Anno XX, n. 223
settembre 2024
 
In primo piano
Per “Facio”, il partigiano assassinato
dai suoi compagni: finalmente la verità
Carlo Spartaco Capogreco, nel suo ultimo libro edito da Donzelli,
racconta una storia d’ipocrisia storica che “sporca” la Resistenza
di Annalisa Pontieri
Se è vero che «l’uomo il cui nome è pronunciato continua a vivere», allora un libro assolve al suo compito, riuscendo a veicolare la verità dei fatti, scovata nel silenzio taciuto della Storia. Se una verità assume l’aspetto di una denuncia verso quel movimento civile, militare e politico che fu la Resistenza, per molto tempo un intoccabile argomento, ci si rende conto della carica fortemente critica ma anche costruttiva de Il piombo e l’argento. La vera storia del partigiano Facio (Donzelli editore, pp. 232, € 24,50), l’ultima “fatica” di Carlo Spartaco Capogreco, il massimo studioso dell’internamento civile fascista, autore infatti di Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista edito La Giuntina e de I campi del duce edito Einaudi.

Dante Castellucci alias Facio
Il libro ripercorre la vicenda esistenziale di Dante Castellucci, uomo di Calabria (nato a S. Agata d’Esaro in provincia di Cosenza) che si trasferisce nella zona calda della Linea gotica a combattere per la libertà.
A scuola di antifascismo dalla famiglia Cervi, con cui pare abbia dato il “la” alle prime azioni offensive della Resistenza, viene arrestato insieme ai celebri fratelli, ma si salva dalla fucilazione fingendosi straniero (era stato un emigrato fino all’adolescenza in Francia).
Suonava il violino e scriveva versi: personaggio estroso in quanto «vestiva un corto pastrano da cavalleria e sul berretto aveva una stella rossa, da autentico partigiano!», tutti indumenti presi a prestito da un guardaroba teatrale.
Quando approda al Battaglione “Picelli” assume l’assai strano nome di Facio, sul cui significato è possibile fare solo delle congetture.
Secondo alcuni, il nome potrebbe richiamarsi a quello del capitano di ventura Facino (Bonifacio) Cane. Diverso il parere di un suo compaesano, per il quale deriverebbe più semplicemente dall’omonimo verbo latino facio, quindi nel senso di fare, senza «starsela a pensare».
Infine, una spiegazione più articolata e più affascinante, che racchiude in sé sia la casualità sia il senso della scelta: come forma tronca di Bonifacio che deriva dalla composizione di due parole latine bonum (buono) e fatum (destino). Facio ne rappresenta la forma troncata, dunque è il destino senza auspici, il destino sospeso. Castellucci arriva a chiamarsi Facio dopo aver superato situazioni difficili: il rimpatrio dalla Russia prima della catastrofica ritirata, la cattura incolume in casa Cervi, la fuga dalla Cittadella la sera prima della fucilazione, la condanna a morte del partito sospesa, la prospettiva della guerriglia in montagna con tutte le sue incognite e infine la Battaglia del Lago Santo, ormai epica, una resistenza vittoriosa contro un assedio imponente.

Al comando e…
Alla morte dello storico comandante del “Picelli”, Fermo Ognibene, Facio si ritrova ipso facto al comando. La sua prima azione è la diffusione di un bando di arruolamento che invita i giovani ad entrare nelle fila dei combattenti per la libertà. Giunto il “Picelli” alle 200 unità si rende però necessaria una riorganizzazione in distaccamento e infine si sposta oltre il confine ligure.
Tra le nuove leve vi è anche una giovane donna, Laura Seghettini. Superata l’iniziale riluttanza di Facio ad accogliere tra le sue fila una donna, Laura viene inserita nella banda: ne nascerà un tenero vincolo d’amore.
Nel frattempo Antonio Cabrelli, un oratore della vecchia guardia, trama per far passare sotto il comando del comitato di La Spezia l’intero “Picelli”.
La goccia che fa traboccare il vaso sarebbe stata però la ripartizione degli aviolanci effettuati dagli Alleati a beneficio delle bande partigiane.

…alla gogna
Vittima di un tranello, Facio si reca nell’accampamento di una banda vicina e concorrente, gli viene offerto del vino e mentre porta il bicchiere alle labbra, gli viene intimato di alzare le mani.
Poco dopo si costituisce un tribunale di guerra e viene improvvisato seduta stante un processo a Facio.
Di fronte all’incalzare delle accuse, il comandante del “Picelli” sembra perdere forza nella sua difesa.
«Forse pensava che il suo destino era ormai segnato. Intuiva probabilmente di trovarsi di fronte alla logica inesorabile di conflitti più generali di idee e di disegni politici che vanno al di là del destino di ognuno di noi. O forse per la sua profonda fede nel comunismo – di fronte ad accusatori che professano, tutti quanti, la sua stessa idea politica – vacilla, lo assale il dubbio che – anche se in buona fede – egli comunque avesse potuto sbagliare; fosse potuto divenire oggettivamente colpevole. La condizione di Facio in qualche modo riproduceva quella dei processi staliniani e dei relativi «lavaggi di cervello» che avremmo conosciuto negli anni a venire».
All’alba del 22 luglio 1944, Dante Castellucci – l’indomito compagno dei fratelli Cervi, l’eroe leggendario del Lago Santo che aveva portato a nuova vita il glorioso “Picelli” – viene fucilato da un plotone composto da partigiani del battaglione “Signanini”, per decisione del Comando unico spezzino, di una struttura ancora all’epoca inesistente.
Tra quelli di guardia qualcuno è disposto a favorirne la fuga ma Facio si rifiuta: preferisce affrontare il «fuoco amico» del plotone d’esecuzione, asserendo che è stato giusto fuggire dai nemici, ma non sarebbe stato corretto farlo con coloro con cui stava combattendo per la liberazione dell’Italia.
Poco prima dell’esecuzione, dirà alla sua compagna: «Un giorno qualcuno farà luce sulla mia storia».
“Fatto fuori” Facio, alcuni giorni dopo il battaglione “Picelli”, rinominato Brigata “Gramsci”, entrerà a far parte dell’appena costituito Comando unico spezzino del quale il già citato Cabrelli sarà il commissario politico.

La grande bugia
Caduto mentre lottava contro il nemico! Questa è la motivazione della medaglia d’argento che nel 1963 viene consegnata alla madre e alla sorella di Facio.
Un capolavoro di ipocrisia, lo definisce Capogreco, di fronte a quello che sembrerebbe uno squallido, volgare regolamento di conti.
Un argento che, come dice il titolo del libro, voleva nascondere il piombo di un’uccisione ingiustissima, coperta dal silenzio e dalle rimozioni del Dopoguerra e soprattutto da quelle del suo partito.
Ecco le due facce di una storia controversa dove il piombo e l’argento rappresentano la morte e la medaglia alla memoria del partigiano Facio.

Annalisa Pontieri

(direfarescrivere, anno III, n. 17, luglio 2007)
 
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