori moda e non attraente» che, come riferisce Honor Wilson-Fletcher – direttrice del progetto “Anno della lettura” in Gran Bretagna –, sta prendendo piede nell’immaginario collettivo ai nostri giorni. Questo senza nulla togliere all’esperienza emotiva e intima che un libro può rappresentare per ciascun lettore.
Dal punto di vista delle iniziative politiche, dubitiamo che le biblioteche possano essere sostituite dalle Comunità giovanili, auspicate dal ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, nelle quali i «giovani italiani» (vogliamo sperare che si tratti di un lapsus) si incontrerebbero e troverebbero a disposizione dei libri (quali?) per acculturarsi. È emersa, tuttavia, la proposta di creare un tavolo di discussione a cui prendano parte, in primo luogo ma non solo, rappresentanti delle Regioni, delle biblioteche e degli editori per pianificare gli interventi e favorire possibili sinergie tra tutti i soggetti coinvolti.
Le peculiarità dell’editoria scolastica
Ma torniamo alla scuola, vista questa volta dalla prospettiva degli editori. Quando si parla di libri di testo, occorre tenere conto del fatto che l’editoria scolastica, tra l’altro messa alla prova in ottobre da una campagna mediatica denigratoria che parlava di libri troppo corposi, patinati, cari e che dichiarava aumenti anche del 40% per i libri scolastici (contro l’1,7% reale), presenta diverse peculiarità.
I contenuti non sono liberi, ma dipendono dalla programmazione didattica decisa a livello centrale; certamente potrebbero essere migliorati, ad esempio, prevedendo un livello basic di apprendimento (magari facilitante per l’integrazione dei ragazzi figli di immigrati) e uno più avanzato, ma questo deve essere prima stabilito nei programmi ministeriali.
Chi decide la spesa non è chi acquista: si punta allora, per orientare la scelta, a migliorare la grafica, aumentare la ricchezza di informazioni, di schemi, fornire supporti multimediali, piuttosto che a una riduzione del prezzo.
La prevedibilità delle vendite è uno dei fattori che riesce, a parità di livello qualitativo, a tenere basso il costo dei libri scolastici, se questo elemento venisse meno (ad esempio se i libri si potessero “scaricare” da Internet) i prezzi certamente non potrebbero rimanere gli stessi.
Nonostante questi limiti, come ha fatto notare Giulio Lattanzi, consigliere di presidenza dell’Aie, è importante continuare a garantire l’esistenza di una pluralità di autori e di contenuti. Aggiungiamo noi: non vorremmo, dopo il “maestro unico”, vedere apparire nelle classi anche il “libro unico”.
È stata avanzata la proposta “concreta” di creare un tavolo di discussione tra ministero dell’Istruzione, docenti, editori e autori. Intanto, però, con un decreto, è stata bloccata per 5 anni la produzione di nuove edizioni di libri scolastici, con un impatto non certo lieve sull’insieme del mercato e sulla pianificazione degli investimenti di ciascuna azienda editoriale.
«Più cultura, più lettura, più Paese», che non resti solo uno slogan
Al di là delle considerazioni di carattere economico, è importante creare una sensibilità e un’attenzione diffusa ai temi e ai problemi della cultura e del libro. Quando si parla, in modo semplicistico, di libri scolastici “fai-da-te” presi da Internet in formato .pdf, bisognerebbe riflettere sul fatto che, oltre a non essere affatto economico (costi della carta, dei colori, della stampa, mancanza effettiva in molte case italiane di un computer), si va a scalfire l’idea stessa del diritto d’autore e il principio di “proprietà intellettuale” − che magari in altri ambiti più redditizi, come i marchi di moda, si vuole invece difendere −, aprendo il campo a ogni genere di contraffazioni, di speculazioni, di illegalità, all’evasione fiscale e, perfino, alla criminalità organizzata; si mette in pericolo, in prospettiva, la sopravvivenza di una produzione intellettuale “libera” e plurale, contribuendo al generale imbarbarimento della società. Lo dimostra, ad esempio, l’editoria universitaria, oggi quasi distrutta dalla inveterata pratica di fotocopiare i libri di testo, spesso incoraggiata dagli stessi insegnanti, elemento, questo, tanto più grave perché avviene proprio nella “culla della conoscenza”.
Dove va la scuola?
La scuola può contribuire a formare, fin da piccoli, una maggiore sensibilità ai problemi e ai rischi appena esposti? Molto dipende dalle politiche scelte per essa.
A questo proposito, ascoltare il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, mentre dava lettura del suo intervento, parlare di formazione fatta dai media, della scuola come strumento per trovare un posto di lavoro economicamente più redditizio e di supporto cartaceo «inevitabile» non ci ha fatto certo piacere. Che siano già in giro degli “eserciziari” per passare i test da ministro, come quelli che la stessa Gelmini suggerisce di approntare per i nostri giovani in modo che possano prepararsi a superare i test Pisa-Ocse, dandola a bere anche all’Europa?
Rivolgendosi agli editori, il ministro ha concluso con la richiesta «alla parte culturalmente più elevata del paese» di fare un sacrificio per il risanamento dello Stato, e di innescare un circolo virtuoso con le istituzioni. Un circolo più virtuale che virtuoso, visto che, in cambio di nulla, agli editori vengono chiesti sacrifici e idee. E fa riflettere che, mentre qui si discute di scuola, un paio di isolati più in là, su viale Trastevere, davanti alla sede del ministero dell’Istruzione si moltiplichino le manifestazioni di insegnanti e studenti e, appena poco più in là, il Parlamento, nonostante la concomitanza del convegno nazionale degli editori, stia elevando a 6 anni (sic!) l’intervallo di tempo di 5 previsto per le nuove edizioni dei libri scolastici.
Viene da chiedersi, allora, se questo genere di dialettica possa promuovere una reale crescita culturale nel paese e, anche, con la migliore buona fede possibile, “cui prodest?”: “a chi giova”, allora, questa riforma?
Dal Manifesto degli editori all’Appello... e poi?
Pur nella complessità della situazione generale, l’editoria italiana, e con essa tutti coloro che operano in tale ambito, ha bisogno di proposte e di risposte concrete, e queste, in un convegno che è parso, a nostro avviso, piuttosto “autoreferenziale”, non sono venute, nemmeno alle richieste già espresse nel 2006, come è stato sottolineato anche dallo stesso presidente dell’Aie.
Tra le richieste: lo sviluppo del “Centro per il libro e per la lettura” (un progetto pensato per coinvolgere soggetti pubblici e privati, centrali e locali, in un piano coordinato e continuativo di iniziative di promozione e nella creazione di un osservatorio per i fenomeni economici, sociali e culturali attinenti al mondo del libro) rimasto, finora, soltanto sulla carta; la valorizzazione degli strumenti orientati alla formazione e l’aggiornamento professionale costanti, con attenzione anche ai supporti digitali; gli incentivi fiscali per l’acquisto di libri; il rafforzamento delle “infrastrutture per la lettura”, prime tra esse le biblioteche; il riconoscimento e la valorizzazione dei diritti d’autore; l’impulso all’innovazione e alla ricerca tecnologica nell’ambito editoriale.
Nella logica dell’urgenza, allora, il documento conclusivo del convegno prodotto dagli editori da Manifesto (come era nell’edizione del 2006) si è trasformato in un Appello degli editori, un appello lanciato «all’intera società, ai genitori, alle famiglie, alle scuole, a tutte le agenzie educative pubbliche e private, al governo nazionale e ai governi locali, al sistema produttivo, alle forze economiche e sociali, ai media» per un maggiore investimento, sia pubblico che privato, orientato alla «crescita culturale e professionale e la motivazione delle persone». Ma gli editori chiedono anche che l’efficacia di questi investimenti e degli interventi legislativi venga costantemente verificata con dei monitoraggi in itinere per poter, eventualmente, correggere la rotta evitando di dissipare le già carenti risorse.
Due i progetti da sostenere prioritariamente: il “Centro per il libro e per la lettura” e il progetto “Amico libro”, che mira a ribadire il ruolo centrale degli insegnanti, con il coinvolgimento anche di bibliotecari e librai, nello sviluppare nei ragazzi in età scolare non solo la competenza tecnica di leggere, ma anche il piacere della lettura, “iniziandoli” a diverse tipologie di libro, cui potrebbero integrarsi anche contenuti digitali di qualità.
Riguardo al primo, il “Centro per il libro e per la lettura”, gli editori chiedono nel loro appello al ministro per i Beni e le attività culturali, Bondi, di riprenderne il disegno, difendendo gli stanziamenti ad esso destinati, già dimezzati lo scorso anno e in dubbio per il futuro. Su questo punto, lo stesso ministro nel suo intervento si è dimostrato sensibile e disponibile, identificandolo come un progetto centrale e strategico, anche se i tempi di realizzazione prospettati (gennaio 2009) sono parsi un po’ troppo ottimistici. Il secondo progetto ricade nella competenza del ministro dell’Istruzione, e anche a quest’ultimo gli editori si appellano per un impulso positivo.
Una grande alleanza
Se la «grande alleanza: bipartisan in senso politico, trasversale tra tutte le forze economiche e sociali, a partire dai nuclei familiari, per la promozione dei giovani anche attraverso la lettura» proposta dagli editori a conclusione del convegno riuscirà a trovare un corpo nella realtà, sarà il futuro a dircelo. Non possiamo che augurarcelo, in senso evolutivo, riprendendo un pensiero espresso nel suo intervento da Rogerio Blanco Martinez, direttore generale del ministero della Cultura spagnolo e responsabile del Plan de fomento de lectura: che dopo l’homo sapiens, possa sorgere l’homo lector.
Luciana Rossi
(direfarescrivere, anno IV, n. 35, novembre 2008) |