Anno XX, n. 224
ottobre 2024
 
In primo piano
Se i confini non creano solo divisioni:
religione e filosofia nemiche-amiche
La storia del pensiero occidentale è indice di un’attenzione speciale
su due temi diversi di riflessione. Che alla fine s'intrecciano sempre
di Sonia Vazzano
È il passatempo preferito di molti quello di riuscire a stabilire confini, a delineare barriere, a proporre delimitazioni. Perché, probabilmente, l’insicurezza porta sempre (o quasi!) a cercare mediazioni che non mettano mai di fronte a dei rischi. Lo stesso accade tra gli uomini che finiscono per deformazione – non intellettuale, ma umana – col dividersi in credenti e in filosofi, separando con la loro vita e le loro riflessioni i due ambiti della conoscenza che da sempre affascinano e allo stesso tempo dividono tutti.
Religione e filosofia sono come due sorelle separate alla nascita di cui si arriva sempre a stabilire quale delle due sia la cattiva e quale la buona della situazione. Così i credenti inneggiano ad una fede assoluta che da sola possa salvare l’uomo e i laici innalzano la filosofia come criterio di demarcazione e di giustificazione dell’intero scibile umano. La verità è che siamo tutti, a modo nostro (e qui, probabilmente, sta il nostro errore!?), un po’ credenti e un po’ filosofi; convinti dell’impossibilità di fare a meno tanto dell’una tanto dell’altra.
Insorgano allora pure gli uomini di scienza, dicendo che per loro la filosofia non ha senso. Ma si ricredano dopo aver ascoltato le teorie dei fisici… Si arrabbino gli atei, sostenendo di non aver bisogno della fede. Ma lo facciano a partire dal loro non sentirsi appartenenti a qualcosa che riconoscono, comunque, come termine di paragone forte…
Noi lo facciamo ponendo attenzione a coloro i quali si sono situati, nello specifico, di fronte ad un tale problema. Credenti oppure no. Filosofi o teologi. Se mai non si potesse allo stesso tempo essere filosofi e credenti, cioè pensare e credere…

Quando gli dèi non erano un “problema”…
E del resto rapportare filosofia e religione ha da sempre voluto esprimere il campo effettivo e possibile di indagine e applicazione dei termini di ragione e fede. L’indagine filosofica antica si caratterizza proprio per questa sua fedeltà alla ragione. Ok l’indagine sulla natura, ok l’attenzione (o la paura) per gli dèi, ma Eraclito, Senofane e Melisso erano tutti convinti del primato della sapienza sulle altre virtù. Ma soprattutto ciò che appariva necessario, almeno con Pitagora, era la purificazione dell’anima, per la quale il filosofo predicava una comunione dell’uomo con la divinità. Con Democrito, poi, l’uso dell’intelletto diventava strumento di felicità, mentre il pensiero degli dèi non risultava essere ancora troppo “soffocante”; per cui bisognerà aspettare qualche sofista (Protagora, Prodico e Crizia) per una critica alla fede tradizionale.
Insomma neanche il grande Socrate potrebbe darci davvero una mano nello scompigliare la coppia religione-filosofia; questo perché fino a Platone ricerca antropologica, cosmologica ed etica si fondavano tutte insieme nelle forme di una filosofia che emergeva dal mito. Il rapporto tra religione e filosofia veniva così giocato in Platone in relazione al destino dell’anima, stabilendo una analogia tra filosofia e iniziazione misterica (Fedone, 69 c-e) e predicando non solo la fedeltà alla ragione, ma anche a Dio (Critone, 46b-48a).
Si trattava perciò di un legame che finiva con l’essere declinato in varie espressioni – dal tema sul destino dell’anima, al problema del divino, a quello del politico. È come se gli antichi avessero già capito di avere due “padroni”, ma non lo avevano ancora bene esplicitato. È come se avessero già compreso, senza bisogno di chiarirlo, l’impossibilità di una classificazione tale da porre in contenitori differenti due ambiti che molto, che troppo avevano in comune… E neppure l’immensa trattazione aristotelica sulla sostanza divina, atto puro, riesce a chiarirci meglio la questione.
Con gli stoici, forse, qualcosa cambia e Cicerone comincia ad occuparsi del problema (De natura deorum, II, V-VI), confutando dapprima le tesi di Epicuro sull’indifferenza degli dei e poi quella stoica del dio razionale e provvidenziale. Quello che ne viene fuori è una sorta di visione scettico-razionalistica, a metà tra il dogmatismo ateo degli epicurei e quello panteistico degli stoici. Sesto Empirico invece dichiara senza mezzi termini che non solo non si può affermare l’esistenza della divinità, perché non si ha di essa né percezione né rappresentazione certa, ma anche perché non si può dimostrare.
Ecco un punto che pare interessante. Da subito nel gioco della fede entra in campo la necessità di una dimostrazione, quindi di una ragione e allora di una filosofia. Del resto sembra proprio che ogni filosofia sia un po’ una religione e ogni religione, chissà, una filosofia (!?)…
Il fatto è che nel pensiero antico non esiste nessun vero e proprio problema tra religione e filosofia, perché in fondo manca una dottrina della fede forte, vero ostacolo di ogni ragione; tant’è che per Seneca dire filosofia significa, allo stesso tempo, parlare di scienza del divino e di scienza dell’umano (Naturales quaestiones I, 1).

Tra cristianesimo e speculazione filosofica
Tutte queste suggestioni ci portano così a rintracciare nella filosofia cristiana il fulcro centrale della questione. Così mentre per S. Paolo la vera sapienza è il Vangelo (1 Cor 1, 18-20), per Origene la fede, per una sua esigenza intrinseca, ricerca le proprie ragioni da se stessa, divenendo quindi conoscenza. La teologia si configura così come la sapienza più alta e Gregorio da Nissa arriva anche ad esporre una ragione dell’Incarnazione (Oratio catechetica, XIV; XV, I-3; XXVII, I-3).
Tra i padri della chiesa è però con S. Agostino che giungiamo ad una vera e propria riflessione circa il rapporto tra la filosofia e religione, e nello specifico tra la ragione e la fede. La prima senza la seconda risulta infatti desperatio verum inveniendi, esperienza di sconfitta che uccide la speranza della verità. È come se la ragione finisse per contraddirsi, qualora decidesse di abbandonarsi a se stessa, giungendo così ad uno scetticismo assoluto.
Proprio per questo bisogna credere per sapere, crede ut intelligas. Ma un tale percorso non basta; c’è bisogno anche di quello inverso, e cioè capire per credere, perché se per l’acquisizione della verità è necessaria una specie di fede, ogni fede consapevole ha bisogno dell’uso dell’intelletto. In questo modo si evita di svilire la ragione, perché è proprio tramite il pensiero che l’uomo si avvicina a Dio. Si tratta di un rapporto, per così dire, circolare in cui da un lato la fede è condizione del sapere (cioè l’intelligenza è ricompensa della fede), mentre dall’altro l’uomo crede in quanto pensa (visto che senza pensiero non c’è fede). Solo nell’ascesa a Dio allora ci sarà interazione tra fede e ragione: e solo così la conoscenza dell’uomo sarà via della conoscenza di Dio.
Agostino lascerà un’impronta notevole nello sviluppo di tutta la riflessione successiva; ad esempio in Severino Boezio, per il quale fede e ragione finiranno per convergere quasi in modo naturale. E Dionigi Areopagita espliciterà l’esistenza di una sapienza (follia) causa di ogni altra sapienza (De nominibus divinis, VII, 1-2).

Da Agostino alla ripresa dell’aristotelismo
Nel passaggio dalla Patristica alla Scolastica il problema, pur rimanendo sempre tale, ondeggia tra il rapporto prodotto dal messaggio della chiesa (etico-pratico) e le sue esigenze di una indagine razionale su dottrina e fede. Così per Giovanni Scoto Eriugena non esiste nessuna opposizione tra vera autorità e vera ragione in quanto l’autorità va approvata dalla ragione e la ragione, dal canto suo, non ha bisogno di essere appoggiata da alcuna autorità. Le Sacre Scritture e la ragione hanno dunque solo compiti differenti: le prime possono portare alla fede, la seconda fa parte di una scelta di vita che vada anche al di là della sola fede. E perciò siamo di fronte ad una sorta di accordo intrinseco tra fede e ragione (De divisione naturae, II, 20). Del resto Rivelazione e ragione non si possono contraddire in quanto emanazioni dell’unica scienza divina. Nella ricerca della verità bisogna tuttavia partire dalla Rivelazione anche se utilizzando lo strumento della ragione.
La prima delle riflessioni più famose del rapporto tra religione e filosofia la troviamo in Anselmo d’Aosta, il quale si muove sulla scia di Agostino: la fede è condizione di ogni retta conoscenza, cioè punto di partenza della ricerca filosofica. Quindi l’accordo tra fede e ragione è intrinseco ed essenziale.
È chiaro dunque non solo che non si può intendere senza fede, ma anche che la fede da sola non basta: va dimostrata. Si tratta tuttavia di una riflessione che prende strade diverse negli scritti di Anselmo; così mentre nel Monologion troviamo numerosi esempi di meditazione sulla ragionevolezza della fede accessibili anche a chi non crede nella Rivelazione (come se l’autore cercasse di calarsi nei panni di chi non crede per constatare fin dove la ragione possa giungere da sola), nel Proslogion invece la ragione viene usata per chiarire a se stesso e all’incredulo ciò che la fede afferma di Dio.
Questo perché, inevitabilmente, Anselmo fa una scelta precisa: la fede sembra precedere, anche se di poco, la ragione. Diciamo che il tentativo di mettere d’accordo i due ambiti c’è; e però qualora ciò non fosse possibile o attuabile sarebbe la ragione a dover essere messa da parte. Ad ogni modo l’assunto di fondo rimane sempre lo stesso: fede e ragione non possono contraddirsi perché possiedono una stessa natura che gli deriva dalla divinità. È il famoso credo ut intelligam per il quale l’invocazione di Anselmo è: «[…], o Signore, che dài intelligenza alla fede, […]» (Proslogion, II). E ancora: « […] chi non crederà non comprenderà. Poiché chi non crederà, non proverà; e chi non proverà, non conoscerà» (Liber de fide Trinitatis et de incarnatione Verbi, II).
Il credo ut intelligam di Anselmo si trasformerà in Abelardo in intelligo ut credam. Il ricorso alla ragione diviene cioè un mezzo per garantire e difendere la fede (inizio della seconda parte del Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano).
Così la filosofia e la Rivelazione non risultano in disaccordo tra di loro, perché tanto i filosofi pagani tanto quelli cristiani sono accomunati dalla ragione. Mentre la fede diventa inutile solo se la ragione stessa può da sola stabilire un criterio veritativo fondante.

La riflessione di Tommaso d’Aquino
Il pensiero della Scolastica nei secoli XIII e XIV è scandita dalle personalità di Bonaventura e Tommaso d’Aquino. Per il primo tra fede e scienza risulta essere più certa la prima che la seconda; tuttavia è anche la più problematica in quanto esige un impegno personale che la seconda non pretende. Ad ogni modo i due ambiti coesistono tra di loro: così l’opinione non esclude la fede, ma la aiuta e la serve, mentre la fede non esclude la scienza: «È per questo che l’Apostolo dice che Dio ha reso stolta la sapienza di questo mondo; poiché ogni sapienza di Dio in questa vita, senza la fede, è più stoltezza che vera scienza» (Commentum in quattuor libros Sententiarum, III, d. 24, a. 2, q. 3 ad. 4, III 524).
Tommaso – la seconda grande riflessione su cui ci soffermiamo dopo quella di Anselmo in modo particolare – parla invece di concordanza tra fede e ragione (Summa contra gentiles, I, 7): gli articoli di fede, infatti, sono veri per supposizione, ma non risultano evidenti alla ragione; per questo la stimolano a cercare in essi una qualche evidenza; in questo senso i primi presuppongono la seconda. Tuttavia se gli articoli di fede sono veri per supposizione, allora non potranno contraddire la ragione e potranno essere indagati da essa. Quindi alcuni saranno dimostrabili e altri saranno non dimostrabili (l’ambito del mistero). In tal modo la ragione naturale si subordina alla fede, non potendo dimostrare ciò che è di sua pertinenza: «se però fra le affermazioni dei filosofi si trova un qualcosa che contrasta con la fede, in quel caso non si tratta di filosofia, ma piuttosto di un abuso della filosofia dovuto a una carenza della ragione» (De trinitate. 2, 3). Siamo di fronte ad una specie di filosofia cristiana, in cui si comprende ancora una volta che parlare del problema filosofico vuol dire parlare di razionalità forte, terreno di lotta nei confronti di una dottrina religiosa altrettanto forte.
Dopo Tommaso, Giovanni Duns Scoto sosterrà che la fede risulta non avere nulla a che fare con la scienza (è la distinzione tra l’ambito teoretico e quello pratico), mentre Guglielmo da Ockham riconoscerà l’azione di Dio nel mondo come un semplice postulato della fede sprovvisto di valore razionale.

Tra Rinascimento e riflessione moderna
Insomma tutta il pensiero medievale ci mette di fronte ad una demarcazione forte tra l’ambito della teologia e quello della filosofia. E la storia del tempo invita a puntare tutto sulla prima piuttosto che sulla seconda.
La risposta della filosofia del Quattrocento e del Cinquecento è una forma di reazione forte all’aurea del Medioevo. Così Lorenzo Valla nel suo Dialogo intorno al libero arbitrio se la prende con i teologi che non dovrebbero attribuire troppa importanza alla filosofia la quale non è altro che un danno per la religione. Ne sarebbero un esempio le dottrine eretiche che utilizzano riflessioni filosofiche per costruirsi. Ed Erasmo nel suo Elogio della pazzia rincarerà la dose prendendosela sia con i filosofi («Si millantano […] di essere i soli sapienti, e credono che tutti gli altri uomini non siano che mobili ombre»), sia con i teologi («Questi interpreti delle cose divine sono pronti ad accendersi come la polvere; hanno il guardo terribilmente severo: in una parola, sono nemici molto pericolosi»).
Attraversando la modernità gli spunti di riflessione potrebbero risultare immensi: da Descartes – che si muove dal cogito a Dio e da Dio al cogito, utilizzando l’affermazione teologica come principio di conoscenza, in modo che l’esistenza di Dio garantisca la validità del cogito stesso (Discorso sul Metodo, parte IV; Meditazioni metafisiche, III) – a Galilei – sul rapporto tra scienza e Rivelazione (si vedano, ad esempio, in proposito le Lettere copernicane) – e Pascal – con la sua distinzione tra autorità e ragione e con il valore dato alla scommessa. Perché anche la filosofia a volte scommette, quando si pone questioni cui non riesce a dare una risposta precisa, e però se le pone...
Non si dimentichino poi le riflessioni di Malebranche, Spinoza e Leibniz. Per il primo lo spirito umano vede tutte le cose in Dio; la ragione risulta essere infallibile, immutabile, incorruttibile, tant’è che Dio stesso la segue (Trattato di morale, I, 2). Così la fede è un bene perché conduce all’intelligenza, in quanto senza intelligenza non renderebbe davvero virtuosi.
Per il secondo c’è un rapporto particolare tra filosofia e religione o meglio tra Filosofia e Teologia: lo scopo della prima è la verità, quello della seconda l’obbedienza e la pietà: pertanto «[…] non si deve piegare, né la Scrittura alla ragione, né la ragione alla Scrittura»; i due ambiti non vanno confusi, ma distinti e separati accuratamente (Tractatus teologico-politicus, XIV-XV).
Per il terzo fede e ragione sono due verità che non possono in alcun modo contraddirsi: «[…] l’oggetto della fede è la verità rivelata da Dio per una via straordinaria, […] la ragione è il concatenamento delle verità, ma, in particolare (in paragone con la fede), di quelle che la mente umana può raggiungere naturalmente, senza essere aiutata dai lumi della fede» (Discorso preliminare sulla conformità della fede alla ragione, in Saggi di Teodicea).
Finché non si arriva con la riflessione deista (soprattutto settecentesca) ad una religione razionale universale. È il trionfo della filosofia sulla religione, di una religione che si connota sempre più in relazione alla riflessione sulla moralità: basta pensare a Diderot, Voltaire, Rousseau, ma soprattutto a Shaftesbury.
Superata la minaccia deistica è quella dell’ateismo che incombe sulla riflessione filosofica in relazione al problema della religione. Così per D’Holbach la religione non può fondare la morale, per Hume essa è un fenomeno psicologico, per Lessing è frutto di un processo storico.

La svolta kantiana
Il discrimine innestato dalla riflessione di Kant tra Settecento e Ottocento ci dà l’idea di come le cose fossero davvero cambiate rispetto al Medioevo e all’Età moderna. L’impossibilità della prova ontologica (Critica della Ragion Pura, libro II, cap. III, sezione IV) e la possibilità della fede cristiana nei limiti della ragione (La religione entro i limiti della sola ragione, cap. IV, parte I, sezione II) ne sono un esempio illuminante.
La reazione a tale riflessione è una sorta di filosofia della fede che si esprime nel romanticismo di Johann Hamann, Johann Gottfried Herder e Friedrich Heinrich Jacobi. Così Fichte cerca di risolvere il problema del divino all’interno di un ordine morale del mondo, Schleiermacher fa della religione una sorta di integrazione di attività speculativa e pratica, Hegel ribadisce che «il contenuto della filosofia e della religione è il medesimo» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, 1830, § 573) e Feuerbach risolve la teologia nell’antropologia: l’oggetto della religione è l’essere dell’uomo posto fuori da sé e oggettivato come Dio (L’essenza del Cristianesimo, cap. II).
Con Kierkegaard rispunta però il conflitto forte con la filosofia: «Succede con i filosofi (così con Hegel, come con tutti gli altri), come con la maggioranza degli uomini, che nella vita quotidiana essi vivano in categorie diverse da quelle in cui speculano, e si consolino con qualcosa di tutt’altro da ciò di cui parlano con tanto zelo. Di qui tutta quella menzogna e confusione che c’è nelle scienze» (Diario, VII, A 80). E ancora: «La speculazione è il veggente, però soltanto nel senso che essa dice: “La cosa sta qui”, per il resto è cieca. Dopo viene la Fede che crede: essa è il veggente (riguardo all’oggetto della Fede)» (Diario, X A 432). E arriviamo così a Marx e alla sua doppia critica di religione e politica: «La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come lo è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo». (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione).
La storia della filosofia continua così in maniera altalenante sospesa tra sostenitori di filosofie rigorose che tentano di mettere da parte la religione e fedi assolute che fanno a meno di tutto e si rivolgono solo a Dio. È di un Dio, insomma, ciò di cui si ha bisogno; e che sia dei credenti o dei filosofi questo poco importa, perché è di un Dio che ci salva, di cui si ha quasi sempre bisogno, un Dio che metta mano in un mondo del quale non sappiamo più sfogliare le pagine, in cui ci troviamo sempre più soli.

Se oggi si parlassero un po’ di più…
Chissà magari avremmo bisogno come sosteneva Comte di una sorta di «filosofia teologica», primo momento dello sviluppo culturale dell’umanità (Cours de sociologie positive, 1830-1842, vol. I, lez. I); o con Spencer, che pur cercando di costruire ogni nuova filosofia che fosse sempre più al passo con i tempi (il suo proposito era quello di costruire una filosofia evoluzionistica su basi scientifiche in reazione all’idealismo hegeliano), dovremmo pensare a non negare mai l’esistenza di Dio, perché ai confini dell’esperienza umana c’è sempre una realtà assoluta che sfugge alla ragione, c’è sempre un Inconoscibile essere assoluto che si chiama Dio.
E questo non toglierebbe nulla alla nostra filosofia; così come niente vien meno alla religione se ad essa ci avviciniamo con l’uso della ragione.
Riscopriamo allora il senso vero di questi due termini: legare insieme e amico della sapienza. Chi lega è perché ha capito che il legame è importante e sentirsi legati a qualcuno o a qualcosa è la cosa più importante; chi ama la sapienza riconosce la propria miseria e spera di elevarsi al di sopra della propria contingenza. Per questo si ha bisogno di un Dio e allo stesso modo è grazie alla propria sapienza che lo si comprende. Così poco importa se questa sapienza ce la dà un essere divino o se la scopriamo nel mondo: l’importante è orientarla verso un assoluto.
Per i credenti questo assoluto è Dio, per i non credenti la filosofia non può colmare tutte le loro risposte. E neanche noi possiamo farlo. Però non ci abbandona la speranza: una speranza di chi crede perché ha conosciuto o di chi conosce sperando di credere. Queste le due possibili risposte della filosofia alla religione, ma anche della religione alla filosofia, seguendo le suggestioni di chi da poco ci ha lasciato una grande riflessione in proposito: i «teologi, […] prestino particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di Dio e compiano una riflessione da cui emerga lo spessore speculativo e pratico della scienza teologica. [...] Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle ricchezze più originali della tradizione cristiana nell’approfondimento della verità rivelata»; e i «[…] filosofi […] abbiano il coraggio di ricuperare, sulla scia di una tradizione filosofica perennemente valida, le dimensioni di autentica saggezza e di verità, anche metafisica, del pensiero filosofico» (Fides et ratio, 105-106).
Non con la filosofia senza la religione, né con la religione senza la filosofia; ma con entrambe o almeno con la convinzione che distinzione non significhi separazione o privazione o messa da parte dell’una piuttosto che dell’altra. E allora meglio filosofi credenti e credenti filosofi anziché solo filosofi o solo credenti, perché non c’è divisione più profonda che non quella fatta dall’uomo per gli uomini…

Sonia Vazzano

Per approfondimenti:

- Nicola Abbagnano, Cosa pensano i filosofi di Dio?, Mondadori, Milano, 1978;
- Martin Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano 1990;
- Norbert Fischer, L’uomo alla ricerca di Dio. La domanda dei filosofi, Jaca Book, Milano, 1997;
- Angelo Marchesi, Filosofia e religione: una integrazione possibile, Unicopli, Milano, 1991;
- Battista Mondin, Il problema di Dio. Filosofia della religione e teologia filosofica, ESD-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1999;
- Emanuele Severino, La religione e la filosofia. I nodi di un problema, Astra, Roma, 2005.

Sonia Vazzano si occupa di Filosofia, tematica sulla quale ha scritto diversi articoli su varie testate culturali.

(direfarescrivere, anno II, n. 8, ottobre 2006)
 
Invia commenti Leggi commenti  
Segnala questo link ad un amico!
Inserisci l'indirizzo e-mail:
 

 

Direzione
Fulvio Mazza (Responsabile) e Mario Saccomanno

Collaboratori di redazione
Ilenia Marrapodi ed Elisa Guglielmi

Direfarescrivere è on line nei primi giorni di ogni mese.

Iscrizione al Roc n. 21969
Registrazione presso il Tribunale di Cosenza n. 771 del 9/1/2006.
Codice Cnr-Ispri: Issn 1827-8124.

Privacy Policy - Cookie Policy