Anno XX, n. 223
settembre 2024
 
In primo piano
Il presunto diritto alla vendetta
nelle faide della ’ndrangheta
Per il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, il saggio
di Pantaleone Sergi sulle sanguinose guerre familiari
di Bianca De Peppo Cocco
Focalizzandosi su un fenomeno assai peculiare della storia della criminalità organizzata calabrese, il giornalista, scrittore e storico Pantaleone Sergi racconta la brutalità dei conflitti tra famiglie che hanno caratterizzato dal secondo dopoguerra (e, in alcuni casi, fino a pochissimo tempo fa) gli ambienti malavitosi della ’ndrangheta. Con grande vividezza, Sergi delinea un quadro chiaro e allarmante delle dinamiche sottese a queste guerre famigliari, chiamate comunemente “faide”, che hanno provocato, negli anni, più di mille morti e migliaia di feriti. Inserito all’interno della collana MAFIE presentata dalla Gazzetta dello Sport e dedicata alla storia e all’evoluzione delle mafie e della criminalità organizzata non solo in Italia, ma anche all’estero, il saggio Le faide di ’ndrangheta (Il Corriere della sera e La Gazzetta dello Sport, pp. 160, € 5,99) offre uno spaccato inquietante della questione delle faide famigliari in Calabria, cercando in un primo momento di definirne le caratteristiche generali, ovvero i meccanismi vendicativi e i moventi, e, in un secondo momento, di soffermarsi più dettagliatamente su quelle più rinomate e violente.

Le guerre private e l’impossibilità della pace
Il saggio di Sergi si apre con la descrizione dettagliata di una cupa immagine di lutto: un gruppo di sole donne (e qualche bambino) vestite di nero si avvia su una strada soleggiata e deserta dopo il funerale di un familiare assassinato da colpi di fucile. Secondo l’autore, questa rappresentazione illustra drammaticamente l’immaginario entro il quale si sono sviluppate e si sono protratte le faide di ’ndrangheta. Nella comitiva che si muove mestamente, infatti, mancano le figure maschili, mentre quelle femminili si stagliano come custodi, nel loro lutto perpetuo e continuamente manifesto, di quell’offesa che presto o tardi sarà vendicata.
Le faide, infatti, quelle originarie, erano guerre private fra due o più famiglie, molto spesso scaturite da motivi futili e pretestuosi e poi continuamente rinnovate attraverso un circolo vizioso e mortale di onore e prestigio offesi e conseguente vendetta. A differenza delle faide mafiose, infatti, finalizzate nella maggior parte dei casi all’affermazione sul territorio e al dominio sugli affari locali, le faide famigliari avevano come unico fine la vendetta delle offese subite, vero e proprio diritto e insieme dovere al quale nessuno poteva sottrarsi. E così, davanti a un’aggressione, come l’uccisione di un familiare, i congiunti non dovevano rimanere indifferenti, nonostante essa stessa fosse scaturita da un’altra offesa perpetrata da quella famiglia ai danni della famiglia “avversaria”. Ogni morte era considerata come se fosse la prima e non poteva rimanere invendicata.
Come sottolinea Sergi, poiché la rinuncia alla faida era un disonore, essa si poteva concludere solo davanti allo sterminio o all’abbandono del territorio di una delle famiglie coinvolte. Ogni altro strumento di pace era, nella maggior parte dei casi, vano: non funzionavano i matrimoni per instaurare legami di sangue e neanche i rari interventi dello stato. Le uniche motivazioni convincenti furono, secondo la cronaca delle singole storie, quelle economiche, legate a interessi sul territorio e su qualche mercato (lecito o illecito). Secondo Sergi, infatti, la differenza fra faida mafiosa e faida famigliare si è, nel tempo, e per motivi diversi, allentata e la prima si è spesso trasformata nella seconda.

Le vittime e lo spettacolo
In una faida, nonostante gli attori principali fossero solitamente maschili, in quanto autori e fautori dei delitti, nessuno era escluso e nessuno veniva risparmiato. Sergi, infatti, si sofferma lungamente sulla strage degli “innocenti”. Se l’autore del delitto era inevitabilmente condannato a subire una ritorsione da parte della famiglia offesa, allo stesso modo potevano subirla in maniera, per così dire, estensiva anche tutti i suoi familiari. L’elenco dei giovani e dei bambini assassinati solo per la sfortuna di essere nati con un certo cognome è lungo e agghiacciante.
Non mancano, poi, i casi di donne e uomini ritrovatisi nel posto sbagliato al momento sbagliato e caduti vittime di questi assalti spesso raffazzonati e disumani. Un altro aspetto enfatizzato dall’autore è, infatti, quello della spettacolarizzazione delle azioni violente. Le offese perpetrate reciprocamente fra famiglie tendevano a essere allestite a mo’ dì spettacolo, affinché avessero risonanza in tutto il paese e mandassero un messaggio chiaro di terrore. Si sceglievano dei luoghi particolarmente significativi per compiere i delitti oppure persino dei modi specifici di assassinare gli avversari (come l’uccisione per decapitazione). Questi divennero dei veri e propri motivi ricorrenti e riconoscibili nelle varie vicende malavitose legate alle faide.

L’abbondanza di storie e la povertà di parole
Ciò che maggiormente colpisce del resoconto di Sergi è la minuziosità con cui tenta di descrivere la costellazione di piccoli paesi che fecero da sfondo alle numerose faide calabresi. Se ne contarono, infatti, quarantuno in trentasei paesi diversi, per la maggior parte nella provincia di Reggio Calabria. La densità è impressionante, anche per il numero di vittime rispetto al numero di abitanti. Di queste quaranta non tutte ebbero lo stesso impatto: se alcune durarono per anni, altre si spensero nel giro di poco tempo. Quelle che godettero dell’attenzione della stampa e dei media furono ovviamente quelle più “spettacolari”. Sergi indugia sulle più rinomate e ce ne racconta i macabri sviluppi: dalla faida di San Luca, terminata con la strage nel 2008 a Duisburg, esempio di faida “delocalizzata”, a quella del minuscolo paese di Ciminà, la più sanguinaria in termini di rapporto morti-abitanti, fino ad arrivare a quella che è forse la più lunga e violenta, ovvero quella di Cittanova, originata dal furto di un porco.
Il racconto dettagliato delle faide lascia il lettore attonito davanti alla banalità delle premesse e all’ostinazione cieca dei vendicatori. Le dinamiche delle diverse storie individuali sono simili e costringono lo stesso autore, che infine se ne scusa, a utilizzare un numero limitatissimo di parole. Il “vocabolario povero” è forzato dalla semplicità e dalla brutalità delle faide stesse: morte, violenza, sangue, vendetta, armi e affini si susseguono insistenti sulle pagine di questo saggio come si sono susseguite per anni tra i paesaggi calabresi.

Bianca De Peppo Cocco

(direfarescrivere, anno XX, n. 222, luglio 2024)
 
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