Al fianco di autori ed editori
per “oliare” l’industria culturale
di Ettore Bellavia e Luisa Grieco
«Io rappresento autori, il che significa amministrare i loro contatti con gli editori, e in certi casi trovare gli editori per le opere di un autore. Significa comunque riuscire a trovare il miglior editore per una certa opera o per tutte le opere di un certo autore, o (e molto spesso le due cose coincidono) riuscire a ottenere per l’autore il miglior contratto possibile, il che non va visto in termini solo economici: la parte economica è solo una parte del contratto[1]».
Ancora oggi le parole di Erich Linder risultano le più efficaci per spiegare il tipo di attività svolto dalle agenzie letterarie. Eppure, così come ogni altro attore nella storia dell’editoria – una storia popolata di giganti e di improvvisati, di avventurieri e di eroi – gli agenti letterari hanno svolto un ruolo che ha dovuto trasformarsi nel tempo e adattarsi a nuove sfide. Infatti, la nascita delle prime agenzie letterarie è una conseguenza del processo di industrializzazione del mercato editoriale.
Si tratta di una storia tutt’altro che marginale. Protagonisti ne sono figure affascinanti in grado di muovere i fili della letteratura mondiale, come lo stesso Erich Linder, ma anche James Brand Pinker e Alexander Pollock Watt[2]. Ma andiamo per ordine, riassumendo quantomeno il contesto in cui le agenzie letterarie sono apparse sul mercato editoriale internazionale e come esse si siano sviluppate all’interno di quello italiano.
La nascita delle agenzie letterarie
Il mestiere dell’agente letterario non è certo una scoperta recente. Le prime agenzie letterarie risalgono alla metà del XIX secolo, quando, in ambiente anglofono, l’editoria cominciava ad assumere i tratti di una vera e propria industria[3]. Watt fondò la prima agenzia letteraria nel 1875[4], nella convinzione di poter diventare l’ago della bilancia nei rapporti tra autori e editori. L’industrializzazione dell’attività editoriale comportava infatti il venir meno del rapporto interpersonale tra queste due figure, con importanti conseguenze: i primi vedevano dissolversi l’aura che da sempre aveva protetto il loro ruolo nella società, i secondi iniziavano a calibrare la propria attività sugli umori del mercato, nel tentativo di convertire il mecenatismo in un business per intellettuali borghesi. Si creava così lo spazio per una figura che tutelasse gli interessi degli scrittori, disposti ad accettare qualsiasi condizione pur di essere pubblicati, e quelli degli editori, che ambivano ad accedere al mercato internazionale, per piazzare i propri titoli e acquistare i diritti di traduzione su quelli stranieri.
Nonostante siano passati quasi due secoli e la tecnologia abbia rivoluzionato il mondo dell’editoria, l’attività di Watt non differiva molto da quella che svolgono tuttora le agenzie letterarie: valutare la qualità letteraria e la vendibilità di un dattiloscritto, proporlo all’editore più idoneo, contrattare le migliori condizioni possibili per la cessione dei diritti, trattenendo una percentuale sul compenso dell’autore. In virtù di ciò, fin da subito l’influenza degli agenti letterari si esercitò anche sui testi, sotto forma di consigli e richieste di modifiche che orientavano la scrittura verso le esigenze del mercato. Parallelamente, si agiva (e si agisce) per conto degli editori, mediando per la compravendita dei diritti di traduzione e di riproduzione verso o dal mercato estero.
Il merito di Watt fu quello di dare un fondamentale impulso al processo di riconoscimento del valore economico della proprietà letteraria; tuttavia, le agenzie furono inizialmente malviste dagli editori, che vedevano improvvisamente ridursi il proprio potere negoziale nei confronti degli autori.
Le agenzie letterarie e l’editoria italiana
Questo ostracismo si protrasse in particolar modo in Italia e nel resto dell’Europa continentale, dove si dovette attendere almeno fino alla metà del Novecento perché si creassero le condizioni per lo sviluppo di una vera e propria industria culturale e, di conseguenza, perché autori ed editori iniziassero a rivolgersi alle agenzie letterarie. Fino ad allora, infatti, si preferiva trattare personalmente, senza alcuna forma di intermediazione.
Per quanto riguarda l’Italia, l’editoria nostrana era improntata a un modello artigianale e verticistico. Durante il Ventennio fascista, lo spazio per le agenzie letterarie era pressoché nullo, poiché l’importazione di titoli era pesantemente limitata dalla censura, mentre le sorti degli scrittori erano sottomesse alla loro vicinanza al regime[5].
La Liberazione fu tale anche per quanto concerne il movimento letterario, ma le condizioni economiche in cui grandi intellettuali erano costretti a operare (magistralmente raccontate da Luciano Bianciardi[6]) non erano certo le più feconde e tutti i grandi nomi della letteratura italiana del Secondo dopoguerra dovettero affiancare un altro lavoro accanto a quello di scrittore per sbarcare il lunario. L’unico modo per evitare questo sdoppiamento di mansioni, che certamente distraeva un autore dalla propria scrittura, era essere benvoluto da un editore; talvolta neanche questo era sufficiente. La soluzione il più delle volte fu quella di cooptare gli stessi scrittori all’interno dell’impresa editoriale: emblematica in questo senso la stagione irripetibile che vide impegnati Italo Calvino, Cesare Pavese e Elio Vittorini nel processo di svecchiamento della cultura italiana partecipando alla costruzione del catalogo di Einaudi[7]. Un’attività che risultava perfettamente complementare rispetto alla loro ricerca letteraria, ma che fu possibile soltanto in quella particolare contingenza storica. Nondimeno, si inaugurava una pratica – oggi in dismissione, almeno per quanto riguarda gli editori maggiori – che avrebbe avuto un certo seguito nei decenni successivi, cioè quella di affidare la direzione di prestigiose collane di cultura a intellettuali e letterati, che sceglievano personalmente i testi da pubblicare, seguendo una logica che spesso poneva in secondo piano gli aspetti commerciali.
In questo quadro, sebbene l’Agenzia letteraria internazionale (Ali) fosse sorta già alla fine dell’Ottocento[8], la sua attività inizialmente fu abbastanza limitata, tant’è vero che fu lo stesso fondatore, Augusto Foà, a occuparsi delle traduzioni, soprattutto dall’inglese, dal francese e dal tedesco. Tuttavia, non molto tempo dopo, il lavoro nell’agenzia aumentò grazie soprattutto a una serie di contatti che Foà riuscì a ottenere. Ma fu verso la metà del secolo scorso che l’agenzia attraversò il suo periodo più florido[9].
La situazione italiana dagli anni Sessanta in poi
Quando nel 1952 fu Erich Linder a prendere le redini dell’Ali la situazione era ben diversa e particolarmente propizia. Il mercato italiano era improvvisamente aperto e avido di titoli stranieri, mentre gli autori già affermati avevano un disperato bisogno di protezione dai tiri mancini di editori sempre sul filo del tracollo finanziario[10]. Linder seppe colmare questo vuoto, piazzando in tutto il mondo i diritti di traduzione di autori già affermati in patria e contemporaneamente alimentando costantemente il circuito italiano con titoli di autori stranieri ancora poco conosciuti. L’ascesa dell’Ali sotto la direzione di Linder fu fulminea e presto assunse i contorni di un’egemonia che gli permise di arrivare a controllare il 7% del mercato editoriale. Tuttavia, il suo scouting si rivolgeva al solo mercato internazionale, mentre sul versante interno tale prerogativa rimaneva in mano alle case editrici.
Negli anni Sessanta e Settanta, agli occhi di uno scrittore esordiente la situazione non era migliorata granché. In definitiva, le agenzie rappresentavano soltanto autori già affermati in patria, permettendogli di accedere al mercato delle traduzioni, mentre le nuove firme continuavano a passare dal filtro delle case editrici, via via sempre meno disposte a lanciare al buio talenti nostrani.
Dagli anni Ottanta in poi, con il tracollo del vecchio modello di editoria militante e l’avvento dei manager alla guida delle principali case editrici, il processo di scouting subisce un’ulteriore erosione[11]. L’editoria maggiore si smarca progressivamente dalla funzione che un tempo le era affidata, cioè quella di farsi mediatrice di contenuti culturali, di anticipare le mode, all’occasione di contrastarle e di scovare i talenti migliori del panorama letterario. Il mito dello scrittore recluso si dissolve definitivamente e ormai questi non può prescindere dal partecipare attivamente alla promozione della sua opera. Il solo talento non basta più per aprire le strette porte dell’editoria maggiore: senza un pubblico già consolidato o costruito mediante altre attività, le possibilità che i grandi editori pubblichino un esordiente sono pressoché nulle[12]. Del resto, all’interno dei grandi marchi è oramai impensabile affidare la direzione di una collana prestigiosa a un letterato, al quale si preferisce di gran lunga un esperto del settore con buone doti manageriali, un’esperienza solida nel campo editoriale e poco incline a romantiche scommesse che mettano a repentaglio i conti dell’impresa. Le scelte vengono così operate sulla base delle proposte di poche ma potenti agenzie, che agiscono per conto di autori già affermati e in grado di muoversi agevolmente sul mercato, soprattutto quello internazionale[13].
A invertire la rotta ci provano stoicamente le case editrici più piccole, spesso costrette a operare ai limiti dell’impossibile e attaccate su tutti i fronti dai grandi gruppi editoriali, ma generalmente più inclini a scommettere sui nuovi talenti[14] e per questo motivo, quotidianamente sommerse da un’infinità di manoscritti in attesa di valutazione, cui, per dimensioni e possibilità, non possono prestare la dovuta attenzione. Dagli anni Novanta si assiste così al proliferare di agenzie letterarie che offrono consulenze a esordienti e scrittori in erba che hanno poca familiarità con il labirinto dell’editoria italiana[15] cercando di essere il loro filo di Arianna e di condurli, infine, alla pubblicazione.
[12] Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Einaudi, Torino, 2004, pagg. 11-15.
[13] Che cos’è un’agenzia letteraria?, cit.
[14] Storia dell’editoria italiana, cit., pag. 120.
[15] L’agenzia letteraria internazionale, cit.
Ettore Bellavia e Luisa Grieco
(Pur nell’ambito di un’integrale collaborazione, l’introduzione, il primo e il terzo paragrafo sono da attribuirsi a Ettore Bellavia, mentre il secondo paragrafo, la ricerca bibliografica e le relative note a Luisa Grieco)
(direfarescrivere, anno XVI, n. 169, febbraio 2020)