Anno XX, n. 224
ottobre 2024
 
In primo piano
La vita di ognuno e il diritto onnisciente:
indagine a tutto tondo sulla modernità
Un rigoroso saggio di Stefano Rodotà analizza il ruolo delle norme
dinanzi agli interrogativi sempre più difficili del “mestiere di vivere”
di Silvio Gambino
Un interessante libro, scritto da uno studioso ben noto alla comunità scientifica nazionale qual è Stefano Rodotà, oltre che, naturalmente, a quella politica, merita l’attenzione del lettore. La vita e le regole è il titolo; Tra diritto e non diritto il sottotitolo (Feltrinelli, pp. 288, € 19,00). Fin da subito, potremmo dire che questa duplice intitolazione riflette lo spirito e l’obiettivo scientifico dell’intera opera. In un primo approccio, essa mira a farsi carico delle declinazioni attuali della teoria del costituzionalismo moderno e contemporaneo in tema di protezione dei diritti fondamentali alla luce delle regole e dei principi costituzionali e, in un secondo approccio, ad analizzare tutte le questioni di frontiera, le quali o trovano nelle regole scritte una loro incerta disciplina ovvero che non la trovano affatto, imponendo allo studioso, e al politico, di ricercarne il fondamento nei principi fondamentali, assiologici, ispiratori del riconoscimento e della protezione dei diritti medesimi.
In questa ultima direzione, potremmo assumere come, nel fondo, non possa parlarsi di una vera e propria partizione/distinzione fra le diverse componenti del volume, se non piuttosto di una mera articolazione interna della ricerca, volta a farsi carico della vita delle persone, con riferimento a quanto per esse non sia già previsto in termini di garanzia all’interno dei testi costituzionali, e di quello italiano in particolare.

Un volume scientificamente rigoroso
Pare opportuno richiamare una seconda premessa. Nel farlo non crediamo di fare torto all’autore affermando che non si tratta di un libro facile. Al contrario, si tratta di un libro complesso, da studiare più che da leggere: ricco, denso di giurisprudenza costituzionale italiana e straniera, di pensiero politico, filosofico, scientifico. Per questa ragione, lo vediamo, idealmente, come un valido libro di supporto nei corsi di Diritto costituzionale o di Diritto civile che si tengono nelle università. I temi affrontati, infatti, non trascendono mai alla mera divulgazione, riproponendosi, al contrario, di non lasciare mai nulla di non-trattato, anche quando si tratti di situazioni della vita apparentemente senza nessun contatto diretto e formale con il diritto, sia che si tratti del diritto scritto che di quello giurisprudenziale.
Procedendo ora nella presentazione dell’opera con una qualche maggiore sistematicità, occorre dire che il lettore si troverà innanzitutto di fronte ad un organico saggio introduttivo, che risponde alle esigenze conoscitive proprie del linguaggio costituzionale e, al contempo, alle categorie utilizzate dalla Filosofia politica e del diritto. Diremmo forse che la proiezione appare maggiore rispetto al secondo dei profili piuttosto che rispetto al primo quando si consideri la distribuzione della letteratura citata, sempre molto ricca e prevalentemente straniera, con ciò sottolineando, al contempo, sia pure in modo implicito, la limitazione provinciale (europea) della riflessione scientifica in materia. Ma ciò non è del tutto vero quando si scenda all’analisi delle questioni affrontate e alla loro riconduzione nell’alveo delle regole costituzionalizzate del diritto contemporaneo.
In ogni caso, rimane una questione centrale, che guida l’intera opera, ossia quella che risponde all’interrogativo con cui si aprono le prime righe del volume: «Può il diritto, la regola giuridica, invadere i mondi vitali, impadronirsi della nuda vita, pretendere anzi che il mondo debba “evadere dalla vita”? Gli usi sociali del diritto si sono sempre più moltiplicati e sfaccettati. Ma questo vuol dire pure che nulla può essergli estraneo, e che la società deve rassegnarsi a essere chiusa nella gabbia d’acciaio di una onnipresente e pervasiva dimensione giuridica?» (p.6).

L’onnipresenza del diritto nella società attuale
La domanda dello studioso, in breve, è quella relativa a quanto spazio residui all’individuo, o, come meglio diremo fra poco, alla persona, rispetto alla onnipresenza, alla pervasività del diritto nella società e con riferimento particolare al singolo individuo. Fino a proporre l’interrogativo se tale onnipotenza regolativa, più che liberarla, non schiacci la persona, nei suoi progetti di vita, nel percorso di una libertà profondamente e indissolubilmente intrecciata con la eguaglianza e con la dignità.
Proprio seguendo il percorso segnato da questi tre ultimi valori-parametri delle società democratiche moderne e contemporanee, l’autore ci regala il pregnante saggio introduttivo, che si pone come griglia teorica dell’intero lavoro di ricerca svolta negli otto capitoli che compongono il volume e nel saggio finale sul processo, in memoria di Pier Paolo Pasolini.
Diversamente da quanto continuano a fare molti di noi quando parlano di tali centrali tematiche della democrazia contemporanea, sia nelle aule universitarie che negli scritti giuridici, in tale saggio introduttivo trova spazio la vita reale, e con essa la determinazione del principio personalistico, per come oggi innovativamente e dinamicamente condizionato dai nuovi dati della realtà offerti dallo sviluppo della scienza e della tecnologia, gli uni e gli altri capaci di rideterminare contenutisticamente le potenzialità di ogni persona umana, e di porre interrogativi, fin qui mai posti almeno in modo espresso, circa la positività o meno della scienza e della tecnologia ad assicurare una valorizzazione, un rafforzamento, delle potenzialità naturali della vita umana ma, al contempo, di poterla perfino restringere in una vera e propria “gabbia di acciaio” quando queste potenzialità smettono di essere uno strumento al servizio della persona, proponendosi, in modo più o meno chiaro, al servizio di una società pervasivamente regolata dal diritto e che nulla più lascia di spazi alla auto-determinazione della libertà e della dignità della singola persona.
Ed è esattamente in questa delicata e complessa intersezione che risiede la grande originalità dello sforzo scientifico e teorico consegnatoci dallo studioso, quando pone, con lucido metodo socratico, interrogativi sul limite assiologico delle regole pubbliche in una società che è retta in modo incomprimibile da un “politeismo di valori”, ovvero, se vogliamo tradurlo in categorie a noi più prossime, da un ineliminabile pluralismo, che è politico, ideologico, religioso, culturale e che trova nella nostra Costituzione uno dei modelli indubbiamente più chiari e avanzati all’interno del costituzionalismo contemporaneo.

La crisi del positivismo e la legalità dell’agire dei poteri pubblici
Non possiamo, in tal senso, che convenire con l’autore quando, rispetto a tale quadro, denuncia la crisi del positivismo giuridico, «che si era fatto veicolo di violazioni profonde dei diritti dell’uomo». Sia pure con formule diverse e molto più chiare, in questo approccio, riconosciamo tutte le distanze che la dottrina costituzionale aveva già sottolineato fra la legittimità e la legalità dell’agire giuridico dei pubblici poteri, e soprattutto di quelli costituzionali.
Di questo problema si è fatto carico il costituzionalismo contemporaneo (e quello italiano in particolare), quando ha rivisto la strutturazione dei rapporti fra i diritti/libertà fondamentali e l’organizzazione costituzionale dei pubblici poteri introducendo nuove e più efficaci misure, come quelle della rigidità della Costituzione e della garanzia giurisdizionale. Un quadro, quest’ultimo – come abbiamo potuto osservare in occasione dell’ultimo testo di revisione costituzionale, felicemente rigettato dal corpo elettorale nel referendum costituzionale (del 25/26 giugno 2006) –, nel quale allo stesso Parlamento viene negato l’esercizio di un potere normativo che si prefigga di negare la primazia della Costituzione sulle leggi e con essa di “svalorizzare”/“decostituzionalizzare” il relativo “nucleo duro”, costituito appunto dai contenuti espressi e impliciti che sono alla base di tale primato, quello appunto della inviolabilità e dunque della irriformabilità dei principi e dei diritti fondamentali, che la Costituzione ha positivizzato nelle sue disposizioni iniziali e che la Corte costituzionale ha confermato in importanti sue sentenze, la più significativa delle quali è indubbiamente la n. 1146 del 1988.
Rientrano in tale patrimonio costituzionale indisponibile allo stesso legislatore di revisione le regole-principi accolti nell’art. 2 Cost., in tema di riconoscimento e di garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, e quelle accolte nell’art. 3 Cost., in tema di pari dignità sociale dei cittadini, del divieto di ogni possibile discriminazione fra gli stessi, nonché di promozione di tutte le condizioni di liberazione dal bisogno che possano assicurare il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva innervazione democratica sulla base del principio partecipativo.

Il rapporto tra regole e la vita di ognuno
Queste formulazioni costituzionali, per come oggi validamente rilette dall’autore, ci pongono di fronte all’interrogativo su quale debba essere il corretto rapporto fra la regola e la vita di ognuno e di tutti.
Non trovano più spazio, in ogni caso, quelle letture delle regole di stampo ottocentesco, giuspositivistiche, che non leggano/interpretino le regole legislative alla luce dei principi fondamentali che ne costituiscono un innovato parametro costituzionale. Al contrario, trova spazio e piena legittimità quel ruolo interpretativo, e il relativo parametro, cui sono chiamati i giudici di ogni grado quando si interrogano (non spesso) e quando interrogano (ancora meno) la Corte costituzionale circa la conformità di ogni regola legislativa ai principi ispiratori dell’ordinamento costituzionale. Un diritto “per principi” (mite, giusto, come è stato ben definito da Gustavo Zagrebelsky nel bel volume Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia (Einaudi) ha preso il posto (nel senso cioè che dovrebbe prendere il posto) del “diritto per regole”, che tuttavia continua ad essere tuttora ampiamente praticato e sostenuto tanto da quella parte della magistratura che opera secondo canoni interpretativi giuspositivistici, tanto dallo stesso Parlamento nel compito, che comunque rimane complesso e difficile, ma è la sfida della democrazia, di dare armonia all’attuazione dei principi e alla pienezza della persona umana.
Un quadro – quest’ultimo – che dovrebbe suggerire molto più di una moderazione nelle talora esagitate analisi e prospettive di politica legislativa che riguardano quei campi di frontiera come il biodiritto, la famiglia e la sua evoluzione, gli orientamenti sessuali delle persone, lo stesso diritto al diritto di poter decidere della propria vita quando a quest’ultima non fosse assicurata quella dignità che ne costituisce un motivo di riferimento essenziale, quello appunto della “umanità”, inclusivo dello stesso diritto ad “uscire dalla scena” umana in silenzio e con dignità.
Per non far finta di parlare senza dire nulla, cioè senza prendere posizione, anche rispetto alla chiarezza e alla nettezza delle posizioni espresse dall’autore nel volume che stiamo presentando, è proprio in questi particolari ambiti di confine – dove il “nuovo” diritto ancora non si è formato e dove il “vecchio” diritto non appare essersene fatto carico – che trova tutto il suo riconoscimento l’esigenza che gli spazi di autodeterminazione personali, che non interferiscano con altrui diritti, non siano occupati dal diritto pubblico bensì dall’etica individuale, in una parola dalla libertà di autodeterminazione della persona libera e informata. Nel fondo, lo impone il principio di laicità dello Stato, per come confermato dallo stesso Giudice delle leggi italiano.

Lo stato pluralista e il principio di laicità
L’interrogativo che sul punto non possiamo non porci è quello relativo agli ambiti regolativi da riconoscere alla statualità, alle pretese regolative del diritto pubblico di uno Stato pluralista rispetto alle certezze imposte dall’alto e dal basso nelle forme statuali a base religiosa.
La fede nella trascendenza dell’uomo costituisce una risorsa indubbiamente apprezzabile per chi ne gode. Ma può assumersi che uno Stato moderno debba accogliere come riferimento del suo agire, della sua disciplina pubblica, una soltanto delle idee di trascendenza, con le relative morali di accompagnamento, imponendo regole che si fondano su tali etiche? Senza farne qui un motivo specifico e autonomo di riflessione teorico-politica, sul punto, possiamo senz’altro rispondere in senso negativo. Alla persona che vive la propria esperienza umana, sono riconosciute dal nostro testo costituzionale, in modo pieno, tanto la libertà di religione e di culto tanto quella di orientare il proprio agire in conformità a tale motivazione religiosa, tanto e infine quella di non avere una religione e i relativi assiomi.
Nel quadro di questa idea di laicità, lo stato, come ha sottolineato la Corte costituzionale in Italia, si fa carico come onere pubblico dello stesso insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, a condizione, tuttavia, che a tale servizio pubblico corrisponda la libertà di autodeterminarsi da parte del giovane studente o, qualora minore, della relativa famiglia, nel senso di avvalersi o meno di tale offerta di servizio pubblico.
In altri termini, non pare a chi parla che manchi nella nostra giurisdizione costituzionale né la coscienza dei problemi del pluralismo, che richiedono relative garanzie effettuali, né la sensibilità a farsene carico, secondo modalità che sono rispettose della stessa risalente tradizione culturale e religiosa del nostro Paese. In qualche caso anche con incertezze e titubanze, come nel caso delle variegate risposte giurisprudenziali in tema di offensività o meno della esposizione del crocefisso nelle aule pubbliche (scuole, tribunali o altro).

Europa come “giardino dei diritti”
Nella stessa ottica, quella della previetà e della vincolatezza per il legislatore ordinario statale (ed ora anche di quello regionale, pariordinato rispetto al primo) dei principi fondamentali ispiratori del costituzionalismo contemporaneo, si muove, con ricchezza e dovizia di esemplificazioni, l’analisi del volume quando affronta la tematica della “costituzionalizzazione” della persona e delle sue pretese a godere di servizi pubblici negli ambiti costituzionalmente definiti, che sono volti a farsi carico della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale e ad assicurare la pienezza della persona umana. È la questione dei diritti sociali e delle relative garanzie, che portano lo studioso ad aprirsi alle tematiche poste al nostro costituzionalismo dalla sua apertura internazionale e soprattutto comunitaria.
Sotto questo profilo, alla bella analisi di Mario Patrono che già un decennio fa, con riferimento alle garanzie accordate ai diritti fondamentali, parlava dell’Europa come di un “giardino dei diritti”, si aggiunge ora l’analisi del nostro studioso quando sottolinea il valore aggiunto assicurato alla protezione dei diritti fondamentali dalla Carta dei diritti fondamentali, sottoscritta a Nizza nel 2000 ed oggi inglobata all’interno del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa. Lo scenario, come si vede, è quello di un costituzionalismo a più livelli, che, al livello costituzionale nazionale, cumula le garanzie proprie della garanzia internazionale (Cedu e Corte di Strasburgo) e quelle dei trattati comunitari e della Corte di giustizia che ne è il garante.
Senza voler ad ogni costo aprire un’autonoma trattazione del tema, come pure si imporrebbe, vista la partecipazione dell’autorevole studioso alla Convenzione che ha collaborato alla stesura della bozza della Carta di Nizza, occorrerebbe, tuttavia, sottolineare – e ciò senza pregiudicare l’alto valore della positivizzazione comunitaria di una Carta dei diritti fondamentali – come la disciplina comunitaria di questa materia presenti al momento sia luci che ombre.
Invero, le luci prevalgono e costituiscono un sussidio più che valido rispetto alle incertezze del legislatore nazionale e alle stesse chiusure nelle materie c.d. eticamente sensibili, in quanto lo studio degli effetti della giurisprudenza comunitaria e la sua idoneità a conformare quella nazionale (con la sola eccezione dei cosiddetti controlimiti, posti dal rispetto dei diritti e dei principi fondamentali costituzionali nazionali) ci dice che molte delle questioni di regolazione legislativa sulle quali il Paese appare da tempo diviso hanno già e da tempo trovato linee di soluzione sia nella giurisprudenza del Giudice di Lussemburgo sia in quella del Giudice di Strasburgo. Si pensi, fra i tanti, ad esempio, al caso “Perrouche”, in tema di diritto a nascere sani ovvero a non nascere e ai relativi riflessi sulla contrastante giurisprudenza della nostra Corte, al caso “Kb”, al caso “Richard” sui transessuali, al caso “Goldwin”, all’importante caso “Omega” e al parametro della dignità umana come idonea ad affievolire lo stesso diritto di impresa.

La difficile strada dell’integrazione comunitaria
In breve, l’integrazione comunitaria non è, né sarà indolore nell’immediato futuro, con riferimento alla stessa tematica dei diritti fondamentali. Anzi possiamo affermare che, a partire dalla famiglia e dalla sua formulazione più aperta nell’ambito della Carta di Nizza, fino alle tematiche della clonazione e della bioetica, del biodiritto, molto più di una conseguenza si avrà sul diritto interno dalla operatività di tali regole sovranazionali. Rimane pur vero che il livello delle garanzie rimane quello di ambito costituzionale di ogni singolo Paese quando a presidiarlo esista una disposizione costituzionale; ma rimane altrettanto vero che, in tutte le aree di confine, ove il diritto interno o tace o risulta incerto, sarà il diritto comunitario ad offrirsi, nell’ottica multilevel di cui si è già detto, di risolvere tutte le antinomie astrattamente ipotizzabili. Che poi tanto astratte non sono quando si consideri come sulle stesse da più di un ventennio si incentra il dibattito parlamentare e quello politico-culturale nel Paese!
Tanto brevemente richiamato circa la costituzionalizzazione comunitaria dei diritti fondamentali, tuttavia, deve sottolinearsi problematicamente – anche l’autore potrà convenirne, come già ha osservato nei suoi lucidi interventi in materia – che nella materia dei diritti sociali il diritto comunitario pare caratterizzarsi tuttora per una sorta di insuperata “frigidità sociale”. D’altra parte – è vero – i diritti sociali costano ed è parimenti vero che un costituzionalismo europeo forte può nascere solo dai popoli e non dai governi/stati, come fin qui è avvenuto, ma rimane altrettanto vero, al momento, che il catalogo dei diritti sociali comunitari appare ancora esangue, seguendo un percorso eminentemente individualistico, personalistico (più che sociale e politico), in questo evidenziando una distanza non-colmata rispetto alle tradizioni costituzionali europee più avanzate in termini di liberazione dal bisogno e dunque di diritti di giustizia sociale.

Norme pubblico-costituzionali e vita personale
La questione andava evocata non per ipotizzare una svalutazione dei livelli costituzionali nazionali; così non è, infatti, quando si rifletta alle cosiddette clausole orizzontali e alla individuazione della protezione secondo lo standard più avanzato che sia riconosciuto da ogni livello nazionale. Nondimeno, una ricaduta problematica sulla garanzia dei welfare nazionali sussiste, quando si rifletta che l’integrazione comunitaria avviene nel rispetto di standard macroecomici, i cosiddetti patti di stabilità, che non possono che limitare le politiche dei governi nazionali nel sostenere le spese connesse alle politiche pubbliche in materia di diritti sociali. Si ricorda che, in Italia, quelle relative alla salute, alla istruzione ed alla previdenza occupano i 2/3 del bilancio dello Stato e che la globalizzazione dei processi economici, con l’allontanamento delle imprese verso “eldoradi” finanziari, impoverisce ulteriormente la possibilità degli stati nazionali di finanziare le spese pubbliche necessarie a garantire i diritti sociali, pur dopo aver razionalizzato quanto di razionalizzabile esiste in tali ambiti.
Dopo questa breve parentesi comunitaria, una prima conclusione si impone rispetto alla presentazione dell’opera che ne stiamo proponendo. Il diritto di cittadinanza ‘unitaria e sociale’ che è alla base del nostro ordinamento costituzionale ha visto, con grande interesse e vantaggio dei soggetti deboli, l’operatività di principi e di regole costituzionali che non possono che apprezzarsi, quando ci interroghiamo, come l’autore ci spinge a fare, sulla compatibilità fra le regole, in questo caso pubblico-costituzionali, e la vita personale.
Possiamo in tale ottica, ad esempio, omettere di sottolineare che il progetto di società accolto nella nostra Costituzione – sulla base di un preciso compromesso fra cattolici, marxisti e laici in sede di Assemblea costituente –, almeno con riferimento alle libertà economiche, ha significato una precisa limitazione non certo del diritto di libertà o di proprietà quanto piuttosto del relativo esercizio per “funzionalizzarlo” a precisi scopi sociali e per consentire che le stesse libertà economiche si componessero armonicamente con altre libertà o beni costituzionali, come la sicurezza, la libertà e la dignità umana (con riferimento alla libertà di impresa, ex art. 41, II c., Cost.), ovvero in modo che ne fosse assicurata la relativa funzione sociale e l’accessibilità a tutti (con riferimento alla proprietà privata e pubblica, ex art. 42, II c., Cost.)?
Vi è, dunque, nello stato costituzionale di diritto, una funzione di garanzia delle regole che è chiamata a “compatibilizzarsi”, ad armonizzarsi, con lo statuto sociale dell’impresa e della proprietà. Diremmo – se non vogliamo trascurare la centralità del nostro progetto costituzionale – che le regole svolgono una funzione (negativa) di garanzia ed una (positiva) di tipo promozionale. Ogni qualvolta l’esercizio di una libertà incontra l’altrui libertà (in questo caso dal bisogno) il richiamo delle regole è quello che fa la differenza fra una società a base individualistica e una solidaristica. È lo Stato sociale, che nel suo agire segna una distanza siderale rispetto allo Stato liberal-democratico, nel quale – ricordiamolo ancora una volta – la libertà (e la felicità personale) era funzione della sola responsabilità individuale e con essa dei rischi connessi all’autodeterminazione dell’individuo nel mercato.

Un mutamento del concetto di cittadinanza
Messa in questi termini, la questione su cui occorre ora interrogarsi insieme all’autore è quella del se, in ciò che vi è di personalissimo, sussista comunque, a prescindere da una funzione promozionale del diritto, pari titolo ad una logica del diritto omnicomprensiva delle variabili dell’esistenza umana, laddove quest’ultima incontra come limite la sola assiologicità di valori affermati in modo prescrittivo e a priori rispetto alla composizione degli interessi personali in campo. Se vogliamo, forse, l’unica eccezione proponibile rispetto a tale problematizzazione rimane la sola questione del rapporto fra nascituro e madre, in presenza di una disciplina positiva che non riconosce al feto pari-ordinazione giuridica rispetto al diritto della madre, ma che rimane purtuttavia un progetto di vita che chiede un suo riconoscimento e una sua protezione.
Fuori da questo ambito, nel quale, sia pure problematicamente rispetto al diritto vigente, lo scenario delle situazioni nuove, determinato anche dallo sviluppo esponenziale della scienza e dalla tecnica, risulta molto ampio; ed è appunto quello cui è dedicata con puntualità e motivazione analitica l’indagine dello studioso nei diversi capitoli tematici in cui si articola il volume.
Si direbbe – come ci suggerisce lo stesso autore – che saremmo attualmente in presenza di un mutamento della stessa idea di cittadinanza, nel quale «il soggetto si trova a poter disporre di un patrimonio di diritti che può spendere, esercitare in luoghi diversi, ricercando proprio quelli dove non esistono divieti o limitazioni che ostacolano le libere scelte delle persone. E proprio la possibilità di agire in una dimensione che si dilata, fino a coincidere con il mondo, rende problematiche molte limitazioni dell’autonomia dei soggetti, poiché ormai ogni restrizione nazionale è destinata a entrare sempre più in concorrenza con le discipline meno rigide offerte da altri paesi» (p. 55).
Ed è con riferimento appunto a tale nuovo quadro che la ricerca dello studioso si estende alle problematiche di libertà della persona rispetto al “turismo abortivo” o “procreativo”, come lo definisce lo stesso autore, al “divorzio”, alla “eutanasia”, ai raves parties, allo stesso “suicidio assistito”. Si dà atto, in tal modo, che «la vita mette in discussione un’idea monolitica del diritto» (p. 57), evidenziando, tuttavia, un’odiosa nuova idea di cittadinanza rispetto all’esercizio di questi diritti a livello sopranazionale di marca eminentemente censitaria. Sono diritti, questi ultimi, riconosciuti nei fatti a quelli soltanto che dispongono di risorse. Ed ecco dunque disvelato quell’apparente paradosso dell’autore che ci parla di un “turismo dei diritti”, di uno shopping giuridico, in una parola di un diritto à la carte.
Un paradosso – quest’ultimo – che deve interrogare il singolo legislatore nazionale che non voglia rinchiudersi in una turris eburnea impenetrabile alla vita, che chiede, al contrario, di essere riconosciuta negli spazi nei quali la libertà torni a rispondere al principio della sua assolutezza, fatto salvo il principio del neminem ledere. Un paradosso che interroga sulla stessa «necessità di un uso globale del diritto che consenta di avere regole comuni in grado di evitare, in primo luogo, lo sfruttamento delle persone attraverso il lavoro minorile o la negazione ai lavoratori delle garanzie minime» (p. 61).

Un diritto al servizio del “mestiere di vivere”
Uno scenario, in breve, che, nella dimensione globale, porti con sé «una circolazione di valori e di modelli di comportamento che pone il diritto di fronte a dilemmi difficili, alla continua contrapposizione tra universalismo e diversità, tra valori comuni e multiculturalità, tra efficienza economica e diritti fondamentali» (p. 61).
La ricerca è, dunque, quella di un «diritto diffuso e mobile» ispirata alla «utopia della cittadinanza globale», nella quale «soggetti diversi rendono evidente come il carattere davvero multiforme della vita e delle sue esigenze si distenda ormai in una dimensione in cui si scopre sempre più nettamente in un insieme di diritti, di doveri, prerogative inscindibili della persona e che, dunque, devono esserle riconosciuti e accompagnarla ovunque si trovi. La persona incontra così la pienezza della sua autonomia e la possibilità, universale, di modularla» (p. 62).
È questo in breve il quadro che funge da orizzonte teorico e culturale, non limitato razionalmente bensì aperto in un’ottica universalistica, nel quale l’autore si accinge ad uscire dal diritto per rientrare nella vita. Guidato continuamente da un rigetto, si direbbe ideologico, di ogni assoggettamento del diritto della vita alle regole economiche, con tale metodo, lo studioso si accinge ad un’analisi puntuale e penetrante di tutte quelle situazioni giuridiche nuove che vanno a proporsi come una garanzia del diritto della persona a riappropriarsi degli spazi di vita che gli sono propri e di cui le regole pubbliche non possono riappropriarsi se non a costo di riprodurre un inedito e autoritario “Stato etico”, che si qualificherebbe come un tonfo all’indietro rispetto a tutte le conquiste di libertà, di eguaglianza e di dignità dell’uomo di cui è stata capace la civilizzazione culturale accolta nel costituzionalismo della metà di secolo che abbiamo alle spalle. Un tonfo che significherebbe, dunque, una vera e propria crisi di civiltà, e non solo giuridica!
È in questo senso che possiamo concludere, con le parole dell’autore, secondo il quale «l’Ottocento sarebbe stato il secolo della libertà economica, il Novecento quello della libertà politica. La libertà finale, quella che riguarda le determinazioni proprie sulla vita, segnerebbe il secolo che stiamo vivendo. Una libertà [...] non prigioniera dell’egoismo, ma promotrice anche di solidarietà, connessione, legame sociale, e quindi via per la costruzione comune di valori condivisi. Da questo nesso sempre più intenso tra vita e libertà scaturisce per la vita un senso più profondo, e il diritto trova una sua più discreta misura. Si mette al servizio del “mestiere di vivere”, e così può essere oggetto di apprendimento, luogo dell’uomo e non del potere, strumento umile e disponibile e non imposizione insostenibile» (p. 72).
Un progetto ed un percorso – quest’ultimo – che fa da conclusione al saggio introduttivo al volume di Stefano Rodotà, che si offre alla lettura e allo studio del comune uomo della strada come anche allo studioso del diritto, al giudice e al legislatore.
Un percorso ed un progetto che ci avrebbe consentito, con umiltà ma con forza, di rassicurare il sig. Welby sul suo “diritto ad uscire” dalla vita con pieno rispetto della dignità della sua persona, come è andato chiedendo per settimane dalla “gabbia umana” (i termini sono quelli stessi utilizzati dal sig. Welby) nella quale la malattia lo aveva ridotto e dalla quale ci parlava con dolore e con rabbia. Un diritto quello di Welby che potrebbe solo umanizzare il diritto pubblico e le sue regole, rispetto alle pretese assolutistiche, nel fondo eticistiche in senso unidirezionale, di cui si sono ammantate in modo del tutto immotivato.

Silvio Gambino

(direfarescrivere, anno III, n. 12, febbraio 2007)
 
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