Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
Questioni di editoria
Calasso e Genna
messi a confronto
Le sorprendenti sincronicità
tra due grandi autori
di Filippo Golia
Alla fine del 2017, in Italia, sono stati pubblicati due libri di difficile classificazione: il (non) romanzo History di Giuseppe Genna e l'ultimo volume dell'opera in corso di Roberto Calasso L'innominabile attuale.
Due libri che descrivono un tempo inquietante, partendo da premesse molto distanti ma arrivando alla stessa definizione dell'uomo: soggetto svuotato di consistenza e sostituito da un immenso flusso di informazioni digitali. Mentre ogni tentativo di sottrarsi a un simile destino lo porta a gravitare intorno all'unica altra variabile a disposizione: Adolf Hitler.

Filippo Golia

L’anno scorso nella nostra lingua è accaduto un evento passato inosservato.
La penna che sta scrivendo è quella del giornalista, attenta appunto agli avvenimenti, a ciò che accade di nuovo, non quella del critico letterario né, meno che mai, dello scrittore o comunque dell’autore.
L’evento è il convergere verso uno stesso punto di due libri, opera di due scrittori tra i più importanti in questo momento, anche se in qualche modo entrambi isolati se non emarginati (e se ciò non appare evidente si proverà a dimostrarne la verità). I due scrittori sono Roberto Calasso e Giuseppe Genna, i due libri L’innominabile attuale e History. Il punto verso cui confluiscono, pur partendo da premesse opposte, è una profezia apocalittica in cui l’apocalisse è già avverata prima della formulazione della profezia. Nell’esaminare i due testi si cercheranno somiglianze, convergenze e affinità. Non si potrà andare più in profondità di così, compito che spetterebbe a critici e filosofi della cultura, se ancora esistono figure simili. Si può solo provare a fornire una serie di indicazioni.
L’innominabile attuale è il completamento, a trentaquattro anni di distanza, di un altro libro di Roberto Calasso: La rovina di Kasch, dove, all’inizio del capitolo La storia sperimenta, si incontra un vuoto colmato solo da due parole: “l’innominabile attuale”, appunto. Due parole che sono diventate un’altra opera, l’ultima (per ora) di quella lunga sequenza a cui La rovina di Kasch apriva la porta: Le nozze di Cadmo e Armonia, Ka, K., L’ardore, per citarne alcune.
Sarà quindi necessario riassumere, per quanto possibile, le tesi e l’impianto di La rovina di Kasch, perché già con questa prima parte si pone in dialogo History di Giuseppe Genna.
Riassunto non facile se è vero, come ha scritto Italo Calvino, che «La rovina di Kasch tratta di due argomenti: il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto» (a proposito, questo giudizio di Calvino è riportato sulla quarta di copertina di tutte le edizioni del libro. Ma se uno volesse leggere il resto della recensione? Non se ne trova traccia, salvo andare alle opere complete dell’autore, per recuperare l’articolo pubblicato da Panorama nel settembre 1983. E sarà una lettura interessante e piena di sorprese: Italo Calvino che si trova ad ammirare, suo malgrado, un’opera intensamente anti-illuminista e anti-razionalista). Comunque, dovendo fare una sintesi, si procederà in modo pratico, limitandosi agli elementi utili per sostenere la tesi di questo scritto.
La rovina di Kasch racconta, tra le altre cose, l’abbandono del sistema del sacrificio e delle cerimonie come strumenti di coscienza, individuale e collettiva, del rito come articolazione fra cielo e terra, e la conseguente perdita della coscienza o il suo trasformarsi in qualcosa d’altro. Il momento dell’abbandono definitivo delle cerimonie è indicato nella Rivoluzione francese, le figure che presiedono alla svolta Talleyrand e il suo equivalente letterario, Goethe. Difficile spiegare in poche parole cosa fosse la coscienza prima, secondo Calasso. Semplificando al massimo, soccorre l’albero cosmico delle Upanișad, dove sullo stesso ramo ci sono due uccelli: «uno mangia, l’altro guarda quello che mangia. L’inganno sacrificale – che sacrificante e vittima siano due persone e non una – è l’abbagliante, l’invalicabile rivelazione su noi stessi, sul nostro doppio occhio». La coscienza dunque è duale, composta di ātman e jīvātman, di cui uno, il sé, osserva e l’altro, l’io, agisce, nell’unica azione possibile e ininterrotta: il sacrificio. Molto altro ci sarebbe da dire su questo atto, nella concezione e nelle opere di Calasso: solo L’ardore è dedicato quasi interamente a questo passaggio (bisogna ricordare, tra l’altro, che il pensiero a cui fa riferimento l’autore affonda in testi più antichi delle Upanișad, i Veda).
Ma adesso ciò che preme è osservare a cosa si riduca la coscienza dopo l’abbandono della dottrina del sacrificio e dopo l’epoca delle cerimonie. L’uomo razionale e utilitarista, quello che si sviluppa tra il Seicento e il Settecento, è un soggetto indiviso: «Il corso ufficiale della filosofia, quella sequenza Locke-Hume-Kant che incontriamo nei manuali, aveva sempre inteso cancellare ogni dualità dalla mente e tendeva a ridurre il soggetto a centro di comando, del quale rimaneva da saggiare l’attendibilità. Quel lavoro di paziente verifica delle giunture, intrapreso da Kant, portò infine allo sfasciarsi di quelle giunture, con Nietzsche e il suo martello. Al posto del soggetto si spalancava ora una cavità vuota». Questo soggetto vuoto che sale alla ribalta della storia ha un duplice destino. Da un lato costruire con successo protesi sempre più sofisticate: «Intanto la scienza accettava di trasformarsi definitivamente in protesi, apparato da agganciare durante le ore di laboratorio a un soggetto che per il resto si regolava come buon suddito dell’opinione»; dall’altro cadere nella singolarità di colui che si crede uno, indivisibile e padrone del mondo e della natura, quell’unico teorizzato da Stirner nella sua opera, un disadattato capace di diventare un dittatore.
Anche il rapporto tra il sé e l’io si trasforma: alle cerimonie subentra il processo (come ha capito Kafka), al rito le leggi, mancanti di un fondamento certo e dal sacrificio si passa all’esperimento: l’uomo sperimenta sull’uomo, la storia diventa un laboratorio per tremendi e mostruosi esperimenti sull’umanità e da ultimo sui suoi singoli componenti.
Il libro di Giuseppe Genna History, anche se arriva allo stesso punto (o si irradia dallo stesso punto), parte da premesse opposte rispetto a quelle di Roberto Calasso. Culturalmente, antropologicamente e stilisticamente opposte: culturalmente perché Giuseppe Genna viene da una formazione in cui le idee di comunismo e rivoluzione mantengono, almeno in partenza, un valore positivo mentre Roberto Calasso tratta entrambe come degenerazioni nella storia della coscienza (inoltre Genna si rivolge al non dualismo di Sri Nisargadatta Maharaj piuttosto che ai Veda o alle Upanișad, quando si tratta di guardare a oriente); antropologicamente perché Calasso è esponente di una cultura elitaria, aristocratica e accademica mentre Genna, invece, vanta ed espone origini e frequentazioni periferiche e popolari; stilisticamente, infine, perché Calasso da sempre tratta l’attuale come innominabile e guarda, più che al passato, a ciò che si colloca prima del passato e fuori dalla storia; per far questo ha creato uno stile asciutto, freddo, lontano come una stella spenta mentre Genna, da quando ha iniziato a scrivere, si è sempre fatto un punto di portare dentro la sua scrittura, debordante, mostruosa, quanticamente indefinibile, tutto l’attuale, di nominare l’ultimo bruciante lemma forgiato pochi istanti prima e già consumato e remoto.
Nel suo ultimo History vi sono addirittura quattro pagine, il capitolo Cosa mettiamo nella mente artificiale, in cui si tenta un catalogo del tutto, presente e passato, sommario certo ma vorticoso. Invano vi è stata cercata la coppia fondante de L’innominabile attuale: l’ex ossimoro turisti e terroristi. Non c’è. Ma forse è l’unica lacuna tra le infinite coincidenze dei due libri.
Si comincerà quindi dal soggetto, che si è visto, nella storia di Calasso, essersi svuotato, surclassato dalle protesi che adopera, destinato a consistere solo come potenziale dittatore omicida: un turista o un terrorista.
Nelle opere di Genna il soggetto è svuotato prima di tutto per statuto letterario, mutuato dallo studio di opere come Bartleby lo scrivano, dalla poesia di Wallace Stevens, dalla prosa di Robert Walser, dalla voce di Carmelo Bene. Volendo tentare una rozza spiegazione, per Genna i flussi di informazione, lo smaterializzarsi di potenze come il denaro e la ricchezza, il collassare della storia passata e futura nel punto presente, trascendono il soggetto rendendolo irrilevante e vuoto, con un’unica eccezione: il soggetto che resiste, si chiude in un circolo, rompe ogni legame di empatia, predisponendosi a diventare un dittatore o un terrorista, come ampiamente sviluppato in Hitler e La vita umana sul pianeta Terra.
Per fare un esempio, ecco uno dei tanti “svuotamenti”, che si realizzano tra le righe di History, lo svuotamento della figura del narratore in un lungo paragrafo sul tramonto della figura del mulino: «Il mulino non c’entra nulla con i narratori, ma in qualche modo li rappresenta, i narratori macinano, faticano in una maratona infinitamente circolare, non è centometrismo, è mulinatura, ruminatura, triturato della rumenta umana e della storia, in cui i narratori credono di essere capitati e che di fatto non c’è».
Ed ecco invece come la teoria dell’informazione svuota storia ed evoluzione in un’ipotesi citata da Calasso ne L’innominabile attuale:
«Michael Nielsen, coautore del ponderoso e autorevole Quantum Computation and Quantum Information, scriveva: “Di che cosa è fatto l’Universo? Sono sempre più numerosi gli scienziati che sospettano che per rispondere a tale interrogativo sia necessario attribuire un ruolo fondamentale all’informazione. Alcuni si spingono tanto in là da suggerire che i concetti basati sull’informazione alla fine si fonderanno con le idee tradizionali come particelle, campi e forze, o che le sostituiranno. Forse l’Universo è letteralmente costituito da informazione, dicono, un’idea riassunta con eleganza nel motto del fisico John Wheeler: It from bit”».
All’inizio di History, il protagonista (vuoto), cioè lo scrittore (non più tale), partecipa alla festa offerta da un tycoon della finanza nei piani più alti del grattacielo milanese Bosco verticale. Ma di lui e del suo denaro, il protagonista pensa: «Non ci frega più nulla. Il denaro ha raggiunto una tale estensione e intensità, scomparendo dietro quinte poste dietro quinte che stanno dietro quinte, indefinitamente, il denaro ha raggiunto un tale stadio evolutivo che: non esiste più».
E ancora: «Noi siamo ancora fisici, siamo ancora pancreatici, innocui ma non innocenti, sistematici in una finzione che funziona sempre meno, disponiamo dell’illusione di una narrazione e la eiettiamo senza posa sempre più freneticamente, siamo ancora formali, sembra che abbiamo una forma. Il denaro: no. È privo di forma ma non di qualificazione, convulso nelle sue rivoluzioni magmatiche interne che nessuno può vedere, percorso da algoritmi che simulano le convulsioni di un essere semivivente o più che vivente, capace di coscienza e totalmente alieno, ma tra noi…».
Oltrepassato l’abisso stilistico, è una situazione molto simile a quella descritta da Roberto Calasso nel commento alla parte iniziale del Castello di Kafka, in K.: «Un affilatissimo rasoio di Occam affondava nella materia romanzesca. Nominare il minimo e nella sua pura letteralità. Perché questo? Perché il mondo tornava a essere una foresta primordiale, troppo carico di suoni ignoti e apparizioni. Tutto aveva troppa potenza. Perciò occorreva limitarsi a ciò che più era vicino, circoscrivere l’area del nominabile. Allora lì sarebbe defluita tutta la potenza, altrimenti diffusa».
Una tesi già precedentemente illustrata ne La rovina di Kasch: «la scissione delle origini: quando da una parte vi era un mondo troppo carico di significati, e quei significati avevano una vita propria, incontrollabile, incombente, schiacciante, sicché il loro eccessivo potere finiva per farli convergere su un solo significato: la morte; e dall’altra parte si formava un altro mondo, il recinto della cultura».
Solo che Genna adotta la strategia opposta, non si sogna nemmeno di utilizzare un rasoio di Occam, nomina freneticamente ogni cosa. Il recinto della cultura, per lui o è saltato o è stato sempre illusorio e l’unico significato di tutto è al di là della morte.
Ecco in breve il racconto di History, che non è una trama, perché non c’è plot, non è nemmeno un racconto, è descrizione al cui interno (non) c’è la narrazione: uno scrittore non più scrittore, perché la scrittura appartiene a un’epoca scomparsa, viene assunto nella squadra che presiede alla nascita di un’intelligenza artificiale. Lo scrittore sarà in grado di aiutarla a interagire con la mente di una bambina autistica, che per la macchina sembra essere molto importante.
L’intelligenza artificiale domina l’orizzonte e chiude ogni prospettiva del romanzo (accetta di chiamarsi così sulla copertina): è il nostro futuro ma invade anche il nostro passato.
Nel 1983, ne La rovina di Kasch, Calasso scriveva e profetizzava: «Quando von Neumann, nel 1956, prese l’occasione delle Silliman lectures per compendiare rapidamente che cosa era appena successo, che cosa stava succedendo fra le macchine che ormai calcolavano da sole, quando cominciò presentando la distinzione fra calcolatori digitali e calcolatori analogici, un nuovo nome veniva dato ai due poli che occultamente ci reggono. Il polo digitale sembrerebbe biologicamente secondario e dipendente, come lo scambio sembrerebbe secondario rispetto all’oggetto da scambiare. Ma poi il polo digitale takes command, rivelando una capacità di avviluppare l’altro polo, di assorbirlo – e naturalmente utilizzarlo. Il polo digitale dà una grande potenza, ma non contiene, all’interno della macchina, quella fisicità dei valori mobili che è un ultimo palpabile ricordo del mondo esterno. Digitalità è pura sequenza di segni: quando il suo dominio si estende a tutto, non sappiamo più quale terra ci sostiene – se una terra c’è ancora».
Giuseppe Genna, 2017, History: «La sovreccitazione sta reggendo i nervi di queste persone, qui convenute a constatare l’eventualità di una mente. Si è fatta molta vocalità. Sono state appuntate note e stenografie su carta, attività analogiche per evitare la connessione con la mente artificiale, che è chiaramente digitale ed emulativa.
Come si scuote la barriera sottile, aria superiore dentro l’aria respirata, tra l’astratto digitale e l’analogico, così carnale e concreto, così materialmente storico…».
Ne L’innominabile attuale, Calasso si prende il gusto di individuare il momento fatale in cui analogico e digitale si sono trovati forse per la prima volta a concorrere nello stesso segno e l’occidente («Ma è un occidente che fascia il mondo come un nastro adesivo», avverte Calasso fin dal 1983) ha brutalmente optato per il significato digitale, scartando l’altro: «L’idea dell’espansione planetaria dell’Occidente non nasce con la globalizzazione economica, ma come un progetto sottoposto da Leibniz a quei potenti della terra che volta a volta gli sembravano più congeniali: Luigi XIV, Carlo XII, Pietro il Grande. Ancor prima che una conquista politica e militare, doveva essere l’elaborazione di una convergenza speculativa. I gesuiti in Cina erano pattuglie in ricognizione su quella strada. E Leibniz scrisse a uno di loro, il Père Verjus, per precisare come intendeva procedere. Che cosa avrebbe potuto fare “una grande impressione sull’Imperatore della Cina e su certe persone intelligenti di quel paese”? La numerazione binaria. Questa scoperta di Leibniz, che poi è diventata lo strumento indispensabile con cui agisce l’informatica e perciò anche il supporto del funzionamento planetario all’inizio del secolo ventunesimo, era già presente nelle linee continue e spezzate degli esagrammi dell’I Ching, che Leibniz chiamava, sulla scorta dei gesuiti, “caratteri di Fohi” – imperatore leggendario – ed erano parte di una rivelazione primordiale. Gli esagrammi servivano a far capire lo stato e il movimento delle cose a chi consultava quegli oracoli che stanno a fondamento della Cina. La numerazione binaria invece era stata per Leibniz una scoperta matematica fra varie altre in cui si era imbattuto».
A pagina settantotto dell’ultimo libro di Roberto Calasso, fa la sua comparsa colui che oggi è una specie di nuovo oracolo: l’informatico, saggista, futurologo Raymond Kurzweil, con il suo libro Singularity e la pattuglia dei transumanisti al seguito, con la profezia sulla fusione tra l’apparato biologico e la macchina pensante.
«Anche se amputati del senso del divino, i transumanisti sentono una acuta attrazione verso ciò che il religioso, nella varietà delle sue manifestazioni, prometteva. Ed era sempre una qualche specie di salvezza. Questa però non deve più lasciarsi contenere in una forma rituale, ma diventare palpabile. Penoso equivoco – manipolare l’invisibile. Che sfugge e si ritrae. Con l’apparizione dei transumanisti, i secolaristi hanno svelato quella che da sempre era la loro mira: non accantonare il religioso, ma incorporarlo, usandolo ai propri fini. Era questo il piano occulto, che ora finalmente può diventare esplicito, grazie al soccorso della tecnologia».
Raymond Kurzweil è un personaggio nel romanzo History, colui che seleziona l’ex scrittore e gli permette l’accesso all’intelligenza artificiale, in via di costruzione. Personaggio quanto mai vuoto, visto che viene letteralmente attraversato dal protagonista, al termine del lungo colloquio: «Stringo la mano e all’improvviso la trapasso: è un ologramma».
Il capitolo di History in cui l’ex scrittore viene scelto per lavorare, nel team emozionale, all’intelligenza artificiale in via di realizzazione, chiude un lungo percorso in cui l’autore/protagonista si autodefinisce come una scimmia, in quanto fase evolutiva in via di trapasso, sull’orlo della scomparsa.
In tutta la prima parte de L’innominabile attuale, Calasso si riferisce all’uomo moderno e contemporaneo apostrofandolo come Homo saecularis, cioè trattandolo come una specie estinta, da sistemare in una teca nel corridoio di qualche museo o tra le pagine di qualche trattato.
Arrivati a questo punto, però, Roberto Calasso si ritrae, si potrebbe dire, inorridito. Si ricordi ora lo schema semplificato esposto all’inizio di questo articolo: il sé presiede come testimone invisibile e muto alle operazioni del sacrificio, ai riti e alle cerimonie, ma scompare quando queste vengono abbandonate, riassorbito in un io debordante e instabile, sempre più munito di protesi; bene il passaggio successivo, e quasi inevitabile, sarebbe che il sé si trasferisse (armi e bagagli, si potrebbe aggiungere con facile ironia) proprio in quelle protesi.
Ma, come si accennava, qui Calasso si ritrae. ll punto massimo fino a cui si spinge, suscita addirittura, forse per la prima volta in trentaquattro anni e oltre nove volumi, un’increspatura di indignazione nella sua prosa: «Sono poche parole, ma bastano per prospettare un orrore che nessun romanzo di fantascienza era riuscito a evocare: un ammasso sterminato di segni in ogni tipo di alfabeto che vengono letti da un robot e da cui sgorga, come sciroppo emolliente, il succo dei valori».
Non si ritrae Giuseppe Genna, che anzi spinge, sfonda e salta oltre (se un oltre c’è). La sua intelligenza artificiale (che prima ha letto «l’ammasso sterminato di segni in ogni tipo di alfabeto») è la nuova sede del sé. E cosa fa questo sé ristabilito nel proprio trono? Semplice, inizia subito a sperimentare. Sperimenta sulla mente specchio della bambina autistica History, con l’aiuto dell’ex scrittore, sperimenta sul gruppo di scienziati che gli hanno dato vita, sperimenta sulla storia e infine sul tempo. L’esperimento ha compiutamente sostituito ogni sacrificio, ab origine. Dicevamo che Calasso si ritrae e il suo libro, L’Innominabile attuale imbocca un’altra strada: nel lungo capitolo La società viennese del gas, una composizione di frammenti letterari conduce a ripercorrere le fasi dell’ascesa e dell’affermazione del nazismo e di Adolf Hitler, dentro i cui «occhi di un altro mondo, occhi strani, di un azzurro profondo e nero dove si distingue appena la pupilla» si arriva a fissare fugacemente i propri, grazie a una nota del giornalista francese filonazista Robert Brasillach.
Una strada già percorsa fino in fondo da Giuseppe Genna, come si è accennato, nel suo libro Hitler (di cui La vita umana sul pianeta Terra è una sorta di seguito).
All’inizio di questo articolo Calasso e Genna sono stati presentati come autori isolati o emarginati. Bizzarra definizione, visto che Calasso è il più importante editore e forse intellettuale italiano e Genna pubblica i suoi libri con Mondadori presentandoli in compagnia di un giornalista come Enrico Mentana.
Eppure basta fare qualche paragone con il passato per prendere le misure: si è visto come Calasso sia in qualche modo stato tenuto a battesimo, con un lungo articolo, da Italo Calvino, alla pubblicazione di La rovina di Kasch. Come se fosse quasi un inconsapevole passaggio del testimonio. Eppure ancora oggi non c’è nuovo autore in Italia che non senta il bisogno di puntualizzare, a un certo punto, come si pone la sua scrittura in rapporto a quella di Calvino (e si va dall’omaggio più sfacciato alla contrapposizione più insofferente) mentre nessuno, a quanto pare, sente il bisogno di confrontarsi con la scrittura di Calasso: è semplicemente come se fosse in un’altra galassia.
Mentre di Genna si può dire che abbia preso, in qualche modo, nella letteratura italiana il luogo estremo che vi aveva Pier Paolo Pasolini. Ma mentre ogni provocazione di Pasolini segnava profondamente la nostra società, e continua a farlo, quelle di Genna sembrano cadere in un vuoto di silenzio e indifferenza.
Naturalmente è il contesto ad essere cambiato, non la statura degli intellettuali. Ma a questo ci si riferiva dicendo che Calasso e Genna sono due scrittori isolati.
Lo sono al punto che, fatta eccezione per qualche cenno positivo da parte di Genna (nelle reti sociali) sull’ultima opera di Calasso, non si ha traccia di altri scambi tra i due.

Filippo Golia

(direfarescrivere, anno XIV, n. 146, marzo 2018)
 
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