«Misurandosi con il testo non si traduce mai solamente una lingua, ma una cultura e una prospettiva culturale. Anche per questo, assumendo il punto di vista dell’originale, la traduzione può realmente svelare sul testo, intorno al testo, elementi che nell’originale restavano silenti, e farlo magari per vie inattese. […] Uno squarcio nel testo, allora, permette di vedere dietro la tela e lascia che emerga una molteplicità di rapporti che la superficie levigata dell’originale occultava». Queste sono le parole usate nell’Introduzione del saggio Sulla traduzione. Itinerari fra lingue, letterature e culture (Solfanelli, pp. 184, € 14,00), per accompagnare i lettori alla scoperta degli aspetti culturali della traduzione.
A curare questo complesso e interessante lavoro sono stati Giuliano Rossi, attualmente insegnante di Lingua, traduzione e mediazione presso l’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, che ha pubblicato diversi volumi oltre ad aver svolto l’attività di traduttore presso la Rivista di Psicoanalisi della Spi; e Giuseppe Sofo, traduttore di testi letterari dall'inglese, dal francese e dal tedesco, che ha insegnato lingua, traduzione e letteratura in università italiane, francesi e americane.
La traduzione come dialogo
Attraverso un excursus storico a partire dalla scuola poetica che si sviluppò in Sicilia nel XIII secolo e che ebbe come mecenate l’imperatore Federico II, il primo capitolo di questo testo illustra come la civiltà italiana sia sempre stata famosa per la propria accoglienza di idiomi e culture differenti. Passando per la traduzione in latino che Petrarca fece della Griselda, ultima novella del Decameron di Boccaccio, per arrivare a Leopardi e alla sua splendida traduzione in italiano del II libro dell’Eneide, questo saggio ci mostra le origini della traduzione in Italia: «Due fra i massimi scrittori italiani di ogni tempo ci mostrano quanto importante sia, così sul piano oggettivo della creazione letteraria come su quello soggettivo della maturazione della propria scrittura, la scelta dell’esercizio stilistico sul terreno difficilissimo della competizione linguistica con altri autori di rango sommo».
Un’affascinante metafora parla della traduzione come di una zattera persa nel naufragio del tempo, poiché colui che traduce cerca in qualche modo di combattere contro la lontananza temporale e linguistica, traghettando l’autore del testo che si appresta a tradurre sulla sua stessa “imbarcazione”, così da trovarsi per un momento nello stesso luogo.
Tradurre i grandi testi
I primi capitoli del saggio sono dedicati alla descrizione dell’impressionante lavoro e della responsabilità che i traduttori si trovano ad affrontare quando hanno tra le mani testi di un certo spessore. Da un capitolo nel quale si analizza la complessità degli scritti militari del Cinquecento, periodo in cui il linguaggio era in piena evoluzione, si passa poi a un successivo in cui si prende in esame, nello specifico, la traduzione del testo di Rabelais, il Gargantua, soffermandosi in particolare su cinque diverse traduzioni in italiano, a partire dalla prima eseguita da Gildo Passini nel 1925 fino all’ultima di Dario Cecchetti del 2012. Un capitolo, questo, volto a comprendere le sfumature e le differenze tra le varie versioni italiane, in modo da capire quanto possano differire le interpretazioni da persona a persona.
Un successivo capitolo si occupa dei “retroscena” della traduzione di Don Juan aux enfers del poeta maledetto Baudelaire: «Contrabbandato oltre il confine della lingua altra, nel momento in cui interferisce con la lingua e la tradizione che lo ospitano, il testo di Baudelaire lascia affiorare, anche per effetto delle “alterazioni” che subisce, una fitta rete di relazioni che il solo testo originale teneva sottotraccia».
Gli ultimi due capitoli della prima parte sono dedicati allo studio del linguaggio familiare e quotidiano utilizzato da Prévert nelle sue poesie e alla riesamina dei vari traduttori, tra cui Giorgio Caproni, che hanno deciso di tradurlo. Inoltre viene descritta la sfida che rappresenta tradurre i testi di Raymond Queneau e gli ostacoli che si possono incontrare in quest’impresa.
La traduzione come processo culturale
La seconda parte del saggio è dedicata agli aspetti culturali e antropologici che il processo di traduzione letteraria racchiude. Per argomentare ciò si fa riferimento all’antropologo sociale inglese Godfrey Lienhardt, il quale negli anni Cinquanta affermò che la lingua indigena potesse essere un vero e proprio strumento di lavoro nel suo campo; da questa concezione, poi, emersero un lungo dibattito e varie correnti di pensiero e teorie sull’influenza del linguaggio sul pensiero. Non mancano nemmeno riferimenti e approfondimenti nel campo della psicologia e della psicanalisi, nello specifico della “teoria traduttiva” di Freud.
Sicuramente non priva di fascino, inoltre, la visione della traduzione come un vero e proprio viaggio interiore: «Smarrimento e tentazione che sono però necessari a svelare le proprie debolezze, e a formare quell’umiltà che secondo Tabucchi deve accompagnare di pari passo l’arroganza necessaria a intraprendere ogni lavoro di traduzione. Se sapessimo già tutto, il lavoro della traduzione non sarebbe altro che un semplice esercizio linguistico, ma come non ci sarebbe motivo di partire per un viaggio se non ci fosse niente da scoprire oltre il confine, è proprio ciò che non conosciamo a trasformare la traduzione in un’avventura così affascinante».
Maristella Occhionero
(direfarescrivere, anno XI, n. 118, ottobre 2015)
|