Anno XX, n. 223
settembre 2024
 
In primo piano
Eutanasia: il coraggio fuori dal comune
di un medico che assiste un tetraplegico
Accusato di omicidio per aver assecondato una richiesta di morte
Chaussoy ci parla del suo faticoso percorso. In un libro InEdition
Simona Gerace
«A chi appartiene questa vita che abbiamo la sfacciataggine di trattenere mentre se ne sta andando? In nome di che cosa impediamo agli uomini di morire negli incidenti in cui si imbattono sul loro percorso? Chi crediamo di essere quando interveniamo per portare a termine una gravidanza che dà segni di debolezza, quando manteniamo in vita organismi feriti a morte, quando impediamo ad una malattia di progredire, quando rimettiamo in moto un cuore in arresto, quando rianimiamo un suicida?». Questo è l’interrogativo centrale che campeggia nelle pagine del saggio-testamento scritto da Frédéric Chaussoy, responsabile del servizio di rianimazione dell’Ospedale eliomarino di Berk-sur-Mer, e forse anche nella testa di un medico che, trovandosi a rianimare un paziente in pericolo di vita, svolge il suo mestiere con meticolosa passione.

Uno sguardo dentro il saggio
L’opera Non sono un assassino (Inedition editrice, € 10,00, pp. 176) altro non è che il diario di un medico accusato di omicidio per aver esaudito la richiesta di morte di un giovane paziente che, in seguito ad un incidente stradale, resta tetraplegico. La scelta di Frédéric Chaussoy di praticare l’eutanasia – termine il cui significato è “morire dignitosamente” o “dolce morte” – manifesta un profondo rispetto per le volontà del paziente che viene trattato alla stregua di un suo familiare, infatti lo stesso Chaussoy afferma più volte che per un familiare avrebbe fatto la stessa cosa. Le varie forme di rianimazione e le terapie in certi casi possono solo prolungare la fase terminale e quindi non servono che per allungare dolori e sofferenze, non solo del paziente ma anche dei familiari. E così, nonostante le idee istituzionalmente inculcate alla società, le quali sostengono che l’eutanasia possa minare il valore della vita, da intendere come dono divino, il saggio promuove, quando non è possibile garantire né una vita dignitosa né un miglioramento, la soppressione della vita umana.

Apparato paratestuale e analogie col caso italiano Welby-Riccio
Il libro è corredato da un significativo apparato paratestuale: una nota, utile a specificare il ruolo e le responsabilità dei soggetti coinvolti nel racconto; la Prefazione, curata da Mario Riccio, medico e specialista in anestesia e rianimazione all’Ospedale di Cremona che ha assistito Piergiorgio Welby nella fase terminale della sua vita; e l’Introduzione di Giancarlo Fornari, presidente di “Libera uscita”, un’associazione nazionale fondata a Genova nel 2001 che si propone come obiettivo principale di sostenere anche in Italia la legalizzazione del testamento biologico e la depenalizzazione dell’eutanasia. Al termine del saggio è riportato lo statuto dell’Associazione “Libera uscita” con l’elenco dei vari membri. L’associazione è articolata sul territorio nazionale ed è laica e apolitica. Vanta tra i soci onorari personalità d’eccezione come Corrado Augias, Margherita Hack, Stefano Rodotà e Umberto Veronesi.
Nella Prefazione il libro è definito da Riccio «un testo forte, crudo, diretto. Non si perde intorno al problema, ma lo affronta direttamente. Come non poteva non fare un medico dell’emergenza». Nell’Introduzione invece, Fornari ricorda l’analogo caso in Italia di Piergiorgio Welby: «Anche Piergiorgio, tragicamente condannato come Vincent ad un’immobilità perpetua, aveva ripetuto per anni la richiesta di poter terminare una vita che considerava peggiore della morte. Anche Piergiorgio, come Vincent dal dottor Chaussoy, era stato aiutato a morire da un coraggioso medico rianimatore, Mario Riccio. E come Chaussoy, anche Riccio era stato incriminato dal magistrato inquirente con la stessa gravissima accusa: omicidio».

In cammino verso una morte dignitosa
Il saggio in questione è stato una precisa volontà di Vincent Humbert, protagonista del diario-testamento: «Ho voluto questo libro […] che non leggerò mai da vivo… non lo vedrò mai nelle librerie perché sono morto dal 24 settembre del 2000, poco dopo le otto di sera, su una strada provinciale. Ho voluto io questo libro-testamento. Testamento, sì, perché sto per morire. Lascerò questa non-vita in un giorno che solo io e mia madre conosciamo e abbiamo scelto. Ma io voglio che la mia esperienza di morto vivente serva agli altri…».
Narratore assoluto è Frédéric Chaussoy, che un giorno si trova ad affrontare un caso delicato. Vincent Humbert, pompiere volontario di diciannove anni ha avuto uno scontro frontale con un camion. Quando arriva in ospedale, come si legge nel testo, «il suo organismo sciupato lotta contro la morte. Cerca di riprendere fiato, con piccoli respiri affannosi. Fa fatica. […] Non riesce né a respirare né a cessare di respirare». L’incidente ha rovinato totalmente la sua vita, infatti solo «dopo nove mesi di coma, ha mosso il pollice destro. Gli ci sono voluti altri sei mesi per capire che, muovere il pollice destro, ormai, sarebbe stato il massimo che avrebbe potuto fare». L’incidente l’aveva reso incapace di muoversi, parlare e vedere. L’unico suo movimento era quello del pollice destro che però gli causava enormi dolori.

L’incertezza di un medico saggio
Numerosi gli interrogativi di Chaussoy, medico impotente davanti alla gravità del caso: «Qual è la differenza tra la vita e la morte? Dove si trova il confine? […] L’unica morte contro la quale non possiamo assolutamente niente è quella cerebrale: quando il cervello non funziona più, non sappiamo metterlo in moto. Ma sappiamo sostenere un cuore perché non cessi di battere. A lungo. E, con la respirazione artificiale, sappiamo trattenere l’ultimo respiro di un uomo. Per mesi... E poi sappiamo filtrare il sangue al posto dei reni, nutrire chi non è più capace di alimentarsi, idratare chi non può bere, e perfino immergere in un coma artificiale le persone per le quali il dolore sarebbe insopportabile se fossero coscienti. Quando Vincent si riprese dal coma ci furono diversi incontri di rieducazione, tuttavia il paziente era tetraplegico a causa di gravi e irreversibili lesioni cerebrali. L’unica cosa che riusciva a muovere era il pollice della mano destra, col quale ha espresso le sue volontà […]. Appena ha potuto esprimersi si è messo a dettare quello che aveva da dire. Ed era di un’implacabile limpidezza: rifiutava assolutamente di passare i quaranta o i cinquant’anni che gli rimanevano da vivere in quelle condizioni, rinchiuso nel suo corpo come in una prigione, torturato dai dolori incessanti e incapace di muovere null’altro che un dito».

La difficoltà di essere madre e la decisione dell’eutanasia
Aveva chiesto alla madre di aiutarlo a morire e poi alla zia ma poiché i familiari si rifiutavano ha scritto direttamente al Presidente della Repubblica Chirac chiedendo il diritto di morire; questi però ha ammesso di avere dei limiti e di non poter prendere una tale decisione. La madre allora decise di aiutarlo iniettandogli dei barbiturici, ma i medici lo salvarono ancora una volta, in quanto «in Francia nessun medico ha il diritto di acconsentire alla richiesta di una persona che vuole morire». Nonostante questo, la disperazione di Marie, madre di Vincent, indusse il dottor Chaussoy a prendere una decisione difficile. La mattina di venerdì 26 settembre 2003 in seguito ad una riunione con i medici del reparto, si decise di staccare il respiratore di Vincent convinti che «aiutare gli uomini a morire dignitosamente, quando non li si possono più aiutare a vivere, fa parte del mestiere del rianimatore». Tutto venne ufficializzato tramite un comunicato stampa: «Vincent Humbert è deceduto stamattina. Tenuto conto del quadro clinico dell’evoluzione e dei desideri espressi a più riprese da Vincent, abbiamo deciso di limitare le terapie attive. L’équipe medica che lo ha accompagnato per tre anni ha preso questa decisione collettiva e difficile in piena indipendenza».
La scelta di Chaussoy è derivata dal ritenere molto superiore il diritto di morire di Vincent rispetto a quello di vivere. E secondo lui «un medico può accompagnare la morte senza essere un assassino. [...] Tutti i medici sanno aiutare gli uomini a lasciare la vita, quando non c’è più nessun’altra soluzione. E la maggior parte di loro accettano di svolgere questo ruolo per i loro cari o per loro stessi, nell’intimità, lontano dalla legge».

Le leggi, a fin di bene, si possono cambiare
Chaussoy e la madre di Vincent, Marie, sono stato incriminati per concorso in omicidio. Il procedimento penale in questo caso è un momento significativo in quanto trasmette l’idea che la vita è un valore assoluto che l’uomo non ha il diritto di violare, ma al contempo se il malato in fase terminale, o come Vincent in condizioni talmente stabili da non poter sperare in un miglioramento e da non poter condurre una vita normale, non può fermare da solo quello che resta della sua vita è giusto, forse, che i medici rispettino la volontà del paziente e che la chiesa, lo stato e le varie istituzioni non intervengano per recriminare.
«Nel febbraio 2006, dopo un’istruttoria durata più di due anni, il procedimento per omicidio “mediante avvelenamento” contro il medico e quello per tentato omicidio contro la madre di Vincent sono stati chiusi con un non luogo a procedere. Il pubblico ministero, pur ammettendo che i loro comportamenti sono puniti dalla legge, aveva chiesto il proscioglimento. Il giudice istruttore ha accolto la richiesta riconoscendo che i fatti sono stati commessi “sotto l’influenza di una costrizione che esonera gli imputati da qualsiasi responsabilità penale”».

Simona Gerace

(direfarescrivere, anno IV, n. 29, maggio 2008)
 
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