Anno XX, n. 223
settembre 2024
 
In primo piano
Le donne e il peso del maschilismo:
quale rapporto intercorre?
Una riflessione in merito alla donna e su ciò che
la storia, la scienza e la cultura hanno detto su di lei
di Annibale Bertola
Continuando con il principio che non solo l’8 marzo è la festa della Donna, ma che lo è (meglio: lo dovrebbe essere) ogni giorno dell’anno, ospitiamo ben volentieri un contributo particolarmente prezioso che pone nuove riflessioni e nuova linfa culturale al tema.
Questa è la riflessione del psicoanalista Annibale Bertola, che ringraziamo per essersi espresso con questo intervento.
A rappresentare visivamente la problematica pubblichiamo ancora una foto di Emma Bonino ad ulteriore riconoscimento del suo centrale contributo dato alla risoluzione dell’atavico problema.


«Si calcola che circa seicento donne prestarono servizio nella guerra civile americana. Si erano arruolate travestendosi da uomo» [1].
Nella difficile convivenza fra i due generi, spulciando fra le pieghe della storia, si scoprono a volte notizie sorprendenti. Mi sembra che l’intervista di Giulia Bassanello alla femminista “storica”, Fabiana Desogus, colga alcuni aspetti di questa coesistenza che – simbolicamente – si possono trovare in queste donne che pur di partecipare alla guerra simulano una identità maschile (troverete l’articolo al seguente link). Eppure altre esperienze storiche, per quanto sporadiche, mostrano che l’aggressività distruttiva non è una prerogativa maschile. Lo storico Diodoro Siculo, per esempio, racconta dell’esistenza in Africa del nord una ginecocrazia, ovvero un paese ove «soltanto le donne potevano rivestire cariche pubbliche, comprese quelle militari» [2].

I premi a chi se li merita: ma è sempre così?
Come si spiega che – date per vere queste testimonianze – sembra che l’affermazione femminile in tutte le sue dimensioni possa realizzarsi solo attraverso una vera e propria competizione orientata al raggiungimento della supremazia o perlomeno del confronto ugualitario con l’uomo? E perché la storia ribolle di una pletora di “uomini illustri” mentre si contano sulle dita di poche mani le presenze eccezionali, o prolifiche, o rimarchevoli, di donne il cui contributo alla storia dell’umanità è perlomeno pari a quello reso dagli uomini? Una esperienza per tutte: quella di Marie Curie che ha pur vinto due premi Nobel, ma che ricevette il primo, per la fisica, solo quando il marito Pierre Curie, che insieme al collega Henri Becquerel ne era stato insignito, minacciò di non accettarlo se non fosse stato assegnato anche a Marie, il cui contributo nelle ricerche e negli studi che hanno portato alla scoperta della radioattività era stato fondamentale [3]. A riprova della fondatezza di questa pretesa, Marie Curie da sola vinse anche il Nobel per la chimica, qualche anno dopo la scomparsa del marito, avvenuta a causa di un tragico incidente.
E, su un piano più mondano, come mai dal 1929 a oggi il premio Oscar per la miglior regia è stato assegnato solo a tre donne?

Il patriarcato è interiorizzato in tutti
La Desogus nell’intervista cita numerosi altri esempi che mostrano la perpetuantesi inferiorità sociale della donna. Una inferiorità antropologica, si potrebbe dire, visto che parte dal delicato argomento della transgenerazionalità dei cognomi per estendersi poi alla consuetudine dell’identificare nel “capofamiglia” l’uomo, o le considerazioni sociologiche per cui nei momenti di crisi (come nel caso della pandemia da Covid-19 o delle ricorrenti crisi economiche) le donne sono le prime a essere licenziate, le ultime a essere assunte, sono loro a ricevere stipendi più bassi e a essere sottoposte più facilmente ad azioni di mobbing e a comportamenti discriminanti.
Sarebbe facile giustificare il tutto con motivi fittizi: la presunta inferiorità fisica della donna, per esempio (che ci fa dimenticare continuamente la sua maggiore resistenza biologica). Ma c’è un altro genere di pseudospiegazione che altro non è che una tautologia: è sempre stato così e quindi o non è affatto possibile cambiare o comunque non ne vale la pena… anche perché – spesso si argomenta – le stesse donne sono contente di queste situazioni che di fatto sanciscono la superiorità maschile: anzi: sono loro a volerla, diventando le più accanite nemiche della propria stessa emancipazione. Con i loro comportamenti, i loro modi di pensare e l’immagine che esse hanno di sé aderiscono al pregiudizio della loro stessa inferiorità.
Non a caso le conclusioni cui giungono intervistatrice e intervistata sono che il maschilismo trova proprio nella concezione che la stessa donna ha di sé uno dei maggiori alimenti.
Una conclusione sconfortante per chi, come me, ricorda Dalla parte delle bambine, lo splendido libro di Elena Giannini Belotti [4] che per prima individuò l’onda lunga che, dalla culla, si spinge fin verso il fine vita, sancendo una immotivata crasi fra le condizioni reali di vita dei due generi. Possibile che tanti anni siano passati invano? Possibile che inoltre si ignori come le moderne neuroscienze abbiano individuato nel cervello femminile strutture morfofunzionali che prevalgono su quelle maschili, evidenziando quasi come esso sia in uno stadio evolutivo più avanzato di quello raggiunto dal cervello degli uomini? [5]

L’importanza del fattore psicologico
Se tutta la questione fosse riconducibile solo al problema di spiegare le origini della disparità socioantropologica dei due generi, si potrebbe facilmente ricorrere a uno schema psicodinamico individuato da Anna Freud già nel 1936: l’“identificazione con l’aggressore”. Con tale nome si definisce un basico meccanismo di difesa per cui la configurazione sociale prevalente vede l’uomo detentore stabile e privilegiato del potere, possessore della capacità di dominio derivatagli dalla sua superiore prestanza fisica, e la donna come semplice oggetto del suo potere [6]. La sottomissione a cui è costretta non trova altra possibilità di sopravvivenza se non quella di operare la mimesis del maschile, come le soldatesse della guerra di secessione americana che si finsero uomini per potervi partecipare.
Un meccanismo che in qualche circostanza forse può funzionare ma che comunque non fa altro che rafforzare la disparità di genere a totale vantaggio della componente maschile.
E qui veniamo a uno dei pregi di questa intervista. Essa non si limita alla semplice constatazione fenomenologica della differenza di status e neanche cerca di trovare spiegazioni più o meno dotte a questo stato di cose. Essa propone un cambiamento di mentalità, una operazione di revisione concettuale (che è poi il modo più concreto di procedere) sul modo di pensare delle donne, perché prendano coscienza della loro corresponsabilità nel configurare un ordinamento sociale che continua a emarginarle in maniera discriminante. Per testimoniare infine quanto di vero ancora sussiste, è il caso di ricordare ciò che veniva evocato in uno sconsolato verso di una delle ultime canzoni di John Lennon: «Woman is the nigger of the world».

Annibale Bertola

[1] S. Larsson, La regina dei castelli di carta, Venezia, Marsilio, 2018, pag. 7.
[2] Ivi, pag. 453.
[3] G. Greison, Einstein e io, Firenze, Salani Editore, 2018.
[4] E. Giannini Belotti, Dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli, 1973.
[5] L. Brizendine, Il cervello delle donne, Milano, BUR Rizzoli, 2011.
[6] A. Freud, L’Io e i meccanismi di difesa, Milano, Giunti Editore, 2012.

(direfarescrivere, anno XVIII, n. 198, luglio 2022)
 
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