Università: non-concorsi a Parentopoli, tra scandali e tagli, riforme e proteste
Da Einaudi un attualissimo saggio sul mondo delle accademie, con una proposta di riforma. Opinabile ma certamente radicale
di Elisa Calabrò
Leggere un saggio scritto da un economista potrebbe sembrare un’impresa un po’ difficile: grafici, dati, numeri, funzioni... non tutti siamo in grado di comprenderli e di “assimilarli”.
L’università truccata di Roberto Perotti (Einaudi, pp. 184, € 16,00), però, smentisce il pregiudizio e guida il lettore, con semplicità e chiarezza, in un argomento di grande attualità e fortemente dibattuto. Dopo “la casta” dei politici, la massoneria tentacolare, le varie “cupole” e “corone unite” che controllano diversi strati dell’economia, la lobby dei giornalisti – tutte oggetto di articoli, saggi e reportage –, ecco un’indagine su un’altra categoria professionale: quella dei professori universitari.
L’università italiana, si sa, non attraversa certo il suo momento migliore: tagli finanziari, poca ricerca, baronato imperante, corsi di scarsa o nulla “eccellenza”, pesanti difficoltà economiche per chi decide di frequentare un ateneo distante da casa, pirateria editoriale e “mafia” del libro che rendono il mercato delle pubblicazioni scientifiche asfittico e spesso poco innovativo.
In tutto questo si inserisce la questione dell’accesso alle professioni universitarie, posta dall’autore al centro della sua ricerca che si potrebbe definire, senza troppe esitazioni, una vera e propria inchiesta giornalistica. Perotti analizza i meccanismi di ingresso di ordinari, associati e ricercatori intrecciando vari strumenti di investigazione: l’indagine giornalistica, per l’appunto, ascoltando testimoni e “imputati” direttamente coinvolti nelle vicende; quella statistica, raccogliendo, analizzando e comparando dati sugli atenei italiani e quelli stranieri (soprattutto britannici e statunitensi); e, infine, le proprie conoscenze dirette sull’argomento. L’autore è infatti un prestigioso studioso di economia, “approdato” alla Bocconi dopo anni passati in importanti istituti stranieri, esperto dunque di questioni economiche e anche di un modo di gestire l’università che fa a meno delle assunzioni del figlio o della cognata del rettore!
Status quo: come si diventa professore oggi in Italia
Prima di entrare nel merito dell’argomento principale, Perotti propone un minicorso sulle regole che disciplinano, ad oggi, l’ingresso alle professioni accademiche e la struttura degli atenei.
Tre sono i livelli dei docenti di ruolo: ricercatori, professori associati e professori ordinari. Per passare da un livello all’altro bisogna superare un concorso bandito dall’università che non è però tenuta ad assumere i due candidati che solitamente vengono dichiarati idonei; numerose sono state le vicissitudini relative alla normativa concorsuale, una saga senza fine e senza soluzione di continuità determinata dalle diverse scelte operate dai vari governi succedutisi nell’ultimo decennio. L’ultima puntata è rappresentata dal “decreto mille proroghe” che ha autorizzato, nella primavera del 2008, il bando dei concorsi locali, indetti cioè dalle singole facoltà.
La legge 133 modificherà in parte anche alcuni meccanismi di funzionamento delle università, puntando al risparmio dei fondi e alla proposta di creare «fondazioni di diritto privato».
Riformare l’università: ricetta da economista
«Questo libro è dedicato alle centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze che ogni anno iniziano l’università con il desiderio di imparare e la convinzione di poter spaccare il mondo; e ogni anno si ritrovano ingannati e disillusi da un sistema perverso e iniquo, che prende giovani entusiasti e li trasforma in cittadini cinici».
La dedica che l’autore pone all’inizio del libro è di per sé esplicativa. L’intento principale del saggio è, infatti, smascherare un malcostume assai diffuso (nonostante i più alti organi degli atenei tendano a minimizzare) proponendo soluzioni concrete per un cambiamento vero delle università.
Prima di proporre una “ricetta” risolutrice, è necessario, però, distruggere alcuni falsi miti sedimentati intorno all’immagine che la società intera ha dell’università e analizzare con metodo scientifico la realtà dei fatti. La critica più significativa (e più volte riproposta nel libro), che l’autore fa alle istituzioni accademiche e in parte ai rappresentanti del governo, è quella di non affrontare seriamente la situazione, di minimizzare i problemi, di chiedere fondi senza verificare la necessità di nuove sovvenzioni, di sprecare denaro e non investire nella ricerca, di fare in modo in pratica che «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!»
Non c’è occasione ufficiale in cui, spesso con retorica e con falso interesse, non si ricordino i problemi legati al clientelismo e al nepotismo che affliggono le università italiane di ogni ordine e grado, non c’è inaugurazione dell’anno accademico in cui non si rammentino le tristi sorti della ricerca e dell’eccellenza formativa, non c’è episodio di cronaca legato a truffe e concorsi truccati in cui non si alzi un coro di accuse verso le poche mele marce. L’autore ci mette in guardia verso tutti questi atteggiamenti, affermando che, se si vuole davvero scuotere l’università, bisogna affrontare due passi importanti: fare i nomi di chi, a vario titolo, è stato coinvolto in episodi illegali e fortemente lesivi per la facoltà, il dipartimento o l’ateneo tutto e tentare di quantificare i fenomeni di clientelismo e nepotismo. Solo così, a detta di Perotti, si potrà «andare oltre l’aneddotica» e proporre un nuovo modello di università.
Analisi attenta dunque sullo stato delle cose, decostruzione puntuale di cinque “falsi miti” dell’università italiana, critica alle riforme attuate fino ad ora e, infine, una dettagliata proposta di modifica da applicare per ridare linfa e vitalità agli atenei. Così strutturato, il saggio poggia su due messaggi di fondo che fanno da base e da spunto propulsivo per l’autore: «gli incentivi, non le regole, potranno cambiare la nostra università», e «la ricerca è centrale» per rinnovare e rinforzare il massimo grado dell’istruzione.
Parentopoli a Bari. Ma anche a Messina, a Napoli, a Roma…
Il capitolo sul nepotismo dilagante in numerose università italiane, al di là del caso eclatante della facoltà di Economia di Bari, serve a comprendere alcuni aspetti scandalosi dei concorsi a cattedra e a motivare perché sia così urgente e necessario rivedere, non solo i meccanismi di ingresso, ma anche le tipologie di intervento per contrastare il cosiddetto baronato.
L’autore propone un’indagine quasi giornalistica, considerando tutti i dettagli legati ai concorsi e presentando delle tabelle esplicative che fotografano la complessa realtà delle “famiglie accademiche”. Con velata ironia Perotti fa emergere alcune caratteristiche preoccupanti.
Innanzitutto, manca la concorrenza, quasi sempre, infatti, i concorsi vengono tentati da pochissime persone; spesso i possibili candidati sono scoraggiati da “qualcuno” a partecipare o si autocastrano ben consci dell’andazzo generale: purtroppo è assai condiviso l’assunto: «senza raccomandazione non vai da nessuna parte», che ingenera, a volte, comportamenti scorretti anche tra la gente generalmente onesta. In secondo luogo, c’è un impressionante “scambio” di commissari, se tizio ha fatto parte della commissione al concorso di mio figlio, molto probabilmente io sarò commissario nel concorso di sua nuora: è evidente che così facendo lo scambio di favori è facilissimo e assicurato. In ultimo, alcune persone fanno carriera con velocità sorprendente: nel letargo generale cui siamo abituati, i concorsi che vedono idonei i “figli di” sono banditi con estremo tempismo e procedono spediti e senza intoppi.
Che dire? È possibile che ci siano «famiglie particolarmente portate alla carriera accademica», dando un’occhiata alle tabelle presentate dall’autore, però – passato il capogiro che si avverte nel tentare di districarsi tra gli intricati intrecci di parentela – si ha la netta sensazione che a decidere siano in pochi e che la professione accademica sia talvolta quasi diventata ereditaria.
L’aspetto più sconcertante che emerge dall’indagine “sul campo” condotta dall’autore è che questi atti di palese nepotismo avvengono senza che nessuno susciti obiezioni, nell’omertà generale. Perotti ha trovato non poche difficoltà nel reperire i dati, proprio perché le persone informate non hanno voluto parlare e fare i nomi dei personaggi coinvolti. È ricorrente, leggendo il saggio, la percezione di un universo pseudomafioso che non si vuole scoprire per paura di esserne travolti. Ed è inquietante come, anche nelle ultimissime proteste, siano stati pochi i riferimenti al baronato, alle modalità di accesso all’università, ai concorsi truccati.
Miti che si sciolgono
Nonostante la disastrosa realtà l’università italiana viene spesso definita all’avanguardia, efficiente, egalitaria; nonostante il sottofinanziamento cronico, gli atenei italiani sono tra i più prestigiosi del mondo. Com’è possibile? Con rigore matematico e con statistiche alla mano Perotti affronta i “falsi miti” dell’università italiana sottoponendoli al vaglio dettagliato tanto da farli sciogliere come ghiaccioli al sole.
Il primo mito è che l’università italiana sia priva dei fondi adeguati: avanzando critiche a questa affermazione, l’autore si attirerà sicuramente le antipatie di molti e farà sollevare un forte coro di protesta. «Come? Con tutti i tagli che vengono fatti dovremmo accontentarci dei soldi che abbiamo?». In realtà, l’economista, comparando i dati relativi agli stipendi dei professori e dei ricercatori italiani e britannici giunge ad una conclusione assai verosimile: l’università italiana i fondi li ha, ma li spende male; non premiando il merito e sprecando risorse per “sistemare” i rampolli di alcune famiglie influenti. Inoltre, le statistiche che vengono utilizzate per motivare la richiesta di fondi ulteriori sono spesso male interpretate o paragonate ad altre statistiche internazionali che usano parametri diversi di valutazione.
Secondo mito è quello del «poveri ma bravi»: la tanto sbandierata eccellenza scientifica italiana non ha un fondamento concreto a parere dello studioso. Anche a questo proposito probabilmente saranno numerose le critiche rivolte all’autore che utilizza, infatti, un metodo di valutazione univoco e non sempre condivisibile. Si parte dall’assunto che l’eccellenza sia dimostrata dalla qualità della ricerca e misurabile con criteri bibliometrici. Perotti sostiene, infatti, che un buon ateneo sia quello in cui i docenti siano impegnati nella ricerca, pubblichino molti libri e articoli internazionalmente considerati validi e contribuiscano così ad ampliare le conoscenze degli studenti che possono acquisire nuove competenze direttamente da chi fa progredire la disciplina. La conclusione cui giunge l’autore è che, con le dovute eccezioni, l’università italiana non ha un posto di rilievo nel panorama della ricerca mondiale. L’obiezione che si può sollevare a tale proposito è che, sì, la ricerca è importante per il prestigio dell’ateneo, ma che la didattica ha un suo peso specifico elevato nel valutare la bontà di un’accademia e, se il prof. “Tal dei Tali” per pubblicare il nuovo risultato della propria ricerca si assenta spesso e non è mai disponibile a ricevere gli studenti, sicuramente il livello dell’istituto ne risentirà perché sfornerà laureati poco seguiti e, possibilmente, poco competenti.
Inoltre, volendo considerare la produzione scientifica del corpo docente come criterio di valutazione indispensabile per giudicare la validità di un ateneo o di un corso di laurea, si va incontro ad un’altra questione – assai dibattuta in ambito accademico –, quella della corretta definizione dei criteri bibliometrici, soprattutto per quanto riguarda le discipline umanistiche. L’autore fa riferimento a metodi come la peer review, secondo la quale ogni pubblicazione viene sottoposta ad un gruppo di docenti “pari” all’autore per competenze e anzianità che ne decreta la bontà scientifica prima della pubblicazione su riviste cosiddette refereed. Si potrebbe anche considerare l’impatto in termini di citazioni sulla comunità scientifica – ovvero la quantità di riferimenti ad una determinata pubblicazione in articoli di altri esponenti dello stesso settore disciplinare e la rilevanza di tali citazioni (che, ad esempio, cambia a seconda che il testo venga citato su riviste internazionali piuttosto che sul periodico dello stesso dipartimento cui afferisce l’autore) –, come detto però l’applicazione di tali criteri risulta un po’ macchinosa per quanto riguarda la ricerca in ambito umanistico, per la quale è difficile definire parametri di valutazione assoluti e aprioristici.
Il terzo mito riguarda il clientelismo, che viene riconosciuto da più parti, ma come fenomeno circoscritto. Analizzando, però, i concorsi e alcuni parametri significativi quali l’omonimia e la provenienza del corpo docente, si scopre che il fenomeno è assai diffuso e non interessa solamente atenei isolati e concentrati in alcune zone del paese.
L’ultimo mito fa riferimento ad una questione assai spinosa: il sistema attuale permette a tutti di accedere all’università garantendo uguaglianza ed equità. Perotti propone anche in questo caso un’idea che rischia di essere impopolare. Dal momento che, statisticamente, l’università è tuttora frequentata dalle parti più ricche della società bisognerebbe innalzare le rette e costruire un sistema più efficiente di “redistribuzione” delle risorse per permettere davvero agli studenti meno abbienti di frequentare l’università e di avere le stesse possibilità dei propri coetanei più ricchi.
Guida pratica per una riforma radicale
L’autore è molto critico verso le soluzioni più diffuse che sono state tentate per sanare gli atenei: appello all’etica, creazione di più regole che, dice Perotti, sarebbe fallimentare perché «in mancanza di incentivi appropriati le regole sono fatte per essere aggirate», azioni legali e indagini ministeriali, ecc.
La sua proposta di riforma si basa su alcuni capisaldi che egli motiva ampiamente e in maniera assai concreta: centralizzare l’eccellenza, dando più risorse agli atenei migliori; innalzare le tasse universitarie, con un rigido sistema di controllo per la destinazione delle risorse; aumentare la mobilità degli studenti, con sovvenzioni per gli studenti fuori sede e un meccanismo di assegnazione delle borse di studio più capillare ed equo; creare dei prestiti d’onore condizionati al reddito e alla futura professione; liberalizzare gli stipendi dei docenti, per permettere agli atenei di attirare le più famose “teste d’uovo”; abolire i concorsi, che spesso sono solo fonte di corruzione e favoritismi; punire il demerito, in un sistema di incentivi commisurati al merito che possa far ricadere sui rettori (spesso principali responsabili del nepotismo) le conseguenze di scelte motivate esclusivamente dalla convenienza; liberalizzare la didattica; abolire il valore legale del titolo di studio (senza questa misura non sarebbe, infatti, possibile eliminare i concorsi); estendere il numero chiuso per controllare la qualità; creare fondazioni universitarie su base volontaria.
Perotti sottolinea come questo progetto di riforma debba essere applicato in toto per essere davvero efficiente: approvando solo una di queste proposte, infatti, si rischierebbe di non mutare lo stato delle cose ma di favorire anzi ancora di più il dilagare dei mali che incancreniscono gli atenei.
Sicuramente interessante e con spunti innovativi che potrebbero davvero riformare l’università italiana, il saggio ha forse il suo limite nel considerare soltanto un aspetto, quello della ricerca, nella valutazione della bontà di un istituto universitario e nell’appiattire l’interno sistema formativo su un modello finanziario che si basa sul principio «i soldi seguono la qualità». Il rischio che si corre, e che l’autore stesso considera, è di andare incontro ad una «mercificazione della cultura».
Elisa Calabrò
(direfarescrivere, anno V, n 38, febbraio 2009)
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Post scriptum del 21 febbraio 2009:
A conferma della triste situazione dell’università italiana raccontata in questo articolo riportiamo uno stralcio da una notizia apparsa il 14 febbraio 2009 sul portale di Rai news 24 (vedi al link www.rainews24.rai.it/notizia.asp?newsid=106667).
Ecco quanto si evince dalla classifica degli atenei più prestigiosi stilata annualmente dal quotidiano britannico Times: «una sola università italiana tra le prime 200: è quella di Bologna che si piazza al 192esimo posto, perdendo 19 posizioni rispetto allo scorso anno, quando era 173esima».
Seimila accademici e duemila imprenditori del settore pubblico e privato hanno valutato le università italiane tra le peggiori. A parte Bologna, “La Sapienza” di Roma viene collocata al 205esimo posto, il “Politecnico” di Milano al 291esimo mentre la “Bocconi” viene addirittura confinata oltre il 400esimo posto.
Si spera che questi dati possano essere uno stimolo a cercare una “rivincita” per gli atenei italiani.