Anno XX, n. 223
settembre 2024
 
In primo piano
Da bambino “difficile” a uomo e padre:
diario di un sofferto riscatto personale
Da Città del Sole una storia autobiografica di violenza e disagio
nella realtà inquietante degli istituti per minori negli anni ’60-’70
di Luciana Rossi
Leggendo il racconto autobiografico di Ettore Caruso presentato dalla casa editrice Città del Sole nella collana La vita narrata e intitolato Il mio male custode, (pp. 212, € 12,00), siamo trasportati in uno spaccato della situazione sociale dell’Italia degli anni Sessanta-Settanta e, allo stesso tempo, nel cuore dell’avventura di un uomo.
La scrittura di Ettore Caruso è spezzata e incisiva, come lo sono i suoi ricordi. Frasi brevi, crude, quasi interrotte dal bisogno di respirare, formano questo racconto, come i ricordi, distinti e netti, formano il mosaico della sua vita: tasselli di memorie, frammenti di dialoghi, che si infilano taglienti nella mente come schegge di vetro, impossibili da rimuovere; momenti di impeccabile lucidità che galleggiano come isole in un mare di oscurità e di oblio, quasi che il passato fosse sprofondato chissà dove, lasciando affiorare solo queste isole, punte di iceberg sommersi, gelide come cristalli di ghiaccio.
Ormai adulto, come testimonia l’autore, i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza lo inseguono, premono per essere ascoltati e raccontati. Episodi difficili, a volte tremendi, ma anche delicatissimi attimi d’amore, inaspettati e apparentemente insignificanti: il nonno che lo porta «a passeggio per il paese» e lo fa sentire «prima ancora che nipote, e ancor più che figlio, un bambino», l’addio al compagno sordomuto, lasciato in istituto con indosso l’unico indumento usato per il giorno e la notte, il pigiama: «Nei suoi occhi leggo che ha capito. Ci siamo stretti in un lungo abbraccio».
Sia gli uni che gli altri sono afferrati con lo sguardo spietato, eppure innocente e disarmante, che solo i bambini sanno avere: senza nascondere niente, senza tacere niente, ma senza indulgere morbosamente nei particolari. Sì, perché nel mondo visto dagli occhi dei bambini tutto è possibile, tutto è accettato: tutto è potenzialmente terribile o potenzialmente meraviglioso. È questa la loro fragilità, e la loro forza.

Una storia eccezionale?
L’eccezionale di questa storia è proprio che non è eccezionale, e proprio per questo era importante raccontarla e pubblicarla.
Il protagonista, l’autore stesso, non è stato sulla Luna, non è stato travolto da eventi unici e memorabili nella storia, da un terremoto formidabile, una guerra micidiale o l’esplosione della bomba atomica: la sua è una storia “normale”, la storia di una famiglia che cerca di migliorare la propria esistenza, la storia di una ragazza-madre, di violenze subite in famiglia, di un’infanzia vissuta negli istituti e di un’educazione impartita coi metodi lì applicati in quegli anni. È una vicenda di povertà, di ignoranza e di pregiudizi svoltasi non in un tempo remoto, ma solo pochi anni fa, in un’epoca che possiamo ricordare con facilità, e ambientata non dall’altra parte del mondo, ma soltanto “un po’ più in là”, in città e regioni i cui nomi ci sono noti e familiari: prima a Palermo, poi a Palmi, poi in Veneto e infine a Reggio Calabria, località in cui probabilmente ci siamo trovati a passare. Vediamone, insieme a lui, gli eventi più significativi.
Nato nel 1961 a Palermo, da una ragazza di un paese dell’entroterra calabrese inviata dalla famiglia a lavorare come domestica in casa di un’agiata coppia siciliana e disgraziatamente “sedotta e abbandonata” da un giovane militare resosi introvabile dopo la notizia della gravidanza. Ettore (così lo chiameranno le suore del primo di una lunga serie di istituti ai quali sarà affidato) è da subito il “figlio della colpa”, anche se non per questo colpevole. Diffusi modi di dire, quelli che abbiamo appena di proposito usati, luoghi comuni solo per chi non li ha vissuti sulla propria pelle come un suggello di indegnità. In casa del nuovo compagno della madre, un affermato avvocato da cui ella avrà un secondo figlio, Ettore resta una presenza scomoda e imbarazzante da nascondere ai conoscenti del paese, e su di lui il patrigno spesso riversa violentemente la sua rabbia. Inviato di nuovo, per il bene di tutti, in un istituto, i comportamenti aggressivi con cui tenta di sfogare la sofferenza che non riesce a esprimere nei brevi periodi in cui ritorna a casa, gli valgono il trasferimento in un luogo più severo, dove inquietanti metodi costrittivi e la somministrazione di psicofarmaci sono prassi comuni. Qui vivrà forse le esperienze più dure della sua infanzia.
Di nuovo trasferito, ormai un ragazzino di 8 anni che non sa né leggere né scrivere, in Veneto, in un istituto più grande e moderno, potrà, tra l’altro, frequentare la scuola. Malgrado le punizioni e il fantasma della malattia mentale che incombe ovunque, ci sono descritte con vivacità le interminabili giornate di giochi, le uscite, le nottate insonni, le prime esperienze sessuali condivise con gli altri ragazzi. Il contatto e la vicinanza fisica con i compagni è per tutti il surrogato della mancata affettività familiare, il gioco diventa una palestra per la vita ed emerge la personalità forte e carismatica di Ettore.
Ormai, però, la sua giovane psiche è stata fortemente scossa e ne porterà i segni a lungo, forse per sempre. Il “male custode” del titolo, come “l’angelo custode” toccato in sorte ad altri bambini più fortunati, non lo lascerà mai, l’accompagnerà sempre, impresso nella sua mente e nel suo corpo.
Intanto, la figura della madre, lontana fisicamente, ma anche incomprensibile e incapace di comprendere, sbiadisce nello sfondo, fino a che, come capita a molti reclusi, gli assistenti e i compagni diventano “la famiglia” e l’istituto diventa “il mondo”, l’unico possibile, dal quale è pericoloso uscire e allontanarsi. Appena rientrato, in preda a una crisi di panico, da una fuga di appena qualche minuto attraverso un tunnel scavato al disotto del muro di recinzione e chiamato a testimone dagli altri compagni rimasti dentro, racconterà: «Poi mi viene da dire queste parole: “Non dovete uscire. Fuori ci sono i mostri”. In quel momento sento arrivare la crisi di pianto».
Nella seconda parte del libro il racconto fluisce più scorrevole: lasciato per sempre, non senza timore, quell’istituto e poi, raggiunta la maggiore età, un altro per ragazzi più grandi, Ettore riuscirà, attraverso circostanze più favorevoli e una graduale presa di contatto con il mondo esterno, a trovare un lavoro. Anche se rimarranno le crisi di panico e l’abitudine ad aspettarsi di essere abbandonato, si costruirà una vita tutta sua, da gustare «attimo per attimo», e una famiglia tutta sua, fino a vivere l’esperienza, per lui scioccante e meravigliosa allo stesso tempo, della paternità, accettando, giorno dopo giorno, la sfida di essere un buon padre senza averne avuto uno.

In cammino verso la libertà
La sua voce ci aiuta a capire che un bambino “difficile” è prima di tutto un bambino in difficoltà e che un bambino “cattivo”, come rivela l’origine di questa parola troppo spesso usata come un marchio indelebile, è soprattutto un bambino “prigioniero”, e quasi sempre di problemi non suoi. E prigioniero Ettore lo è stato veramente: per anni dell’unica posizione in cui riesce ad addormentarsi, quella in cui è stato a lungo costretto con la camicia di forza, poi dei suoi ricordi e dei suoi incubi, poi dei suoi comportamenti disturbati, poi delle allucinazioni. Affronta questi problemi per lo più da solo, con piccoli espedienti: coprirsi la testa con il lenzuolo, rifugiarsi in un luogo nascosto, perfino guardare il cielo. Qualcuno lo definirebbe un bambino coraggioso, e certamente coraggioso lo è, eppure chi parla di coraggio in queste occasioni troppo spesso dimentica che a volte semplicemente non ci viene lasciata una scelta, una vera alternativa, e l’unica possibile è tra sopravvivere e cadere.
Ettore vuole sopravvivere, di più, vuole vivere. E ancora una volta vuole liberarsi dall’ultima prigionia: quella di non aver ancora raccontato la sua storia, di non aver sciolto questo debito nei confronti della vita e di chi, diversamente da lui stesso, non ce l’ha fatta: «Riesco così a dare un senso alla mia esistenza. Il pensiero di lasciare questa vita e di non realizzare quella che è diventata per me un’esigenza imprescindibile mi fa sentire male. Non è più possibile vivere con questo peso che mi tormenta e che è divenuto ormai troppo gravoso». Nasce così questo libro.

Luce, per illuminare l’ombra della violenza nascosta
È questa una storia di violenza sommersa come purtroppo ce ne sono ancora tante. Una violenza forse più grave perché attuata contro un bambino, più grave ancora, perché perpetrata all’ombra di una legalità che afferma di difendere i valori positivi a cui dovrebbe essere improntata una società, e quello che forse ci lascia più sconcertati è di non trovarvi accanimento o crudeltà, ma solo l’ignoranza e l’indifferenza di chi pensa di fare bene, secondo il metro comunemente condiviso, senza però interrogarsi più di tanto.
Tuttavia l’autore non cerca mai colpevoli ed emergono invece dal racconto alcune figure piene di umanità e di compassione. Tra i compagni spuntano delicati ritratti, persone con cui vive vere e proprie relazioni di fascinazione e di affetto: Marco, l’audace compagno di giochi, Giovanni, il ragazzo più grande, accomunato dal lungo viaggio in treno. Anche tra gli adulti, oltre ai nonni, la mamma e il fratello più piccolo, alcuni tra gli assistenti spiccano per la loro sensibilità: la giovane Angela che gli insegna un semplice giochetto da fare con le dita, l’unica zattera a cui si potrà aggrappare nell’oceano di solitudine e di disperazione di certi momenti; Laura, la maestra che nel tempo libero gli insegna l’alfabeto, il primo strumento indispensabile per integrarsi nella vita; l’assistente Romeo che li porta al cinema e li inizia, trasgredendo qualche piccola regola, al contatto con il mondo “di fuori”. Sono episodi toccanti, raccontati con gratitudine e tenerezza, che ci fanno riflettere e forse capire oggi, in un ambiente rassegnato a volte all’indifferenza e alle facili giustificazioni, che anche in un sistema sbagliato o imperfetto, ogni persona può, con le sue azioni e la sua sensibilità, “fare la differenza” e lasciare una traccia positiva nella vita degli altri, fosse anche di uno solo. E da quella può poi nascere la salvezza per molti.
Che cosa abbia portato Ettore fuori dal vortice di disperazione che poteva inghiottirlo, se sia stata la sua indole, le circostanze, la sua capacità di immaginare o un miracolo, come lui stesso si domanda, poco importa. Quello che invece importa di più è che il racconto della sua esperienza contribuisce a scardinare in noi l’automatismo della troppo facile equazione: “diverso = pericoloso”. Ecco perché questo libro è, a nostro avviso, un messaggio di speranza e fiducia per molti che, magari in circostanze differenti, si trovano nella sua stessa condizione.
Da allora a oggi la situazione degli istituti per minori nel nostro paese, anche se non priva tuttora di zone d’ombra, è molto migliorata, sia per la maggiore attenzione della legislazione a questo problema che per la generale evoluzione del costume sociale, ma sono emerse e stanno nascendo altre situazioni di emarginazione, di sfruttamento, di schiavitù e di violenza, che molto spesso non risparmiano i bambini. Basti pensare all’immigrazione, alla prostituzione, ai traffici di esseri umani, al lavoro nero, in ogni parte del mondo. Il primo passo per poter cambiare queste realtà, quasi invisibili dalla prospettiva della nostra vita quotidiana, è di rivelarle e portarle all’attenzione, come fa la testimonianza contenuta in questo libro.

Luciana Rossi
(direfarescrivere, anno IV, n. 32, agosto 2008)
 
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