A poco più di un anno dalla scomparsa dell’editore di Adelphi, Roberto Calasso, riteniamo particolarmente interessante riflettere su un’opera d’argomento prettamente editoriale (ma non solo) firmata dallo stesso Calasso. Di questo grande editore, che ha segnato e continua a segnare la storia editoriale italiana dagli anni Sessanta del Novecento fino ai nostri giorni, sono state ripubblicate da la Repubblica, in occasione dell’anniversario della sua scomparsa, cinque tra le sue numerose opere di saggistica. Proprio il quinto e ultimo volume uscito insieme al quotidiano è quello di cui, in questa sede, proponiamo un’analisi: L’impronta dell’editore (Adelphi, pp. 164, €11,40).
Nonostante sia un saggio breve, reso ancor più breve, al momento della lettura, dall’abile penna dell’autore, tocca numerosi punti ed espone la personale idea di Calasso di cosa significhi questo ruolo e di chi sia effettivamente un “bravo editore”.
Come si può apprendere dalla Nota ai testi, l’opera è costituita da una serie di articoli precedentemente pubblicati su quotidiani nazionali (la Repubblica, Corriere della Sera), da qualche conferenza e da alcuni discorsi tenuti in occasione di eventi letterari e, infine, da testi inediti.
In questo articolo l’accento viene posto su tre aspetti che emergono dal testo di Calasso. Ovvero cos’è l’editoria e chi è l’editore, quali sono i suoi compiti e quali atteggiamenti (si parla in particolar modo di scelte) lo rendono “bravo”; quali sono gli interpreti del mondo editoriale che, secondo il parere del direttore editoriale di Adelphi, sono da considerare “bravi”; per concludere, la questione dei “libri unici” che caratterizza fortemente la casa editrice fondata sulle «affinità fra persone come fra libri».
La forma e il giudizio
Cos’è una casa editrice, dunque? Numerose possono essere le risposte e Calasso illustra la più affermata comunemente e, a suo parere, non del tutto esaustiva: «si tratta di un ramo secondario dell’industria nel quale si tenta di fare denaro pubblicando libri».
Per fare chiarezza l’autore chiama in causa il padre dell’editoria per come la conosciamo noi oggi: Aldo Manuzio. Calasso fa riferimento, in particolare, a due opere pubblicate da Manuzio: Hypnerotomachia Poliphili del 1499 e un’edizione di Sofocle pubblicata tre anni dopo, nel 1502. Se il primo è «un volume in-folio, illustrato da magnifiche incisioni che costituivano una perfetta controparte visiva del testo», il secondo è da considerare a tutti gli effetti il primo tascabile: ciò renderebbe Manuzio colui che «inventando un libro di simile formato trasformò i gesti che accompagnano la lettura». Quindi, intuizioni e azzardi geniali. Ma è davvero tutto qui? Ecco, quindi, che Calasso introduce uno dei concetti d’impatto che caratterizzano l’attività dell’editore.
Stiamo parlando della forma, ovvero «la capacità di dare forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro». Il catalogo di una buona casa editrice diventerebbe così un mosaico, i cui tasselli sono i libri che formano una sorta di opera variegata e, soprattutto, unica. Strettamente collegato al concetto di forma è quello del giudizio, «quella capacità primordiale di dire sì o no». Cosa fa un editore se non giudicare se un libro può o meno far parte del suo catalogo-mosaico? Un maestro del giudizio e della forma in editoria è senza dubbio lo stesso Calasso: senza queste qualità Adelphi non sarebbe la casa editrice che conosciamo. E chi, invece, secondo l’autore de L’impronta dell’editore è stato un grande in termini di scelte, di giudizi? Luciano Foà, denominato dall’autore di questo saggio il «revisore unico» dell’opera di Joseph Roth, autore tra i primi e tra i più adelphiani per eccellenza. Di lui e di altre personalità editoriali “storiche” incontrate da Calasso ci accingiamo a fare un’analisi.
Personalità editoriali
Abbiamo accennato a Foà, membro e fautore fondamentale nella costruzione di Adelphi, di cui Calasso apprezzava la capacità di giudizio e il modo in cui pensava al tema della grazia. Tra gli editori a cui l’autore de L’impronta dell’editori dedica dei capitoli troviamo: Giulio Einaudi, Roger Straus, Peter Suhrkamp e Vladimir Dimitrijević. Tutti uomini che hanno rafforzato «l’editoria come genere letterario» e nei confronti dei quali Calasso esprime tutta la sua stima.
Inoltre, nella costruzione del suo saggio sul mestiere dell’editore, Calasso pone l’accento su altre due personalità del mondo del libro. La prima, già citata, è individuabile nella persona di Manuzio, che ha avuto l’enorme merito di dar vita ad alcune innovazioni che hanno cambiato le logiche della fruizione del libro. La seconda è una figura a cui l’autore è particolarmente legato e che è stato determinante per la nascita di Adelphi: Roberto Bazlen, conosciuto più comunemente e amichevolmente con il nome di Bobi.
Proprio a Bazlen dobbiamo il concetto dei “libri unici”, ancora una volta analizzato con grande cura e maestria da Calasso.
“Libri unici” e il ruolo dell’editore: che c’è da fare?
Partiamo dalla definizione fornita dall’autore di questo originale saggio: «libro unico è quello dove subito si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto».
Ma come fare a trovare un collante tra i numerosi “libri unici” pubblicati da Adelphi? Nuovamente, Calasso richiama alla memoria ciò che diceva l’amico e collaboratore talent scout: «Forse soltanto il “suono giusto”, altra espressione che Bazlen talvolta usava, come argomento ultimativo.»
Alla questione dei “libri unici” di Adelphi viene affiancata da Calasso la questione del “libro unico” e della “biblioteca unica” che Internet negli ultimi decenni ha in gran parte realizzato, a sfavore dell’editoria cartacea. L’argomentazione è tra le più dense e questo tema meriterebbe maggiori approfondimenti. Ciò che, però, emerge dal saggio di Calasso, pubblicato originariamente nel 2013, è una certa “malinconica” speranza. Sentimento che viene condensato in queste poche ma emblematiche righe che riassumono ciò che rimane da fare all’editore: «Quale compito rimane per l’editore? Sussiste tuttora una tribù dispersa di persone alla ricerca di qualcosa che sia letteratura, senza qualificativi, che sia pensiero, che sia indagine […] Faire plaisir era la risposta che Debussy dava a chi gli chiedeva qual era il fine della sua musica. Anche l’editore potrebbe proporsi di faire plaisir a quella tribù dispersa, predisponendo un luogo e una forma che sappia accoglierla».
Emiliano Peguiron
(direfarescrivere, anno XVIII, n. 202, novembre 2022)
|