Anno XX, n. 223
settembre 2024
 
In primo piano
Il sisma del 28 dicembre 1908 a Messina
nel diario coinvolgente di un giornalista
Città del sole riedita l’appassionante testimonianza di Jean Carrère.
E anche un saggio sugli effetti del terremoto in una zona calabrese
di Luigi Grisolia
Il 28 dicembre 1908 è una data ormai entrata nella memoria collettiva degli italiani. Alle 5:21 del mattino, infatti, un’indescrivibile tragedia colpì lo Stretto di Messina: un terremoto del decimo grado della scala Mercalli (seguito poi da un maremoto) rase al suolo Messina e Reggio Calabria, nonché gli altri paesi che si affacciavano su quel meraviglioso “angolo” di mare, e danneggiò gravemente molti altri comuni. Messina ebbe oltre centomila morti, più altre migliaia su tutto il territorio colpito (circa quindicimila a Reggio), senza considerare i feriti. Danni ingenti si registrarono fino a Rosarno sul versante tirrenico e Siderno su quello jonico della Calabria, mentre in Sicilia fino a Patti su quello tirrenico e fino alla zona etnea, lungo la costa orientale dell’isola.
La bibliografia sviluppatasi sull’argomento è ampia e interessante: si va da La catastrofe sismica calabro-messinese. 28 Dicembre 1908 di Mario Baratta (1910, disponibile in ristampa anastatica presso Forni editore), a Un duplice flagello: il terremoto del 28 dicembre 1908 in Messina ed il governo italiano di Giacomo Longo (1911, ora Edas), da Messina prima e dopo il disastro a cura di Giuseppe Principato editore (1911, ora Intilla), fino ai recenti Le mani su Messina prima e dopo il terremoto del 1908 di Dario De Pasquale (2007, Armando Siciliano editore) e Il terremoto dei terremoti. Messina 1908 di Franz Riccobono (2007, Edas). Senza dimenticare, infine, La terra trema. Messina 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l’Italia, non gli italiani di Giorgio Boatti (2004, Mondadori), 28 dicembre 1908 ore 5,21 terremoto di Sandro Attanasio (2007, Bonanno) e, fresco di stampa, il lavoro di John Dickie Una catastrofe patriottica. 1908: il terremoto di Messina (2008, Laterza).
La tragedia è raccontata anche dalle parole del giornalista francese Jean Carrère, nel suo diario Le terre infrante. Calabria e Messina 1907 1908 1909 (Città del sole edizioni, pp. 184, € 18,00), pubblicato per la prima volta nel 1911 dall’editore Principato di Messina con il titolo La terra fremente, il libro testimonia non soltanto gli avvenimenti tragici seguiti al sisma ma anche la congerie culturale attiva nel capoluogo siciliano che venne letteralmente recisa dall’evento tellurico. La Prefazione, nella versione originale, era infatti firmata da Tommaso Cannizzaro, intellettuale, studioso di tradizioni popolari, traduttore di poesie e poeta egli stesso, e riportava una nota dell’autore da cui si evince il suo stretto rapporto con gli intellettuali messinesi, in particolare con il primo traduttore dell’opera – Tommaso Landi – che si era molto impegnato per la pubblicazione e la diffusione della cronaca dell’amico francese.
Testimonianza coinvolgente dei giorni immediatamente successivi allo sconvolgente evento, il libro è stato ristampato quest’anno sotto la cura di Giuseppe Pracanica e la traduzione di Rosa Maria Palermo Di Stefano.
Il diario è diviso in tre parti. Nella prima (La minaccia) l’autore narra della sua visita nella zona colpita dal terremoto dell’ottobre del 1907, in Calabria: Carrère è sconvolto dalla vista del paesino di Ferruzzano, nel reggino, raso al suolo («Si direbbe lo sventramento di una città ad opera di misteriosi demoni della notte», scrive); poveruomo, non sa ancora delle atrocità che vedrà da lì ad un anno. L’occasione è, pur nella sua drammaticità, propizia per vedere, per la prima volta, l’incantevole Stretto e Messina, che «paragonata agli altri porti cenciosi del Mediterraneo, fa l’effetto di una marchesa in veste di broccato fra ortolane dalle braccia rosse. Ho ben visto moli su molte rive; non conosco nulla che eguaglia questa “Palazzata” di Messina. Immaginate una schiera di monumenti dalle linee pure, analoga per mobilità alla colonnata del Louvre e che si prolunga su una curva di 2000 metri, lungo una rada piena di battelli».

L’immane tragedia
La seconda parte (Lo spavento), la più corposa, tratta dei giorni terribili del 1908 e di inizio 1909. Il 28 dicembre Carrère si trova a Roma, e sente, dagli strilloni, di notizie confuse provenienti dal Sud: si parla di una catastrofe, di un terremoto, si cercano conferme, non arriva nessun telegramma, non si riesce a comunicare con quella zona. Poi arriva un titolo emblematico: «Silenzio terribile sulla Sicilia».
Comincia a diffondersi il panico – ci sono molti emigrati calabresi e siciliani –, qualcuno, speranzosamente, cerca di trasmettere calma: «Signori! Signori! Pazienza e coraggio! Forse non è nulla! Io sono Siciliano[...]. Accade spesso che i cavi siano tagliati, basta che il mare sia cattivo». Infine arriva la conferma.
Il giorno dopo il giornalista è su un treno che lo porta fino a Bagnara Calabra, dove alla stazione ha una prima impressione del dramma: la gente cerca in tutti i modi di salire sul treno per scappare dalla catastrofe. A piedi, vista l’impraticabilità della ferrovia, arriva con i suoi compagni di viaggio a Scilla, distrutta, ma si rende conto dell’impossibilità di proseguire oltre; così decide di andare a Napoli e da lì prendere un piroscafo per Messina.
Dal capoluogo vesuviano, nel cui porto giungevano le navi cariche di feriti dallo Stretto («l’intera città si è organizzata in un gigantesco comitato di soccorso», nota elogiando l’umanità dimostrata dai napoletani), si imbarca sul Campania l’1 sera e la mattina del 2 gennaio 1909 è in arrivo: prima, naturalmente, vede le zone di Torre Faro, Ganzirri, Sant’Agata – villaggi della zona Nord della città peloritana – e poi il centro cittadino. Le sue parole sono emblematiche:

«La bianca torre del Faro è spaccata e i suoi enormi ferri si torcono come serpenti calcinati. Neanche una casa è rimasta intatta, neanche una! Ce ne sono che si ammassano sulla strada, in mucchi di polvere, dai quali fuoriescono travi ingarbugliate. Altre, non hanno più che muri sventrati. Le più solide sembrano sopravvivere ma, mano a mano che ci si avvicina, si vedono buchi enormi, fenditure a zig-zag, dall’alto in basso. Talvolta, una chiesa, dalle volte che superano le case ordinarie, mostra, sopra le sue rovine, un avanzo di muro con affreschi dai vivi colori. Il mare furioso, dopo che la terra ebbe smosso le sue fondamenta, diresse i suoi flutti sulle case già scosse, e si ritirò trascinando la maggior parte delle facciate. [...] Infine, Messina; o almeno lo scheletro contorto di ciò che fu Messina. Nulla! Nulla! Non resta più che un caos fumante di pietre accumulate. La Palazzata ha l’aria di un’immensa mascella scheggiata, da cui sbuffa un soffio di pestilenza e di fuoco».

Carrère rimane a Messina per due giorni, durante i quali visita la città (gira con un revolver in tasca – per proteggersi da eventuali criminali –, e sul naso, tenuto con la mano, un pacco di ovatta imbevuto di acido fenico per proteggersi dall’odore dei morti) e annota le sue impressioni e le testimonianze raccolte. Così, la vista del Duomo «sconquassato», il racconto della barca dei Folli, dove venivano portate le persone rimaste ancora sotto shock, o, peggio, impazzite a causa del trauma del sisma, l’inutile visita di Vittorio Emanuele III (che provoca un ulteriore caos nella già difficile situazione), l’opera di sostegno morale dell’arcivescovo D’Arrigo, il drammatico abituarsi dei sopravvissuti alle lugubri scene dei ritrovamenti dei cadaveri, anche di bambini. Ma anche i tanti “eroi discreti” di quei giorni, a cominciare dai marinai russi e inglesi – che, com’è noto, furono coloro che portarono i primi soccorsi – oltre a quelli italiani.

La feccia umana
Ampio spazio è dedicato al fenomeno, che testimonia l’incredibile cattiveria cui possono arrivare la cupidigia e l’avidità umana, delle bande armate e degli episodi di sciacallaggio. A questi, rapidamente, sono seguite le reazioni dei sopravvissuti (giustizia sommaria) nonché un provvedimento del governo che affidava alle autorità militari il compito della repressione, con fucilazione immediata di chi veniva colto sul fatto. Possibilità questa fortemente criticata da Carrère, ma che trovava l’approvazione anche dell’Avanti!, l’organo del Partito socialista italiano.
Fin dalle immediate ore seguenti il sisma, la feccia umana (perché solo così può essere definita) dei bassifondi di Messina, oltre a detenuti sopravvissuti al crollo delle carceri e a ladri “isolati”, si è organizzata in bande, e così come i soccorritori dividono la città in aree per organizzare la macchina degli aiuti, così loro dividono la città in aree per razziarla. Non solo banche – quelle conviene farle di notte, perché le casseforti sono nel sottosuolo, magari dopo aver appiccato un incendio – ma soprattutto le case della “Messina bene”, dei ricchi commercianti: tra le macerie, chissà quanti soldi, gioielli, oggetti preziosi. C’è anche chi ha pensato di far un salto alla caserma dei carabinieri (anzi, a quel che rimane della caserma) e mettersi le uniformi. Ma non finisce qua, perché molti di questi criminali si macchiano di comportamenti aberranti, narrati dalle testimonianze raccolte da Carrère. Ne riportiamo una di seguito.

«Quest’infelice è un ricco commerciante; si è sforzato di uscire dalla sua casa crollata, ma ha potuto mettere soltanto la testa fuori dalle macerie. Il resto del corpo è intralciato dalle tavole. Con la mano sinistra, tiene la mano di sua moglie che sente ancora viva. Da ore e ore chiamano invano. La sua voce è troppo debole. Infine, grazie a Dio, ecco qualcuno. E l’infelice sepolto vede venire verso di lui un uomo robusto [...].
- Per pietà! Per carità! Aiuto!
- Chi sei? domanda l’uomo.
- Il tale, sai, commerciante.
- Tu sei ricco ed io sono povero. Che mi dai se ti salvo?
- Tutto ciò che vorrai, dopo.
- No, subito.
- Ebbene, ascolta. Ho accanto a me, in un cassetto che tocco con la mano, ventimila franchi in biglietti di banca. Ma non mi posso muovere. Liberami. Ti do i ventimila franchi. E tu ci libererai dopo, mia moglie ed io. Ma presto! Presto! Mia moglie soffoca. Se fai presto, ho fondi in banca; ti darò dell’altro in seguito.
- Va bene!
E l’uomo robusto toglie rapidamente le tavole che schiacciano il petto del sinistrato, in modo che quello, con le mani libere, ebbro di speranza, prende i ventimila franchi e li porge al suo “salvatore”.
Allora questi, vedendosi ricco, e temendo che il donatore, una volta uscito, racconti il fatto, ributta immediatamente sull’infelice tutte le tavole tolte, e altre ancora, appicca il fuoco a tutto, e scappa...».

La lenta rinascita
Carrère ritorna a Messina in aprile: ancora non c’è traccia di ricostruzione (fatta ovviamente eccezione per le baracche), ma la città riprende comunque a vivere. La terza parte del diario è intitolata La resurrezione: dal riferimento religioso evidente – si racconta anche della processione di Pasqua – traspare la voglia di ricominciare. Ci affidiamo di nuovo alle parole del giornalista. «Sul molo, ai piedi di ciò che fu la Palazzata, ambulanti, dai fazzoletti chiassosi, vendono pesci in panieri che luccicano. [...] Lungo la “marina”, sul lato vicino al mare, ci sono baracche di tavole, tutte costruite differentemente, secondo il capriccio dei concessionari, e che piacciono per la loro armoniosa varietà. Già, dentro e fuori, intravedo tende dai colori diversi, biancheria appesa, alcune stampe prese da rotocalchi popolari, ritratti del re e della regina, insegne dalle lettere chiassose, manifesti pubblicitari. I bars, di tavole, col bancone all’esterno, distribuiscono limonata, vermouth. [...] Dall’altro lato del corso, esattamente sotto i palazzi distrutti, ci sono alcuni piani rialzati rimasti quasi indenni, le cui macerie sono state spazzate, per installarvi magazzini, depositi, uffici per le compagnie commerciali, e anche alberghi per marinai e soldati. Visto il bel tempo, le tavole brillano davanti alla porta; ed i commensali, stretti intorno a bianche tovaglie, mangiano con appetito maccheroni e fritture, su cui, talvolta, il vento che passa distribuisce la polvere del porto. [...] Il Viale San Martino [la via principale di Messina, Nda] risuona, da un capo all’altro di una folla agghindata che circola passeggiando. Qua e là, molto rare, alcune donne e ragazze vestite di nero, con un velo sulla testa. Sono soltanto i ricchi che portano il lutto nei loro vestiti. Il popolo, che non ha i mezzi per rinnovare il vestiario, continua a vestirsi di colori chiari. Le capanne, da ogni lato del corso, sono su due file, strette come tende in un campo. Molti bar, ristoranti, cucine all’aperto perché siccome cucinare, sotto i baraccamenti, è molto difficile, quasi tutti mangiano fuori. I prezzi, del resto, sono generalmente modici. Leggo, su un cartone: Qui si mangia per mezza lira. Le casalinghe e i venditori, che spingono i carretti, si accapigliano sul prezzo delle merci; e una banda di bambini che gioca ai birilli si interrompe per sollecitare i ragli lamentosi di un asinello».

Il circondario di Palmi
Ma come dicevamo all’inizio, il sisma del 1908 provocò danni, morti e feriti in una vasta area. Il saggio Il terremoto del 1908 nel circondario di Palmi. La Piana di Gioia Tauro tremò ancora una volta (Città del sole edizioni, pp. 136, € 15,00) di Isabella Loschiavo Prete si concentra sulla zona del reggino indicata nel titolo. Il lavoro nasce in particolare da una minuziosa, e preziosa, consultazione dell’Archivio di stato di Reggio Calabria nonché delle biblioteche della stessa città, di Polistena e di Taurianova.
Nella provincia reggina ci furono circa venticinquemila morti – di cui, come dicevamo all’inizio, circa quindicimila nel capoluogo: a Palmi si contarono 700 morti e 1.000 feriti, a San Procopio 36 morti e 1.000 feriti, a Sant’Eufemia 839 morti e 1.000 feriti, a Seminara 800 feriti.
Anche se, fortunatamente, in alcuni paesi non si verificarono morti, e in certi casi neanche ferimenti, comunque diffusi e ingenti furono i danni al patrimonio edilizio: a Palmi, per esempio, su 2.221 case, 445 crollarono, 1.189 furono gravemente danneggiate e 387 lesionate. Il comune più colpito fu certamente quello di Sant’Eufemia d’Aspromonte, arroccato su uno sperone roccioso, raso al suolo (come già era accaduto nel sisma del 1783): seguirono interminabili polemiche sul luogo della sua ricostruzione, riportate puntualmente dall’autrice in uno specifico capitolo.
Nei mesi successivi al terremoto vennero svolte inchieste in particolare sullo stato e la funzionalità dei vari municipi: emerse così che su 34 comuni del circondario, 15 avevano locali inservibili, 12 riparabili, 7 in buone condizioni. Per quel che concerne gli archivi, solo 16 erano in ordine, mentre in 7 comuni lo stato civile non era stato più aggiornato dal giorno della tragedia.
Queste inchieste durarono mesi, così come quella sugli istituti di beneficenza. L’autrice, infine, riporta anche un quadro delle chiese andate distrutte o danneggiate; tra le altre: a Palmi crollò la chiesa di San Rocco, a Radicena l’antica torre del campanile della chiesa di Santa Maria delle Grazie, a Polistena la chiesa della Santissima Trinità.
In conclusione, il merito del lavoro della Loschiavo Prete è certamente quello di porre l’attenzione su un territorio che, comunque gravemente colpito dalla tragedia, sebbene in misura non paragonabile a Messina e Reggio (ma ha senso fare comparazioni di questo tipo?), ha avuto poca attenzione nei lavori degli storici.

Luigi Grisolia

(direfarescrivere, anno V, n. 37, gennaio 2009)
 
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