«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Così recita il primo comma dell’articolo 21 della Costituzione italiana, tramite il quale viene tutelata la libertà di stampa, divenendo ‒ soprattutto nel linguaggio giornalistico ‒ il cardine e il punto di riferimento della libertà di espressione e di informazione per eccellenza.
Informare ed essere informati nel modo corretto è un diritto fondamentale di ogni cittadino che viva all’interno di una società democratica; diritto di cui, in Italia, si è avvertita maggiormente l’esigenza in seguito alle censure, ai controlli sulla stampa e sui canali radiofonici durante il periodo della dittatura nazifascista. Per fortuna, oggi siamo lontani da questo genere di pressioni da parte del sistema politico; tuttavia, il diritto a una corretta informazione non sempre viene garantito in toto. A questo proposito, ci viene incontro Vittorio Roidi con il suo nuovo libro dal titolo Cattive notizie. Dell’etica del buon giornalismo e dei danni da malainformazione (Centro di documentazione giornalistica, pp. 270, € 18,00) con la Prefazione di Stefano Rodotà.
Giornalismo: non semplice deontologia ma rispetto dell’etica
Laureato in Giurisprudenza, Vittorio Roidi intraprende una ricca e variegata carriera giornalistica: dapprima come cronista e, in seguito, come editorialista e caporedattore centrale per Il Messaggero; lo troviamo in Rai come inviato speciale e redattore capo al Gr1 e, dal 1992 al 1996, come presidente della Federazione nazionale della stampa; dal 2001 al 2007 è segretario dell’Ordine nazionale dei giornalisti, impegnandosi per diversi anni nella Scuola di Giornalismo di Urbino. Oggi, Roidi insegna presso la Scuola radiotelevisiva di Perugia e tiene un corso di Etica professionale alla Sapienza.
Il suo è un testo dedicato, principalmente, a coloro i quali desiderano imparare a esercitare al meglio la professione del giornalista; un vero e proprio vademecum per cercare di mantenere le distanze dalle lusinghe e dalle tentazioni in cui, spesso, cade chi svolge questo mestiere. Rodotà, nella sua Prefazione al libro, scrive: «Politica, mercato, fonti della notizia (soprattutto il rapporto con la magistratura) sono lì a testimoniare le difficoltà del lavoro giornalistico, i condizionamenti con i quali bisogna continuamente fare i conti. Il libro non è affatto compiacente, non è un prontuario che, sia pure velatamente, suggerisca furbizie per trarsi fuori dagli impacci. È, al contrario, radicale nel suo mostrare con nettezza l’inscindibilità del lavoro giornalistico non da una deontologia confezionata su misura, ma da una vera e propria etica, di cui vengono ricordate le lontane e ineliminabili radici».
A questo punto, bisogna chiedersi come si faccia a discernere la deontologia dall’etica. Secondo Aristotele, l’etica è lo studio dell’agire di ciascuno di noi; in sostanza, il comportamento degli esseri umani. È il «dover essere» di ognuno, in base a ciò che si è e che si fa, e al modo in cui ci si rapporta con gli altri. L’etica si riferisce all’azione umana e aiuta a distinguere ciò che è giusto da ciò che è errato, il bene dal male. Anche l’informazione, come tutte le attività svolte dall’uomo, ha alla base un’etica, cioè un insieme di valori da rispettare e realizzare. A essa deve far riferimento chiunque voglia intraprendere la professione giornalistica, per partire col piede giusto. Per questo, spesso, la si confonde con la deontologia (termine derivante dal greco deon deontos ‒ che significa “dovere” ‒ e coniato nell’Ottocento dal filosofo inglese Jeremy Bentham), con la quale ci si riferisce solamente alla globalità dei doveri specifici di una particolare attività.
Tuttavia, qual è l’etica per un giornalista, cioè quali sono i suoi princìpi? Quali le regole deontologiche? Alcuni ritengono che chi svolge questo mestiere abbia più di un dovere e debba perseguire diverse finalità. Ad esempio, il giornalista Alberto Papuzzi individua quattro obiettivi: informare i lettori, affinché si sentano consapevolmente membri della comunità democratica; esprimere la linea politica scelta dal giornale, per confermare la diversità dell’opinione pubblica; contribuire al successo commerciale del giornale, affinché possa sostenersi autonomamente; perseguire il proprio successo personale, per garantire autorevolezza e indipendenza al giornale stesso.
Oltre a fornire, dunque, una serie di regole pratiche per gli aspiranti giornalisti, reporter, cronisti e tutti i professionisti dell’informazione, il libro contiene interessanti schede tecniche su personaggi illustri del mondo della stampa, notizie storiche di grande rilievo e una ricca Appendice contenente documenti di elevata utilità come, ad esempio, la Legge 3 febbraio 1963, la Carta di Treviso, la Carta dei doveri del giornalista, il Codice deontologico.
Non più «cattive notizie»!
Giustamente, Roidi ci tiene a sottolineare che con l’aggettivo “cattive” non vuole far riferimento a quelle notizie che raccontano omicidi, disgrazie, alluvioni o malasanità, cioè eventi che possano rattristare il lettore. No, non si parla di tutto questo. Roidi, con tale espressione vuole indicare «le informazioni sbagliate, errate, false, redatte con superficialità oppure con spirito partigiano. Le notizie, insomma, che il giornalista ha captato, raccolto, elaborato e diffuso con tecnica sbagliata, magari sapendo di sbagliare o, addirittura, volendo sbagliare». Un libro, questo, che aiuta a mantenere elevata la credibilità del giornalista e, di conseguenza, la democraticità del sistema.
Emanuela Pugliese
(direfarescrivere, anno IX, n. 94, ottobre 2013) |