Anno XX, n. 220
maggio 2024
 
In primo piano
Una sofisticata analisi
di brandelli esistenziali
Pubblicato da Nep, il romanzo di Luigia Veccia
che presenta una nitida impronta autobiografica
di Guglielmo Colombero
Quanto pubblichiamo qui di seguito è l’intera Prefazione, redatta dal critico letterario Guglielmo Colombero, al testo Il gazebo dei pini (Nep, pp. 128, € 12,00) di Luigia Veccia, autrice inclusa nella nostra “Scuderia letteraria”.

La Redazione



Prefazione
«Sara lanciò uno sguardo verso quello che avevano sempre, impropriamente, chiamato gazebo: era formato da alcuni pini mediterranei che, abbastanza distanti dalla casa, disposti più o meno in tondo, e le loro fronde convergendo le une verso le altre in un abbraccio – come a voler opporre una compatta solidarietà contro gli impetuosi venti invernali – avevano creato un’unica, verde e grossa cupola che ricordava, appunto, un gazebo e sotto la cui ombra stavano fissi, immobili, simili ad antichi monoliti, un tavolo e delle panchine in pietra».
Il titolo di questo romanzo, Il gazebo dei pini, scaturisce da questa visione di una bizzarra alchimia del paesaggio, contigua alle fantasie surrealiste dei dipinti di Dalì o di Magritte.
In questa sua opera prima, di nitida impronta autobiografica, Luigia Veccia ci offre un incipit che sembra la trasposizione letteraria di un’inquadratura da Morte a Venezia, il capolavoro cinematografico di Visconti: «Rivide suo nonno sul molo, vestito di lino bianco, con la paglia di vago stile cubano appoggiata un po’ di sbieco sulla testa; risentì il rimbombante suono della sirena del vaporetto, carico di turisti e viaggiatori, che attraccando annunciava il suo arrivo e quello dell’estate». E, nel panorama di Formia, affollato di personaggi pittoreschi (definiti «ciurma di parenti»), sul filo struggente della nostalgia, si riallaccia palesemente al verismo ottocentesco di Verga (I Malavoglia, soprattutto, nell’amore per le tradizioni tramandate di generazione in generazione) e di De Roberto (l’intreccio dei diversi destini singoli assemblato in I Viceré).
La crudezza narrativa si stempera in una precisione meticolosa nel tratteggiare la quotidianità dei personaggi, con una raffinatezza quasi calligrafica, e lo scandaglio immerso nella loro interiorità lascia affiorare i più reconditi dettagli introspettivi, impreziositi dal ricorso a eleganti suggestioni metaforiche, come quando traspare il sottile disagio esistenziale di Sara, figura femminile al centro dell’itinerario narrativo: «La banalità – che per chissà quale motivo le faceva venire in mente una donna trasandata e ripetitiva, senza fantasia – le procurava un senso di disturbo nel profondo e riusciva solamente a farla sentire come un pesce di mare finito non si sa come in un fiume».
Un altro aspetto del romanzo che vale la pena di sottolineare è lo squisito gusto pittorico spalmato sui paesaggi naturali, che coincidono spesso con gli stati d’animo dei protagonisti («A est il cielo era pennellato di un rosa talmente delicato che la donna, a guardarlo, si commosse, e recitò mentalmente una sincera e personale preghiera di ringraziamento per il Creato»), e la persistenza di sapori e profumi nella loro percezione sensoriale («l’aria iodata, profumata vagamente di melone»), frammista a impennate di passionalità sopita e per questo ancora più divorante («sguardi incandescenti che neanche la granita di limone, servita a una certa ora del pomeriggio quando la calura delle estati siciliane diventava davvero insopportabile, riusciva a spegnere»).
In alcuni pregevoli scorci ambientali, poi, l’autrice si abbandona al piacere puro e semplice del raccontare, e nel suo lessico raffinato riecheggiano le pagine più evocative di Tomasi di Lampedusa in Il Gattopardo: «il tempo scorreva tranquillo e l’aria diventava più fresca; le prime lampare brillarono sul mare, simili a lucciole di maggio e la luna, vigile e immobile, pareva sorvegliarle dall’alto, quasi a proteggerle dal fitto buio della notte che le avvolgeva».
L’impatto visivo che Veccia riesce a infondere nell’affabulazione, quando si sofferma su frammenti vivi e palpitanti della vita reale, si trasfigura in un vero e proprio tableau vivant iperrealista: «I pescivendoli delle strade centrali esibivano sui banchi il ben di Dio Nettuno: frutti di mare che – zampillando dalle valve appena dischiuse – facevano minuscoli giochi d’acqua come fossero fontane, gamberoni rosso vivo, spigole, orate, cernie dall’occhio vivido e dalle squame scintillanti, e a parte – posti in grosse vasche colme d’acqua – grovigli scuri di anguille vive e sguiscianti».
Il pendolo della narrazione oscilla continuamente fra passato e presente, fra teneri ricordi infantili (costruiti con la smaliziata tecnica del flashback) e il malinconico rimpianto per gli affetti estinti dalla morte (la fotografia del padre defunto al cimitero, «con le pieghe nei capelli, simili a onde di mare inargentate dai raggi lunari»).
Una lieve mestizia crepuscolare, da amarcord felliniano, pervade certi momenti di sospensione quasi fiabesca: Sara bambina che, sorpresa dal chiarore dell’alba, esita ad aprire gli occhi per timore di non trovare i doni della Befana sotto il suo letto. In un continuo riavvolgimento del film della sua vita, Sara viene proiettata nella dimensione quasi metafisica della “poetica degli oggetti”, accostabile alle atmosfere dei quadri di De Chirico: «le tende immobili – come drappi scolpiti nel marmo – per l’assenza totale di brezza».
Il minimalismo intimista che fino a quel momento procedeva senza scossoni, in un amalgama quasi idilliaco di quadretti famigliari, a un certo punto scivola, con felpata ma raggelante intensità emotiva, in cadenze da melodramma: il colloquio con il medico che rivela a Sara la diagnosi infausta sulla malattia della sorella è costruito come una lenta discesa nel gorgo dell’incubo («leucemia. Ebbe in quel momento un’allucinazione visiva e le lettere che componevano l’odiosa parola, si materializzarono nell’aria; le vide sospese davanti ai suoi occhi che ballavano una macabra danza»).
Le frequenti incursioni nel mondo impalpabile dei fantasmi e delle ombre, come la toccante parentesi onirica in cui Sara incontra l’apparizione della sorella («Elvira la guardava, le sorrideva, pareva la invitasse a raccontare; la brezza notturna agitava lievemente il suo scialle – diventato di un rosa più luminescente – e i capelli, sciolti come rame fuso sulle spalle») sembrano quasi una citazione delle sequenze più rarefatte di un altro capolavoro cinematografico in tema di agonia e di sogno, Sussurri e grida di Bergman.
L’autrice si addentra a fondo nei meandri più tortuosi e opachi della memoria, e in diversi passaggi narrativi sprigiona visioni che mettono a nudo le pulsioni più segrete dell’anima, in simbiosi armonica con le creature più diafane e primordiali, come gli insetti: «le lucciole a centinaia, forse a migliaia, lampeggiando morbidamente nel buio totale della campagna in ogni angolo di siepe e su ogni ramo di albero, suggerivano l’irreale, strano pensiero che il firmamento si fosse trasferito in terra».
Lo scavo psicologico elaborato fra le pieghe del racconto è paragonabile ai primi piani e ai piani sequenza del cinema: l’accuratezza formale del lessico si fonde con la profondità dell’indagine alla ricerca dell’essenza più intima dei sentimenti individuali, utilizzando l’immediatezza dei dialoghi per arieggiare adeguatamente il testo. A questo proposito, quando Sara si sente «investita, invasa, posseduta» dal colore verde delle montagne, «vivo e palpitante», avviene una vera e propria fusione (sia corporea che mentale), con la natura che la circonda.
Altrettanto accattivanti risultano i ritratti psicosomatici che l’autrice dissemina durante il percorso narrativo, come quando i «grandi occhi di giada» di Margherita, «per troppo tempo tristi», diventano dopo le nozze «raggianti come due fiaccole nel buio della notte»: sussulti di accensione barocca che accentuano la ricercatezza stilistica del romanzo. Il personaggio di Sara, «fagocitata da un branco scatenato di violente emozioni», entra in sintonia con l’incanto totemico del gazebo dei pini, che diventa un tenue diaframma che separa la vita dalla morte, un talismano dell’amaro sapore del rimpianto.
In definitiva, lasciando intatta la page turner sui successivi sviluppi della trama, va evidenziato come l’autrice riesca a pilotare la narrazione verso l’epilogo con un dosaggio ben calibrato di inquietanti premonizioni. Il ritmo sincopato della narrazione, denso di significati simbolici, si focalizza sulla rappresentazione elegiaca della dedizione materna, intesa come il più istintivo e inestimabile atto d’amore.
Sospesa tra barlumi di travolgente tenerezza e lenti d’ingrandimento impietosamente puntate su autopsie dell’anima, tra ammalianti sinfonie cromatiche e divagazioni in kammerspiel d’impianto teatrale, tra situazioni in bilico sull’inesorabile trascorrere del tempo e aneliti di speranza nello sbocciare delle nuove generazioni, l’autrice elabora un sofisticato distillato di brandelli esistenziali, e riesce a trasmettere a lettrici (soprattutto, vista la preminenza dei personaggi femminili, Sara su tutti) e lettori una gamma sfaccettata e sinfonica di fremiti, pulsioni e turbamenti.

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno XX, n. 220, maggio 2024)
 
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