Tutti rimpiangiamo Gesualdo Bufalino, le sue invenzioni narrative, l’acutezza delle riflessioni, l’avvolgente bellezza dello stile. Citando a propria volta Niccolò Tommaseo e Alberto Savinio, in due passi de L’inchiostro del diavolo – “pezzo” inserito in Cere perse (edizioni Sellerio) –, ecco cosa pensa lo scrittore siciliano degli errori di stampa.
«“Refuso – recita il Tommaseo – dicesi della stampa andata a male, onde tutte le lettere sono in confuso”. In parole spicce il refuso sarebbe un puro incidente tipografico al quale chi scrive è meglio che si rassegni in anticipo, senza conferirgli nessuno stemma di persecuzione o di sgarro metafisico. Qui sta il mio debole, invece. Nel sospettare in ogni insurrezione dell’alfabeto un complotto contro di me».
Il pittore-scrittore-musicista Savinio, fratello di Giorgio De Chirico, trascinato negli ammalianti gorghi dell’intellettualismo decadente tipico della nostra epoca, va oltre la semplice referenzialità del linguista di Sebenico e «credeva, beato lui, che i refusi fossero epifanie del profondo e quando, battendo a macchina, gli avveniva di vedersi sbocciare sotto le dita una parola deforme, godeva di trarne responsi come dalle sillabe d’una Sibilla. Ammiro tanta disinvoltura, ma a me succede altrimenti: ogni violenza inflitta alla scrittura mi umilia. Peggio: me ne viene un risentimento della sensibilità che alla lunga minaccia di diventare nevrosi».
Horror erroris!
Francamente, possiamo dire che anche noi, di fronte ai refusi, alle “distrazioni” redazionali, agli errori di stampa, proviamo una reazione simile alla sua.
Come non dannarsi l’anima se, alla fine di un libro, ci si accorge che vi è una nota a piè di pagina in più, rispetto a quelle presenti nel testo? Come non imbestialirsi se un redattore o un tipografo, dopo mille raccomandazioni, ci toglie di colpo, con un comando dato al suo computer, tutti i corsivi accuratamente inseriti in base a minuziosissime regole? Come non inorridire incontrando un «1914-’18»? Come non sobbalzare imbattendosi in una virgola o in un punto preceduti da uno spazio, un «della» al posto di un «dalla», una citazione che inizia con », un’altra che inizia, ma non si chiude mai – voce persa nell’eternità spazio-temporale –, il «Myanmar» strozzato in «Myanma», la «Slovenia» trasformata in «Slovacchia», il «Sessantotto» che, dopo una riga, diventa «’68», o, peggio, «68»?
Come non sentirsi toccati nella propria sensibilità, quando perfino quotidiani, riviste, editori di buon livello o, almeno, di notevole fama e prestigio nazionale, cadono di fronte a un paio di lettere invertite o davanti alla confusione accento/apostrofo o alternano varie grafie e impostazioni di editing?
Eppure, fin qui, restiamo nel campo dei refusi, delle “disattenzioni”, degli errori involontari. C’è di peggio. Dèi misericordiosi, correteci in aiuto, quando sentiamo l’alito nerastro e angoscioso delle incertezze, del dubbio, scorrerci sul collo…
La punteggiatura va all’interno o all’esterno delle virgolette a caporale? Va usato cit. o op. cit.?, il tondo o il maiuscoletto per gli autori di un libro citato in nota?, quando scrivere ibidem? Come trattare gli apparati bibliografici, le sigle, i nomi russi, e quelli dei santi, le istituzioni e gli enti, i titoli delle mostre o gli atti di un convegno, gli edifici storici, i nefasti programmi spazzatura televisivi? Quando usare il trattino, quando la lineetta? I numeri vanno immessi in lettere o in cifra?
E, ora, con l’editoria informatica, abbiamo a che fare coi terribili tag e altre creature demoniache.
E ciò che è invincibile: le ripetizioni lessicali. Già. Cercandone una – speravate l’ultima –, ne trovate altre, che spuntano come funghi, inaspettate, in una catastrofica e umiliante catena di S. Antonio, in un rimbalzo folle e beffardo, maligni segni disgregatori. Sì, perché, se provate ad eliminare un'iterazione, ecco: ne avete introdotta un’altra.
È finita. Le forze vengono meno. La mente evapora, il nostro senno vola sulla luna come quello di Orlando: ci sarà un Astolfo a recuperarcelo?
La cupa metafisica del refuso
L’imperfezione nella stampa di un libro è dovuta a un’entità malvagia, vile, subdola.
Sempre per Bufalino, infatti, «il refuso non possiede un solo quarto di nobiltà, è il rictus che sconcia un viso, la sassata che sfregia un vetro, il fischio della corda che si rompe sotto l’archetto. Questo nel migliore dei casi: quando, cioè, si esibisce in forma evidente, suscitando nel lettore, dopo l’irritazione, un assillo poliziesco a restituire la lezione perduta. Ma son casi rari. Più spesso il refuso si traveste da galantuomo, affila nell’ombra i suoi coltelli, cresce come una carie, un tumore».
Fino a pervenire a una visione amaramente e disperatamente gnostica, degna de Il funesto demiurgo di Emile Cioran: «È come se un capostazione impazzito mandasse a casaccio i suoi treni ai quattro capi del mondo, l’Orient-Express su un binario morto a Molfetta, una cremagliera alpina sulla Transiberiana. Forse veramente ogni segno che riceviamo o mandiamo è un errore di trasmissione, ogni messaggio ci viene da un computer programmato a ingannare, la lettera che il postino ci porta era per un altro, qualcuno ha scambiato le buste. Seppure non sia l’universo intero un refuso. Forse è Dio che ha pensato il mondo, ma è il diavolo che ogni mattina lo stampa: siamo scritti lassù, temo, da una portatile guasta. E come potremmo allora aspettarci, noi sgorbi e geroglifici di così scorretta edizione, che quanto scriviamo noi stessi si salvi? Come potrei io sperare che queste povere pagine a stampa, nel marasma di tutto e di tutti, vi giungano senza una macchia?».
Da L’inchiostro del diavolo a Il verme disicio
Certo meno irascibile dello scrittore siciliano (che non a caso ha raccolto, sempre in Cere perse, il glorioso In difesa del congiuntivo) e di noi stessi è Stefano Benni, che affronta il medesimo tema dei refusi tipografici in modo più scherzoso, col famoso Il verme disicio (ne Il bar sotto il mare, edito da Feltrinelli), immaginando appunto che esistano antipatici e dispettosi animaletti, tra cui quello del titolo – il più esiziale –, in grado di rovinare la perfezione di un testo librario.
Così «la cimice maiofaga, che mangia le maiuscole o il farfalo, piccolo imenottero che mangia le doppie con preferenza per le “emme” e le “enne”, ed è ghiotto di parole quali “nonnulla” e “mammella”. Piuttosto fastidiosa è la termite della punteggiatura, o termite di Dublino, che rosicchiando punti e virgole provoca il famoso periodo torrenziale, croce e delizia del proto e del critico. Molto raro è il ragno univerbo, così detto perché si ciba del solo verbo “elicere”. Questo ragno si trova ormai solo in vecchi testi di diritto, perché detto verbo è ormai scaduto d’uso e i pochi esempi che ricompaiono sono decimati dal ragno».
A tali calamità si aggiungono «la pulce del congiuntivo e il moscerino apocopio. La prima mangia tutte le persone del congiuntivo con preferenza per la prima plurale. Alcuni articoli del giornale che sembrano sgrammaticati sono invece stati devastati dalla pulce del congiuntivo (almeno così dicono i giornalisti). L’apocopio succhia la e finale dei verbi (amar, nuotar, passeggiar). Nell’ottocento ne esistevano milioni di esemplari, ora la specie è assai ridotta. Ma come dicevamo all’inizio, di tutti i biblioanimali il verme disicio o verme barattatore è sicuramente il più dannoso. Egli colpisce per lo più verso la fine del racconto. Prende una parola e la trasporta al posto di un’altra».
Le finalità della presente rubrica
Comunque, al di là delle saturnine considerazioni di Bufalino e delle burle di Benni, tra refusi involontari e incertezze tipografiche, la vita di chi opera nell’ambito giornalistico o editoriale, o anche del semplice lettore amante di un buon libro – buono pure graficamente parlando –, è precaria, anzi sempre più dura. Viviamo, infatti, in un’epoca in cui la quantità prevale sulla qualità, persino nel circuito culturale (si vedano non solo i libri, ma anche i film, la musica, gli spettacoli in genere) e nella quale l’amore “artigianale”, nel miglior senso che ha questa parola, per un prodotto finale che tenda alla perfezione – obiettivo certo impossibile, ma al quale si dovrebbe aspirare e ci si potrebbe approssimare –, sembra scomparso.
La rubrica Questione di stile, che inauguriamo con l’intervento che state leggendo, intende aiutare chi intraprende o ha già intrapreso la carriera giornalistica, letteraria o editoriale a individuare e, possibilmente, a districarsi con successo negli innumerevoli casi dubbi che quotidianamente si incontrano nella babele della scrittura.
Sandra Migliaccio, esperta nel campo dell’editing, ci regalerà ogni mese le sue riflessioni su alcune problematiche del campo, cercando di cogliere le soluzioni più opportune, pur essendo tutti consapevoli che, spesso, vige l’opinabilità dell’autore, essendo… Questione di stile.
L’importante è che non si arrivi senza volerlo allo svarione finale inventato da Benni: «Sappiamo farvi solo un intervento: non vi capiti di imbattervi in una pagina dove è passato il quattro disicio».
Rino Tripodi
(direfarescrivere, anno I, n. 1, dicembre 2005)
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