Anno XX, n. 223
settembre 2024
 
In primo piano
La rabbia e la violenza del terrorismo:
una parte d’Italia sul grande schermo
Un’esperienza cinematografica tutta “nostrana” racconta il disagio
generazionale di chi ha vissuto quegli anni di dura contestazione
di Carmine De Fazio
Come spesso accade, il cinema diventa specchio del momento storico e sociale nel quale un film è realizzato. A questo proposito, per esempio, il neorealismo del cinema italiano raccontava una nazione massacrata dalla guerra e dal disastro economico ad essa legata, in un arco di tempo che si può racchiudere convenzionalmente negli anni a cavallo tra il 1943 e il 1952 e che ebbe la sua più alta espressione nel 1945, quando Roberto Rossellini girò Roma città aperta.
La politica in generale è da sempre stata legata alla pellicola (giusto per citare tre esempi internazionali a vari livelli): Quarto potere di Orson Welles del 1941; Z – L’orgia del potere di Costantin Costa Gavras del 1969 e Tutti gli uomini del presidente Alan J. Pakula del 1976. Ma in Italia il fenomeno ha vissuto una “stagione d’oro” negli anni Settanta, gli “anni di piombo”.
Il libro di Christian Uva, saggista e dottorando di ricerca in Cinema all’Università di Roma Tre, Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano (Rubbettino, pp. 284, € 18,00) riesce con attenta e precisa ricostruzione a illustrare quegli anni duri della storia del nostro paese attraverso, appunto, molti film che hanno provato a portare sullo schermo il disagio sociale e la rabbia di quegli anni. Il grande merito e il peso (intellettuale e storico) di questo tipo di cinema è quello di cercare di riproporre, attraverso l’obbiettivo cinematografico, uno squarcio d’Italia il più vicino possibile alla realtà, un’esigenza quasi naturale che riguarda sia il cinema “popolare” che quello “colto”. Il libro propone anche una serie di saggi scritti da addetti ai lavori, ma anche da ex terroristi e scrittori che attraverso le loro testimonianze arricchiscono il lavoro di ricostruzione dell’autore.

I film raccontano quell’Italia
Così si scopre che Giù la testa, quel magico film del 1971 con cui Sergio Leone racconta la Rivoluzione messicana di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, altro non è che il frutto della voglia del regista romano di ricercare le radici di quell’Italia devastata dalle lotte sociali dei primi anni Settanta mostrando la resistenza del nostro paese. Un film cruciale da questo punto di vista, ed è proprio da questo bisogno di Leone che si deve partire nella ricostruzione cinematografica di quegli anni.
Certo l’elemento che emerge maggiormente è quello legato alla violenza e alla rabbia che si sintetizza nello scontro (ancora molto attuale) tra forze armate e manifestanti. Non è questo solo uno stereotipo, per carità, è qualcosa che condensa bene la ribellione, la voglia di sconfiggere un “sistema” (inteso come potere statale e conformista) da parte di una società esasperata che sente dentro di sé un bisogno viscerale di cambiamento. L’evento più significativo da questo punto di vista può essere l’uccisione del commissario Luigi Calabresi, avvenuta il 17 maggio del 1972, e il successivo arresto dei quattro militanti di “Lotta continua” (Bompressi, Marino, Pietrostefani e Sofri) che ebbe un impatto sociale (e quindi cinematografico) molto forte. Un evento buio che verrà, allo stesso modo, riproposto più volte sugli schermi creando, attraverso la figura dell’ispettore di polizia Calabresi, lo stereotipo del funzionario di stato duro ma puro che viene vigliaccamente ucciso, proprio per mostrare come questo stesso evento sia il simbolo di una ribellione sociale verso il “potere”.
Il cinema ha voglia però di “vendicare” la morte del commissario: si spiega così un film di grande impatto come Abuso di potere di Camillo Bazzoni, dove la truce uccisione di un funzionario (crivellato da colpi in una cabina telefonica), rassomigliante proprio a Calabresi, rispecchia anche un senso di denuncia e di sdegno per l’uccisione di un uomo.
Proviamo a tracciare, grazie a una serie di esempi tratti dal libro, un percorso tutto nostro (e di questo l’autore ci perdonerà) per esemplificare questo legame tra cinema e realtà.
Altro evento tragico, in questo senso, è dato dall’uccisione di Aldo Moro. Ricordiamo film come Il caso Moro di Giuseppe Ferrara del 1986 (primo film che racconta il sequestro e l’uccisione dell’allora segretario della Democrazia cristiana), e lo splendido Buongiorno notte di Marco Bellocchio del 2003 (l’ultimo film che tratta questo stesso argomento). Si tratta di pellicole che riescono con struggente veridicità a mostrare una delle pagine più buie della lotta politica italiana di quegli anni.
Un altro regista molto sensibile a questi temi è senza dubbio Nanni Moretti. Il suo alter ego, infatti, Michele Apicella (Ecce bombo del 1978), racchiude in sé tutto il disagio giovanile di quella particolare stagione politica, regalando allo spettatore situazioni paradossali ma nello stesso tempo dure, figlie di un malessere profondo di un’intera generazione.
Lo stesso regista romano si affaccia al tema del terrorismo in un film molto introspettivo come La messa è finita del 1985, nel quale un giovane Vincenzo Salemme interpreta la parte di un terrorista prima in prigione e poi libero.
Vorremmo ricordare altri due film che hanno entrambi come protagonista un geniale Gian Maria Volontè: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri del 1970, «uno dei film che fornisce le coordinate privilegiate per declinare alcuni nodi della rappresentabilità di un decennio (1968-1978) decisivo per la recente storia d’Italia», e La classe operaia va in Paradiso sempre di Petri del 1971, un film che racconta le frustrazioni di un operaio e la presa di “coscienza di classe”.
Per ultimo, ma non per importanza, ricordiamo un film storico, 12 Dicembre di Pier Paolo Pasolini, prodotto da “Lotta continua”: un film documentario sulla strategia della tensione, sulle lotte operaie e sugli aspri scontri di piazza, senza dubbio un documento storico da considerarsi un pezzo di storia d’Italia in celluloide.
Sicuramente un libro di grande valenza storica questo di Uva, che racconta uno squarcio d’Italia attraverso l’occhio di grandi registi.
Chiudiamo con una frase che appariva sul muro del casermone di cemento nel quale Emilio, protagonista di Colpire al cuore di Gianni Amelio del 1982, scopre il legame tra il padre e una terrorista. Si tratta di una frase che riassume, a nostro parere, la forza e la violenza di quegli anni che sono parte indelebile della storia del nostro Belpaese: «Finché la violenza dello stato si chiamerà giustizia, la giustizia del proletariato sarà violenta».

Carmine De Fazio

(direfarescrivere, anno III , n. 19, 20 luglio 2007)
 
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