In letteratura, il tema del ricordo ha spesso ricoperto un ruolo nevralgico nella produzione di svariati autori di indubbia grandezza. Infatti, a ben vedere, non di rado si è cercato di definire in modo nitido i contorni di una serie di elementi che avevano connaturato il passato. Facendo leva su questa complessa operazione, più e più volte si è giunti a mostrare le maniere tramite cui instaurare relazioni e modelli di vita più sani, sia per il singolo uomo, sia per l’intera collettività.
Di sicuro, far leva sulla memoria permette di valorizzare il presente. Così, lottare con tono energico contro la dimenticanza può e deve essere anche – e, forse, soprattutto – il compito della produzione artistica. Del resto, in merito basta riferire che proprio Mnemosine, dea della memoria, era la madre delle nove Muse che ispiravano arti e canto.
Nel lento sfumare di tutte le cose nel tempo – che, montalianamente, assume le sembianze di una forbice che, senza tregua, recide finanche i volti delle persone amate – la scrittura ha pressoché la veste di un tonico in grado, con tutte le riserve del caso, di lottare e porre un argine alla dimenticanza.
Anche nei contenuti del romanzo La morte di Virginia Martinis de Julio (Armando editore, pp. 424, € 19,00) di Vincenzo Bisceglia il tema della memoria è fondante. Infatti, pervade non solo gli spazi in cui si snodano le vicende descritte, ma regola pure i sentimenti delle varie figure rappresentate.
È tramite l’affacciarsi sugli orizzonti della memoria che i protagonisti assopiscono definitivamente le loro aspettative oppure azionano un processo in grado di produrre novità, affrontare svariate paure e approdare nella concreta comprensione del proprio stare al mondo.
Così, la saga familiare in cui si immerge il lettore, che è sorretta dal bisogno di alimentare continuamente il ricordo e tramandare le testimonianze appassite dal tempo, si impregna di un realismo estremo che, tramite la forza catartica dell’arte, riesce a diventare un’esperienza collettiva, universale.
Indagare il senso di precarietà di ogni esistenza
La trama principale dell’opera, che fa parte della “Scuderia letteraria” di Bottega editoriale, prende le mosse da un evento annunciato sin dal titolo: la morte dell’ultranovantenne baronessa Virginia Martinis de Julio che da lunghi anni trascorreva, in completa balia dell’Alzheimer, la sua quotidianità in una stanza di Villa Tranquilla, una casa di riposo.
Informati della dipartita della loro madre, Enrichetta e Amedeo fanno ritorno ai luoghi della loro infanzia. Soprattutto, è nel palazzo di famiglia che passano le ore seguenti prima di accompagnare mestamente il feretro e ritornare alle loro vite.
L’autore, Vincenzo Bisceglia, dopo una lunga esperienza lavorativa in banca, nel settore commerciale e legale, si è occupato di agricoltura e turismo, con questo romanzo è al suo esordio letterario ed è una prova ben superata: infatti riesce a far intrufolare i lettori nei pensieri delle figure che descrive. Principalmente, più che sulla «fredda e lucida, essenziale, mai prodiga di parole di manifestazioni di sentimenti» Enrichetta, l’autore decide di porre l’attenzione su Amedeo, professore che, prossimo alla pensione, trascorre la sua quotidianità a Torino, laddove, ricevuta la notizia della morte della madre, percepisce a fondo la sua fragilità, il suo rendersi conto «di non avere più un entroterra».
Il senso di precarietà che pervade ogni pagina del testo è sancito anche e soprattutto dalle ambientazioni. Infatti, sopra ogni altra cosa, le vite su cui si sofferma Bisceglia sono pregne dell’umidità che segna i luoghi in cui si muovono. Ogni oggetto ha un odore stantio che si fa sempre più evidente col trascorrere del poco tempo in cui si svolgono le vicende che contrassegnano il presente delle figure descritte.
Di più: è l’autunno calabrese, con la sua umidità permeante e appiccicaticcia, con le piogge «infide e distruttive» che mette «paura agli uomini e in ginocchio le speranze riposte sui pochi pianeggianti terreni limitrofi, fertili e proficuamente coltivati».
La forza di rappresentare il vero
Bisceglia, con un resoconto estremamente realistico, coglie le zone d’ombra, indaga le indecisioni e presenta ai lettori l’insicurezza e la tragicità che contrassegna ogni agire umano.
Soltanto mettendo in risalto questo aspetto si comprende come il tassello fondante attorno a cui è costruita la trama del romanzo è inevitabilmente la sincerità, palesata soprattutto attraverso il bisogno di ripercorrere, con tono quasi confessionale, diverse vicende gravitanti attorno alla famiglia dei protagonisti.
Dunque, l’esigenza dell’autore diventa quella di rappresentare la quotidianità, in particolare i tratti celati che la regolano. Da qui, perfettamente in linea col movimento realista che si affermò nell’Ottocento, l’obiettivo del testo è cogliere quei numerosi risvolti politici e sociali che contrassegnano l’intero contesto storico e ambientale attorno a cui le singole vicende si snodano.
Così, è inevitabile che le descrizioni di Bisceglia risentano della forte tradizione letteraria che da Stendhal e Honoré de Balzac passa per Gustave Flaubert e che, poggiando anche e soprattutto sulla Poetica aristotelica, ha dato vita al Verismo italiano.
Proprio a quest’ultimo movimento sono riconducibili vari elementi che colorano le descrizioni e il carattere delle figure che si incontrano nel romanzo. Senza alcun dubbio, quanto occorre evidenziare è che la fedeltà delle situazioni e degli ambienti descritti si lega a stretto giro anche al linguaggio che definisce il carattere delle molteplici figure presenti nel libro. Sta proprio qui uno dei punti di forza del testo. Infatti, nella lettura, ci si imbatte in un vocabolario ampio che, in uno stile ricercato e raffinato, non disdegna di inglobare anche elementi colloquiali, comprese diverse espressioni dialettali.
Sono tutti elementi che vanno posti in stretta relazione ai due lati della famiglia intorno a cui si snodano le vicende. Infatti, le figure appartenenti ai Benivò portano nelle descrizioni diverse espressioni vicine all’ambiente contadino, mentre il linguaggio ricercato e nobiliare è da ricollegare ai de Julio.
Da questo intreccio ne fuoriesce il mondo familiare che Duccio ed Enrichetta, per le esigenze che hanno contrassegnato le loro vite, hanno abbandonato, ma che, continuano a portarsi dentro. Nel caso di Enrichetta avviene rifiutando il più possibile ogni prossimo legame con la sua terra d’origine. Invece per Amedeo accade cercando di costruire, come si vedrà, un terreno fertile su cui fabbricare prudentemente il proprio futuro.
Un progressivo formicolare interiore
La scrittura di Bisceglia non si concentra neanche sugli ultimi attimi di vita della baronessa che dà il titolo al testo. Certo, attorno a sé e alla sua dipartita si muovono le azioni che spingono alle dettagliate ricostruzioni contenute nel testo. Da qui si comprende la scelta del titolo.
Eppure, non siamo affatto in presenza di un’indagine intorno alla morte terrena. Quanto colpisce Bisceglia non è quanto accaduto nell’ultimo scorcio di vita. Vale lo stesso per quanto può avvenire dopo la morte. Infatti, le azioni e i pensieri dei protagonisti non sono regolati da riflessioni su un altrove da indagare per quanto possibile, in cui magari essere ricompensati dalle brutture e dalle sofferenze patite durante la vita.
L’operazione semplice e stantia che mette in atto l’azione di reminiscenza è l’osservazione di fotografie o dei luoghi stessi. Così, proprio in quei luoghi si rimane costantemente impantanati con sempre più vigore. In altri termini, da quegli scorci giornalieri, sembra riferire l’autore, si può cercare rifugio terreno, ma non si può mai guarire. Le ferite bruciano e, da un momento all’altro, possono riaprirsi.
Dunque, nell’apatia quotidiana, capace di celare le molteplici sofferenze interiori vissute dalle figure che popolano le pagine del romanzo, Bisceglia mostra con acutezza come ogni persona contenga in sé le risposte ai drammi della memoria che passa inevitabilmente dagli oggetti e dalle testimonianze.
Quest’ultimo aspetto, vero e proprio principio regolatore delle esistenze, si nota con semplicità sin dalle prime pagine del testo. Infatti, rivivere i luoghi porta con sé un carico di vicende che forma un progressivo formicolare interiore che ravviva costantemente la narrazione.
Il bisogno di ritrovare la naturale previdenza
Man mano, la narrazione si fa sempre più ampia poiché anche un solo gesto o un singolo scambio di battute è capace di smuovere i protagonisti e di proiettarli verso orizzonti mentali molto più nitidi rispetto a quella polvere e a quella umidità che regola il loro presente.
Non solo: attraverso le informazioni disseminate nel testo, Bisceglia ripercorre le vicende sociali, economiche e politiche dell’intera penisola italiana. È un’operazione che mira a mostrare come i rimedi alle carenze identitarie, che segnano in modo marcato l’agire dell’epoca attuale, passano soprattutto dalla cultura e dalla voglia di riconoscersi.
Si tratta di accettarsi con tutte le incoerenze che marcano ogni vita. Del resto, è quanto accade proprio nella parte conclusiva del romanzo. Infatti, così si legge in merito al cambiamento che coinvolge il protagonista delle vicende narrate: «E si accettò, dolorosamente, ma con sollievo, con tutte le sue contraddizioni, ora nella polvere, ora sull’altare, ora forte e leale, ora cinico e baro o, talvolta, meschino, ma era lui, unico e irripetibile, vivo e consapevole di esserlo, e di essere così come era».
Da qui, si giunge a quell’«esagitato fantasticare» finale che avrebbe dovuto avere la sua esistenza, che allo stesso Amedeo risulta essere «una commedia all’italiana, ironica e amara». La definizione dell’ultimo capitolo di vita viene spazzata via prontamente dallo scorrere repentino del tempo quotidiano, da tutte quelle solite occupazioni giornaliere accumulate a causa della morte della madre.
Così, sfuma o rischia di sfumare la costruzione del futuro. In tal senso si possono leggere le battute finali del romanzo in cui viene descritta proprio la «naturale previdenza che gli umani perdettero», lucida osservazione che riassume il necessario cambio di rotta da imbracciare per sopperire a quella serie di sofferenze singole e collettive ampiamente affrontate nelle narrazioni.
Pertanto, le formiche che costruiscono il loro futuro in quei luoghi sempre più rifuggiti dagli uomini e che riempiono «i loro depositi di ciò che rimaneva sul terreno, dolce e rinsecchito, di tutti i frutti generosamente elargiti nella buona stagione» è il modo che Bisceglia preferisce per mettere in guardia dalle nuove e sempre più pericolose derive a cui si può andare incontro decidendo di percorrere sentieri siffatti.
Facendo leva sul linguaggio letterario, unico in grado di aggiungere quel pathos alle vicende descritte, Bisceglia mostra la necessità di costruire quotidianamente il proprio futuro anche e soprattutto a partire dai resti, dall’analisi minuziosa e sincera di quanto è stato.
Mario Saccomanno
(direfarescrivere, anno XVIII, n. 203, dicembre 2022)
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