“Ruggiero boys”, “Pirellini”, suite da 3.000 euro a notte per il “Principe”, contratti pubblicitari milionari stipulati con grandi nomi dello spettacolo per prestazioni mai effettuate, buchi di bilancio, appropriazioni indebite, gestioni suicide del capitale d’azienda, lettere anonime e minacce anche poco velate. Non si tratta di un thriller appassionante, ma della storia di una delle maggiori aziende italiane, Telecom Italia. Ne hanno parlato i giornali, si è molto dibattuto sulle sorti di questa società che inizialmente di proprietà dello stato, ha contribuito notevolmente all’economia nazionale. Vi presentiamo adesso un “avvincente” saggio, La banda larga di Telecom Italia (Città del sole edizioni, pp. 158, € 12,00), che, se letto con freddo cinismo dal punto di vista di chi non è direttamente coinvolto, potrebbe sembrare appunto il racconto di un’avventura degna della migliore tradizione giallistica in cui c’è una “vittima” e vanno scoperti i numerosi, ahinoi, “assassini”, metaforicamente parlando.
Proviamo allora a dare degli indizi utili per comprendere la vicenda: innanzitutto la protagonista, la “vittima”, Telecom Italia. Per descrivere la grandezza economica del nostro principale personaggio usiamo le parole dell’autore del libro, Joe Basilico, figura interessante a cui avremo modo di accennare più avanti: «Il gruppo Telecom produce ricavi complessivi per 31 miliardi di euro; ha 80.000 dipendenti e attorno c’è un indotto che fa pensare ad una vera cittadina (dati estrapolati dal bilancio del 2006 [Nda])». Si tratta insomma di un “gigante” dell’economia italiana che, nel 1997, il primo ministro di allora, Romano Prodi, decise di privatizzare. Trovare un acquirente per un colosso aziendale di questa portata non fu impresa facile; si susseguirono varie amministrazioni – quasi tutte poco accorte nella gestione delle risorse – che portarono l’azienda dritta dritta nelle mani di un personaggio noto nell’ambiente dell’imprenditoria italiana: Marco Tronchetti Provera.
Entra in gioco il primo degli “assassini”; manager rampante, proveniente da un’altra azienda importante – la Pirelli –, Tronchetti Provera acquisisce nel luglio 2001 il controllo di Telecom Italia grazie ad un meccanismo assai complicato dal punto di vista finanziario ma molto efficiente per garantire a chi comanda i massimi profitti con il minimo del rischio: il sistema delle scatole cinesi.
Tronchetti Provera, infatti, detiene una percentuale minima di una “scatola” finanziaria che, a sua volta, comprende al suo interno altre “scatole”. L’incastro di questi numerosi “pacchetti” finanziari permette al supermanager di avere il controllo quasi assoluto sulla grande impresa esponendosi, ribadiamo, pochissimo dal punto di vista dell’investimento economico.
Inserendosi all’interno di una logica di tipo feudale, Tronchetti Provera posiziona nei ruoli chiave dell’azienda personaggi a lui graditi che possano garantire un buon funzionamento del meccanismo: con il suo arrivo in Telecom Italia nel 2001 la telefonia mobile rimane nelle mani di Marco De Benedetti, quella fissa viene invece affidata a Riccardo Ruggiero.
Ecco il nostro secondo “assassino”. Riccardo Ruggiero – figlio di un ex ambasciatore, già ministro e banchiere – si forma professionalmente in grandi realtà della comunicazione: Publitalia, Omnitel e Infostrada. Nel 2001 viene liquidato in maniera assai generosa da Infostrada ed approda in Telecom Italia tramite la quota della francese Bougeoys. Porta con sé una serie di “fedelissimi” che, con amara ironia, l’autore ci presenta assegnando ad ognuno soprannomi assai caratteristici ed icastici.
Guerra tra bande
Tronchetti Provera e Ruggiero sono dunque a capo di due “bande” che hanno condizionato pesantemente la gestione dell’azienda. La prima, quella guidata da Tronchetti Provera, viene denominata dei “Pirellini”; l’altra, quella capitanata dal “Principe” Ruggiero, è definita “Ruggiero boys”. All’interno dell’azienda, però, esistono altri nuclei di interesse che spostano capitali e ricavi dove meglio conviene loro: Joe Basilico riporta stralci da articoli di quotidiani da cui si evince la presenza, all’interno dell’azienda, di una forte componente legata all’Opus dei, di un’altra riconducibile a Comunione e liberazione, di un’altra ancora espressione della Comunità di Sant’Egidio. Insomma, da quello che emerge dalle pagine de La banda larga, la più grande azienda italiana del ramo delle telecomunicazioni serviva (e continua in parte a servire) quasi esclusivamente ad accrescere patrimoni personali anziché contribuire anche (come dovrebbe essere in un sistema sano) allo sviluppo economico dell’intero paese.
Senza scendere nei dettagli di carattere tecnico, che vengono ampiamente documentati nel saggio, riportiamo alcuni esempi di mala gestione dell’azienda per dare un’idea della ricaduta sulla società dei personalismi propri della sua classe dirigente.
Pubblicità, spese personali folli, flop commerciali: in questi tre elementi si potrebbe sintetizzare la “discesa libera” che ha caratterizzato gli ultimi sei anni di Telecom Italia.
Le spese pubblicitarie sono assai peculiari per quanto riguarda la verifica della bontà dell’investimento, non è possibile infatti controllarne in maniera immediata e concreta il tornaconto economico e dunque sono più soggette ad essere usate con elasticità e flessibilità. Così si arrivava a spendere 400.000 euro per una testimonial che risulta poi essere “amica” di uno dei manager.
Le spese personali folli sono un’altra nota dolente: per le annuali convention, piuttosto che mirare alla produttività di questi incontri necessari per rinsaldare il gruppo di lavoro e rinnovarne la mission, si pensava ad organizzare sfarzosi rendez-vous in alberghi di alta classe con conti da capogiro e presenze femminili ad allietare la vista dei presenti per la modica cifra di 65.000 euro. Ovviamente tutto questo era appannaggio dei soli top manager, alla “plebe” dei semplici impiegati veniva riservato un trattamento alquanto diverso.
I flop commerciali: Telecom Italia si occupa di comunicazione, un qualcosa di intangibile, un servizio immateriale. Spesso però il core business dell’azienda sembrava essere un altro, è il caso dei video-telefonini assai pubblicizzati che costavano alla società più di quanto facessero realmente incassare.
La “bocca della verità”
Il quadro offerto è veramente sconcertante. Si potrebbe pensare che la cattiva sorte di Telecom Italia non riguardi la collettività perché si tratta pur sempre di un’impresa privata.
Il problema è che la mala gestione di una società così grande provoca dei danni anche al singolo cittadino perché erode ricchezza al paese e costringe spesso i governi a prendere misure cautelative e di tutela per i dipendenti messi in cassa integrazione per far fronte agli errori di una “casta” manageriale che pare intoccabile.
Chi può dunque raccontare la verità? Chi si cela dietro il nostro “investigatore”? Chi ha scoperto gli “assassini”?
Joe Basilico è ovviamente uno pseudonimo – che si rifà esplicitamente al notissimo Joe Petrosino, poliziotto statunitense di origine italiana che nei primi anni del Novecento tentò di sconfiggere la mafia italo-americana.
Joe Basilico è un interno, è un dipendente di Telecom Italia che, stufo dell’andazzo generale, ha deciso di non restare in silenzio e di denunciare i misfatti della classe dirigente. Dietro Joe Basilico si cela in realtà la parte sana dell’azienda, tutti coloro che lavorano quotidianamente in maniera onesta e che non possono – se non tramite la pubblica denuncia – interferire con le decisioni prese “ai piani alti” con un unico obiettivo: l’arricchimento personale.
Il coraggio editoriale
La banda larga di Telecom Italia è stato presentato qualche mese fa alla Fiera della piccola e media editoria a Roma: in una sala gremita l’editore Franco Arcidiaco e l’avvocato Raffaele Guarna Assanti hanno presentato il saggio sottolineandone l’importanza civica e sostenendo la necessità di un’operazione editoriale di questo tipo.
Joe Basilico era presente, ma in incognito: non è facile scrivere di questi argomenti e anche l’editore non si stupirebbe di ricevere da un momento all’altro qualche querela.
Il dibattito di presentazione è stato assai interessante poiché ha centrato un argomento fondamentale che riguarda non solo il “caso Telecom”, ma la libertà di stampa in generale. Come mai pochi quotidiani danno la giusta rilevanza agli scandali di gestione delle aziende?
La risposta è facile da trovare sfogliando un qualsiasi quotidiano o una rivista patinata: la pubblicità. Telecom Italia, ad esempio, ha investito grandi capitali in pubblicità sulla carta stampata, mossa che sicuramente ha avuto un rientro non economico ma d’immagine. Diventa assai difficile per un quotidiano andare contro uno dei maggiori investitori.
Ecco che il lavoro di Joe Basilico e dell’editore di Città del sole acquista maggiore importanza: in un momento in cui il giornalismo d’inchiesta sta perdendo vigore forse sono questi esperimenti coraggiosi che possono garantire davvero la pluralità di informazione.
È consolante sapere che, al solo evento di presentazione, il libro abbia fatto il “tutto esaurito”; si spera che la lettura di pagine come queste in cui l’ironia si unisce alla denuncia documentata possa contribuire a creare una solida coscienza civile nell’opinione pubblica.
Elisa Calabrò
(direfarescrivere, anno V, n. 39, marzo 2009)
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