Anno XX, n. 223
settembre 2024
 
In primo piano
Contro l’inutile e barbara pena di morte:
l’impegno di un noto penalista francese
Le battaglie abolizioniste di Robert Badinter, rinomato avvocato
e stimato uomo politico, in una raccolta di scritti edita da Spirali
di Giuseppe Licandro
Il Rapporto 2007 sulla pena capitale nel mondo, presentato alcuni mesi fa dall’associazione Nessuno tocchi Caino, una lega di cittadini e di parlamentari che si batte contro la pena di morte, descrive un contesto internazionale piuttosto articolato e complesso (per leggere il rapporto clicca qui).
Stando ai dati ufficiali, nello scorso anno sono state giustiziate 5.628 persone in tutto in mondo, con un incremento rispetto al 2005 di circa 130 morti. Il lugubre primato, in questa barbara pratica, spetta ancora una volta alla Cina (con almeno 5.000 condanne a morte eseguite), che distanzia di gran lunga gli altri paesi “forcaioli”, tra cui ricordiamo l’Iran (215), il Pakistan (82), l’Iraq (65), il Sudan (65), gli Usa (53), l’Arabia Saudita (39), lo Yemen (30), il Vietnam (14), il Kuwait (11).
Queste in sintesi le altre cifre fornite da Nessuno tocchi Caino, aggiornate al 30 agosto 2007: 93 sono gli stati abolizionisti; 9 hanno abolito la pena capitale solo per i crimini ordinari, ma comunque non la applicano più; 39, pur non essendo abolizionisti, non effettuano sentenze di morte da almeno dieci anni; 5 hanno dichiarato una moratoria temporanea; 51, invece, hanno fatto ricorso al patibolo nell’ultimo decennio (27 di questi nel 2006).

La strenua battaglia di un avvocato
Nella legislazione della stragrande maggioranza dei Paesi europei la pena di morte non esiste più: fanno eccezione la Bielorussia (in cui negli ultimi due anni sono state eseguite ben sette condanne a morte), la Lettonia (che la prevede limitatamente ai crimini non ordinari) e la Russia (che però ha sospeso temporaneamente le esecuzioni e si è impegnata ad abolirle definitivamente).
Tra le nazioni più prestigiose del nostro continente, ve n’è stata una – la Francia – che a lungo si è ostinata a mantenere in vigore la famigerata ghigliottina: ancora negli anni Settanta del secolo scorso, infatti, la truculenta mannaia ha mietuto le sue sventurate vittime!
Il merito di aver soppresso la pena di morte in Francia va ascritto a Robert Badinter, un avvocato parigino che dal 1970 in poi diede inizio a una strenua battaglia abolizionista, difendendo, tra l’altro, vari imputati che rischiavano di salire sul patibolo. In seguito all’ascesa di François Mitterand alla presidenza della Repubblica francese, Badinter fu nominato, nel giugno del 1981, ministro della Giustizia nel governo di Pierre Mauroy e rapidamente approntò un progetto di legge per abrogare la pena capitale, che fu approvato dal parlamento nell’ottobre dello stesso anno. Designato nuovamente nel 1984 quale guardasigilli nel governo di Laurent Fabius, Badinter ha poi rivestito dal 1986 al 1995 l’incarico di presidente del Consiglio costituzionale. Successivamente, dopo essere stato eletto senatore nelle fila del Partito socialista francese, ha anche ricoperto la carica di vicepresidente della Convenzione europea sui diritti umani, continuando a battersi con determinazione per l’abolizione universale della pena capitale.

Le ragioni dell’abolizionismo
Il libro Contro la pena di morte (Spirali, pp. 318, € 25,00) raccoglie gli innumerevoli articoli pubblicati da Badinter su Dictionnaire de la Justice, La Croix, L’Express, Le Figaro littéraire, Le Monde, Le Nouvel Observateur, Paris Match, insieme ai discorsi parlamentari e agli interventi in convegni o in cerimonie commemorative da lui tenuti fino al 2002.
Nella Prefazione, l’ex ministro spiega in questi termini la sua contrarietà verso una pratica tanto inefficace quanto disumana: «Sacrilegio contro la vita, la pena di morte è per giunta inutile. Mai, da nessuna parte, ha ridotto la criminalità cruenta. Reazione e non dissuasione, non è altro che l’espressione legalizzata dell’istinto di morte. Ci abbassa senza proteggerci. È vendetta, non giustizia».
Uno stato veramente democratico, rispettoso del diritto all’esistenza e dell’incolumità delle persone, non dovrebbe mai uccidere i propri cittadini, perché «nessun potere potrebbe legittimamente privare un uomo o una donna di ciò che li costituisce come esseri umani: la loro stessa vita».
Per questo motivo Badinter critica aspramente, assieme alla Cina e alle altre dittature “forcaiole”, anche quei paesi formalmente democratici che fanno sistematicamente ricorso al patibolo (e ve ne sono attualmente almeno undici!).
In particolare, il penalista francese disapprova l’operato dei trentotto stati federali degli Usa che mantengono ancora la pena capitale, ricordando inoltre come «nel sistema giudiziario americano solo i ricchi o i mafiosi hanno i mezzi per assicurarsi i servizi di avvocati specializzati fondati su squadre di investigatori e di esperti competenti». Ciò significa che la legge non è uguale per tutti e la posizione sociale decide spesso la sorte degli imputati, determinandone l’assoluzione o la condanna.

Le prime battaglie di Badinter
Contro la pena di morte ripercorre il lungo impegno civile di Badinter, a partire dall’articolo Solo le società malate mantengono la pena capitale, pubblicato su Le Figaro littéraire nel gennaio del 1970.
L’avvocato francese spiegò in quello scritto, sviscerandole, le pulsioni necrofile che erano (e sono tuttora) sottese ai convincimenti di chi è favorevole al supplizio capitale: «La pena di morte […], in una società scossa da conflitti interni, esprime l’aggressività e al contempo il timore, sempre indissolubilmente legati, che permeano l’inconscio collettivo». Egli sostenne, giustamente, che le istanze dei “forcaioli” rientrino «più nella nevrosi collettiva e nella psicanalisi che nella politica repressiva o nella criminologia»: in altre parole, che siano il sintomo di un più diffuso malessere sociale, oltre che «il segno di una società che non arriva a maturità».
Negli anni seguenti Badinter continuò la sua battaglia abolizionista e nel gennaio del 1977 riuscì, grazie a una memorabile arringa, a salvare dalla ghigliottina Patrick Henry, un giovane macchiatosi di un assurdo infanticidio, che fu tuttavia condannato all’ergastolo.
In Francia si aprì, in seguito a questo caso, un ampio confronto di opinioni sulla legittimità o meno del ricorso alla pena capitale, che coinvolse famosi intellettuali, come il filosofo Michel Foucalt e lo psicanalista Jean Laplanche, con cui Badinter intrattenne nel 1977 un proficuo scambio di idee, poi riportato sulle pagine della rivista Nouvel Observateur.

“Abolizione” della pena capitale o “eliminazione” del reo?
Il capitolo più appassionante del libro ripropone il Discorso per l’abolizione della pena di morte all’Assemblea nazionale, tenuto da Badinter il 17 settembre 1981, pochi mesi dopo essere stato nominato ministro della Giustizia.
Nel suo lungo intervento – interrotto spesso dalle contestazioni dell’opposizione – il neoministro ricostruì le ragioni storiche ed etiche della sua battaglia abolizionista, ripercorrendo le lotte sostenute in Francia da grandi uomini di cultura come Victor Hugo e Albert Camus o da personaggi politici del calibro di Aristide Briand e Jean Jaurès. Riportiamo di seguito un passo molto efficace di questo suo discorso, da cui si evince il profondo senso morale che ne ispirava (e ne ispira ancora) l’agire: «La scelta che si offre alle vostre coscienze è dunque chiara: o la nostra società rifiuta una giustizia che uccide e accetta di assumere, in nome dei suoi valori fondamentali […], la vita di coloro che fanno orrore, dementi o criminali o tutte e due le cose insieme, ed è la scelta dell’abolizione; oppure questa società crede, malgrado l’esperienza dei secoli, di fare scomparire il crimine col criminale, ed è l’eliminazione».
L’ultimo capitolo – in cui è riportato il suo intervento ad una conferenza nel ventesimo anniversario dell’abolizione della pena capitale in Francia – è dedicato proprio alle lotte abolizioniste sostenute da Hugo, che nel 1827 scrisse il memorabile racconto L’ultimo giorno di un condannato a morte, definito dallo stesso romanziere «l’arringa generale e permanente per tutti gli accusati presenti e futuri».
Nell’Appendice sono inseriti due allegati, in cui s’illustrano, rispettivamente, l’elenco dei Paesi favorevoli o contrari alla pena di morte e la ratifica di alcuni trattati internazionali sul rispetto dei diritti umani.
Dobbiamo segnalare che, nel primo allegato, abbiamo riscontrato diverse imprecisioni: i dati riportati, infatti, non sempre corrispondono alle indicazioni, certamente più attendibili, fornite dal rapporto di Nessuno tocchi Caino. Si tratta, tuttavia, di errori veniali che non inficiano minimamente la qualità del libro, che rimane di notevole spessore civile e politico.

Due notizie importanti
In conclusione del nostro articolo, vorremmo brevemente menzionare una meritoria iniziativa portata avanti dal governo italiano, che si è fatto promotore di una campagna internazionale contro le esecuzioni capitali. Su esplicita richiesta dell’Italia, si sta tentando di presentare una risoluzione per la moratoria della pena di morte nel mondo all’Assemblea generale dell’Onu. Ma proprio nel momento in cui questa rivista viene pubblicata, leggiamo che ci sono seri problemi, per i soliti contrasti tra abolizionisti totali e parziali, sulla reale possibilità di una votazione della moratoria. Noi speriamo che la risoluzione sia presentata e approvata. Infatti, pur rivestendo un valore prettamente simbolico (visto che le risoluzioni dell’Onu non sono strettamente vincolanti), l’eventuale approvazione della moratoria rappresenterebbe, a nostro parere, un atto paradigmatico di alto valore morale, che andrebbe nella direzione, auspicata dallo stesso Badinter, «della lotta per l’abolizione universale negli anni a venire» della pena di morte.
Ricordiamo, infine, che qualche mese fa – ed era anche ora, considerando che esisteva in proposito già una legge dal 1994! – il Parlamento italiano ha provveduto a modificare l’articolo 27 della Costituzione, abrogando il comma obsoleto che manteneva la pena capitale «nei casi previsti dalle leggi di guerra militare». L’Italia è dunque diventata una nazione totalmente abolizionista.

Giuseppe Licandro

(direfarescrivere, anno III, n. 22, novembre 2007)
 
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