«Amiamo così tanto la pubblicità che a volte dobbiamo bloccarla», questo slogan, ideato nel 2002 dall’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, riassume in sé le contraddizioni degli avvisi, quelli economici, che sono diventati ormai parte integrante delle nostre vite. Pubblicità ingannevole o persuasiva? Le regole del commercio si intrecciano a quelle della logica di mercato, definendo un imperativo assolutamente categorico: comprare a tutti i costi. Ma la pubblicità che informa e che denuncia, che catalizza l’attenzione su cultura e problematiche sociali, è completamente scomparsa? Viene sempre più annullata dalle multiformi seduzioni del dio denaro e, equivocamente corrotta, perisce dilaniata tra l’eterno quesito dell’essere o dell’apparire?
Immagini forti, indelebili, piccoli shock cerebrali del nostro quotidiano ci scaraventano nell’oceano del consumismo dove, «fuor del pelago a la riva», risulta fantastico avere quello che gli altri possiedono già. Tutto ciò e molto altro è alla base dell’analisi di un fenomeno “ipertrofico” e in costante ascesa, ampiamente descritto ne Il libro nero della pubblicità (Iacobelli, pp. 288, € 16,00).
L’autore, Adriano Zanacchi, conosce nel dettaglio la materia trattata. Ha difatti ideato, per la Sacis, la collana Quaderni di documentazione pubblicitaria ed è stato membro, per molti anni, del Consiglio direttivo dell’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, sottolineando che tale organo opera costantemente per la creazione di una forma di pubblicità moralmente irreprensibile. Analizzando l’incessante dilagare degli slogan attraverso ogni mezzo di comunicazione di massa, lo scrittore evidenzia quanto la pubblicità si sia radicata nell’anima del commercio, dettando le regole che modellano interessi economici e culturali della nostra società, definendo il limite oggettivo tra cosa sia giusto e cosa sbagliato.
Tirannia e influenza della pubblicità
Chi ne trae profitto? Agenzie pubblicitarie e imprese collaborano al fine di incrementare la vendita di prodotti. Tali società venerano la pubblicità incondizionatamente, eppure i consumatori, che ne subiscono l’invadenza, spesso la sopportano a stento, criticandone l’estrema ripetitività e il falso edonismo. Chi crea avvisi economici, frequentemente, gioca su una funzione persuasiva? La pubblicità, anima del commercio e motore dell’economia mondiale, catalizza illusioni e sogni, si insinua così intimamente in noi da condurci inconsapevolmente verso il “desiderare”. Perché ne veniamo allora così tanto affascinati? Il suo effetto di distorsione della realtà condiziona il modo in cui percepiamo lo svolgersi degli eventi intorno a noi. I valori e i modelli di vita errati determinano la nostra scala delle priorità. Il cinismo sfoderato dalla pubblicità stessa si sostituisce alla razionalità delle nostre coscienze e il consumismo domina il nostro io. Dove risiedono infine la morale e l’etica se veniamo costantemente bombardati da messaggi di indecenza e volgarità, mercificazione del corpo femminile e ostentazione del sesso?
Prepotenza della pubblicità
Informazione o promozione, qualunque ne sia il senso, la logica di fondo della pubblicità è quella di arrivare a più gente possibile ricorrendo a qualsiasi mezzo lecito o illecito.
Siamo dunque lontani dal significato etico che Kant attribuiva alla parola pubblicità. Quello che è ancor più preoccupante è che trattiamo un tipo di comunicazione prepotente non voluta da chi la riceve. Parliamo di un fenomeno complesso influenzato non solo dall’economia, ma anche dalla politica e dalla cultura. Ma di chi sono le responsabilità nell’ideare le campagne pubblicitarie e nel diffonderle?
La responsabilità dell’ideazione e della diffusione delle campagne pubblicitarie appartengono all’Upa, associazione degli utenti pubblicitari. Di tale organo è stato presidente per oltre vent’anni Giulio Malgara, che sottolinea quanto sia indispensabile «un comportamento eticamente corretto, improntato a quella trasparenza e quel rigore per i quali ci siamo battuti per molti anni e che oggi vanno perseguiti più che mai». Purtroppo tali parole piene di pathos non si adeguano a quella che è la regola attuale. Valore informativo? Documentazione? Dettagli finti o reali? Cosa ci propone oggi la pubblicità? Menzognera o veritiera che sia, lavora sempre più per far ritenere opportuno solo ciò che conviene ai promotori della logica dell’acquisto. Bisogna chiedersi se è etico trasmettere messaggi pubblicitari assolutamente privi di contenuti, avversi alla morale, diseducativi e ingannevoli. In fondo la risposta risiede nelle profonde contraddizioni di un meccanismo che affonda le sue ragioni nella mera esaltazione dell’inutile. Controverse le definizioni che illustri personaggi hanno attribuito alla pubblicità stessa. Thornstein Veblen, grande economista, la definì «un parassita», Marshall McLuhan, studioso canadese, «una potentissima aggressione», Arnold Toynbee, storico, «uno strumento di diseducazione morale» e Leo Bogart, sociologo, «un male assolutamente necessario». Infine sulla funzione pubblicitaria di catturare l’attenzione e di persuadere, l’economista inglese Walter Taplin si è espresso così: «nella pubblicità la persuasione è inseparabile dalla informazione».
Regolamentazioni contro una forma di supremazia ideologico-culturale
Breve e di forte impatto emotivo, esaltato dal suo appeal deciso e incoraggiante, non possiamo assolutamente dimenticarne il messaggio: lo slogan rimane nelle nostre menti.
Ma la pubblicità può davvero tutto, può esprimersi senza freni trasmettendo qualunque tipo di messaggio? Può fare dell’ambiguità la sua leva di vendita, o a volte deve frenarsi di fronte a delle regole da rispettare? In Italia, a tal proposito, esiste il Codice dell’autodisciplina pubblicitaria, che lavora per bloccare situazioni particolarmente ingannevoli o mendaci e soprattutto vieta «lo sfruttamento della superstizione, della credulità, della paura, e l’offesa delle convinzioni morali, civili e religiose e della dignità della persona». Due sono gli organi che controllano il rispetto di tali parametri: il Gran giurì e il Comitato di controllo. Chi desidera e lo ritiene necessario può sottoporre all’analisi di tali enti tutti gli slogan che non si attengono al codice. Il Comitato di controllo vaglia tali richieste e, quando è davvero opportuno, le passa al giurì che determina se emettere una sentenza al riguardo. La procedura è estremamente veloce ma presenta delle anomalie funzionali poiché controlla solo il significato di ogni singolo messaggio non tenendo conto della frequenza, a volte esagerata, con la quale la reclame è proposta. Quasi sempre, difatti, la sanzione arriva solo quando la pubblicità è passata e ripassata troppe volte ed è già arrivata a milioni di consumatori.
Un mondo senza pubblicità
Giusta o sbagliata, subdolamente seducente e ingannevole che sia, sarebbe difficile immaginare un mondo privo di slogan pubblicitari che guidino il nostro gusto nel mondo del glamour, e che invece non ci facciano per forza essere sempre al passo con i tempi e ci ricordino che anche le mode e il fascino fanno parte del nostro essere.
Frederic Beigbeder, ex pubblicitario, nelle sue parole riassume il senso della nostra digressione. Egli si esprime così, attraverso il protagonista del suo romanzo autobiografico: «Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata in Photoshop. Immagini leccate, musiche al vento. Quando a forza di risparmi, voi riuscite a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. Il glamour è il paese dove non si arriva mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare quella precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma».
Pamela Quintieri
(direfarescrivere, anno VIII, n. 75, mazo 2012) |