Di solito stuzzichiamo l’attenzione dei nostri lettori con una Prefazione ma stavolta abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso perché diverso è il libro che vi vogliamo presentare: infatti Proposte per una riforma costituzionale (D’Ettoris editori, pp. 384, € 22,90), scritto da Enrico Bartoletti e appartenente alla “Scuderia letteraria” di Bottega editoriale, contiene di certo molti spunti, spesso anche controversi, che avevano bisogno di un’ulteriore estensione e stimolazione per essere esplicati. Così è nata questa intervista svolta dal direttore della nostra agenzia, Fulvio Mazza, che ha dialogato con l’autore del testo per fornire ai lettori delle chiavi di lettura.
In questo intervento paratestuale, Fulvio Mazza, direttore dell’agenzia letteraria Bottega editoriale, stimola Enrico Bartoletti nell’esplicazione degli aspetti più importanti esposti dallo stesso autore nel suo testo.
Il saggio che andrete a leggere affronta un lungo elenco delle storture insite nella nostra Costituzione che, secondo l’autore, andrebbero risolte con coraggio intellettuale e determinazione istituzionale. Si tratta di un’esigenza avvertita, oltre che dagli studiosi del campo, anche da parte del ceto politico che, però, da decenni, tergiversa inutilmente o, quando cerca di agire operosamente, lo fa con atteggiamenti divisivi.
Ma, mentre i problemi presi in esame sono tutti abbastanza condivisi nella loro necessità di intervento, le proposte risolutive avanzate dall’autore determinano (come è normale che sia, quando ci troviamo innanzi, come in questo caso, ad un interlocutore intellettualmente onesto) riscontri articolati.
Nella fattispecie: il consenso v’è certamente sui temi dei difetti istituzionali e delle lungaggini parlamentari; su altre problematiche, va invece evidenziato un franco dissenso. Ne prenderemo ad esempio uno solo: quello sull’immigrazione, ove non si obietta tanto sulla validità dei contenuti economici quanto sulla carenza di solidarismo religioso.
Ma questo, paradossalmente, è il punto di maggior pregio del libro: è una pubblicazione che ci fa riflettere, che ci pone dinnanzi ad amare verità. Non è un saggio accondiscendente verso le nostre, spesso stereotipate, convinzioni. Non ci rassicura dicendoci le cose che vorremmo ci venissero dette.
Non è un libro che “scivola” in modo agnostico, è, invece, un saggio che in ogni capitolo, in ogni paragrafo, pone problemi che, magari (spesso), abbiamo colpevolmente rimosso. Questa pubblicazione, difatti, costringe il lettore a confrontarsi con tesi diverse; tutte opinabili, talvolta, come abbiamo accennato, molto opinabili, ma che, grazie alla serietà delle argomentazioni dell’autore, inducono comunque ad un proficuo ragionamento fatto di esposizioni ponderate e mai banali.
Al fine di agevolare il lettore a una lettura proficua, il saggio verrà dunque introdotto in modo anomalo: da una anomala, ma certamente efficace, Intervista introduttiva.
Sono diversi gli aspetti della nostra Carta costituzionale lei che contesta nel suo saggio. Quali sono i principali?
I principali sono l’assenza di riferimenti identitari, il garantismo eccessivo, l’impossibilità di controllare lo Stato profondo, le cessioni di sovranità assecondate dal nostro statuto nazionale, i troppi poteri del Presidente della Repubblica, le condizioni in cui sono formati gli organi relativi alla magistratura, gli assurdi ostacoli al referendum e il complesso ginepraio di articoli da cui scaturisce la gabbia della dittatura del pensiero unico, di cui oggigiorno soffriamo particolarmente. Nonostante a prima vista non appaia così, tutti questi casi, e anche altri, hanno origine dalla nostra Costituzione, e per porvi rimedio è necessario procedere ad una riforma di ampio respiro del nostro statuto nazionale.
Quale meccanismo dovrebbe utilizzare per attuarsi l’ampia revisione che propone? L’attuale art. 138 oppure strumenti diversi quali, magari, una nuova Assemblea costituente?
L’articolo 138 è uno dei primi articoli da cambiare, poiché, oltre a gravare l’intero processo con una lentezza che in questo momento storico rischia di esserci fatale, permette quasi esclusivamente alle nostre élite di alterare la Costituzione, con una scarsissima possibilità per il popolo di incidere sull’intero meccanismo. Propongo di riformare tale articolo attribuendo al popolo, mediante referendum, l’ultima parola su tale processo. Altresì deve essere introdotta la possibilità, per il popolo medesimo, di promuovere il referendum costituzionale stesso. Questa riforma dell’articolo 138 darà il via al resto delle riforme costituzionali, proprio perché avremo tolto alle nostre élite la predominanza sull’emendazione della carta costituzionale.
Fra le sue proposte v’è anche una nuova Legge elettorale. Verso quale meccanismo elettorale propende, e con quali motivazioni?
In un periodo caratterizzato dall’interregno instabile della transizione tripolare, propongo una legge elettorale proporzionale con un forte premio di maggioranza sulla base di collegi plurinominali. Questa legge elettorale, che deve essere scritta in Costituzione per non essere facilmente alterata dalle forze in Parlamento secondo tornaconti di partito, favorisce tale transizione. Quando una coalizione supera una determinata soglia di voti, questa legge le garantisce di governare, ma, quando non viene raggiunta, funziona come un sistema proporzionale semplice, che non comprime la rappresentanza come i sistemi maggioritari, i quali invece ostacolano tale transizione, fornendo una fotografia elettorale del Paese troppo lontana dalla realtà, come succede in Francia.
Lei altresì propone una Repubblica presidenziale. Ci spiega il perché e come andrebbe disegnata? Non pensa che si corra il rischio che un Presidente siffatto accentri su di sé troppi poteri? Piero Gobetti, ad esempio, citò il fascismo come “autobiografia della nazione”. Non vede questo rischio?
Il Presidente della Repubblica come è oggi ha già troppi poteri nelle proprie mani, e li esercita spesso contro il volere del Paese, come è stato evidente nella “vicenda Savona”. Essenzialmente, viviamo già in una Repubblica presidenziale, con la differenza, assurda, che noi non eleggiamo il Presidente. La modalità di elezione indiretta ci priva del controllo sull’inquilino del Quirinale, beffandoci platealmente. La ricetta che propongo è la seguente. Anzitutto, la sua elezione deve essere diretta da parte del popolo, fra i candidati proposti dai partiti o eventualmente anche fra qualche candidato indipendente. Inoltre, propongo anche di unificare le figure del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio, riducendone però i poteri. Non sto proponendo l’anticamera dell’“uomo solo al comando”, casomai sto caldeggiando un sistema nuovo in Italia, che impedisca a uno pseudo-re di condizionare il gioco politico iniquamente ed eccessivamente. I padri costituenti vollero proteggere moltissimo il capo dello Stato, accentrando su di lui molti poteri, con il risultato che adesso, come vediamo, ne abusa.
Un capitolo del libro è dedicato alla proposta di un federalismo che non si riconduca alla mera richiesta di crescenti autonomie di impronta leghista, ma che sia al contempo temperato da un efficace ruolo dello Stato centrale. Il modello che persegue è, dunque, quello dei Länder tedeschi e austriaci oppure dei cantoni svizzeri. Ce ne può illustrare le caratteristiche peculiari, nonché le ricadute positive per il Paese che deriverebbero da questa riforma federale dello Stato?
Nel modello che propongo ogni Regione ha, riguardo alle questioni locali, autonomie maggiori di quelle che oggi possiede, controbilanciate da un governo centrale che decide su questioni più generali, che concernono la Nazione nella sua totalità. Il problema di uno Stato non federale è che forza ogni sua suddivisione interna a scelte e ricette politiche, economiche e amministrative, che possono funzionare quando lo Stato stesso è omogeneo, mentre invece non portano beneficio quando lo Stato, come il nostro, presenta differenze notevoli fra le sue varie parti. Gli attriti fra le varie Regioni, compresa la ricorrente questione meridionale, sorgono dal nostro assetto non federale. Ciascuna Regione deve trattenere per sé non tutte le risorse finanziarie che produce, ma in quantità maggiore che nella situazione attuale, affinché tutte siano stimolate a produrre, senza appoggiarsi alle altre. Altresì devono essere introdotte in Costituzione delle clausole in base alle quali i dirigenti regionali paghino di tasca propria per le malversazioni, senza che le Regioni limitrofe siano coinvolte, ingiustamente. In caso di disastri naturali e avvenimenti simili possono esserci donazioni interregionali volontarie per favorire la fratellanza fra le suddivisioni del nostro Paese. Questa riforma che propongo tiene conto delle diversità fra le varie Regioni, ma regola le dinamiche fra esse per non portare il sistema Paese ad una secessione graduale.
Il fenomeno dell’immigrazione è tra i più divisivi nell’opinione pubblica. All’interno del saggio la problematica è declinata anche dal punto di vista religioso: lei è infatti fortemente critico verso l’Islam e i suoi fedeli, dei quali sarebbe strutturalmente impossibile una fattiva integrazione nella nostra società. Propone, pertanto, di modificare diversi articoli della Costituzione. Quali, e in che termini li riformulerebbe?
Mi rendo conto che quel passaggio del mio libro è molto radicale, ma ho le mie ragioni per sostenerne i concetti. Come fu spiegato a suo tempo dal politologo americano Samuel Huntington, di cui cito il pensiero e soprattutto il suo “modello delle civiltà”, con la fine della Guerra Fredda il mondo intero è entrato in un assetto caratterizzato da instabilità diffusa e soprattutto da guerre identitarie, che, come infatti constatiamo, si svolgono anche tramite l’immigrazione. Un’architettura costituzionale intrinsecamente liberal-progressista, che non può vedere le differenze fra i vari gruppi umani, secondo una concezione essenzialmente materialista, non solo è una calamita per gli immigrati da tutto il mondo, ma anzi favorisce il loro stanziamento sul nostro suolo, a nostro esclusivo svantaggio. Per quanto sia brutto da dire, non siamo tutti uguali, e un’Italia popolata corposamente da allogeni non sarebbe più l’Italia. Le tematiche identitarie sono completamente assenti nella nostra carta costituzionale, il che favorisce uno spossessamento della nostra Nazione a vantaggio degli allogeni. Pertanto, dobbiamo modificare gli articoli 8, 18 e 19 per renderli esclusivi nei confronti dei musulmani e di altri allogeni e per sbarrare la strada alla loro azione corrosiva contro la nostra società; occorre altresì installare nella Costituzione stessa un’ampia sezione che stabilisca che cosa sia l’italianità e chi sia italiano, legando tali definizioni, e, conseguentemente, la cittadinanza, a caratteristiche identitarie. Questa modifica ci consentirà di difenderci dalla guerra che stiamo subendo. Se non lo facciamo, rischiamo un’islamizzazione irreversibile. Dobbiamo cambiare la Costituzione per il bene dei nostri figli.
Altra tematica sempre di stretta attualità è rappresentata dal rapporto con le organizzazioni internazionali, in primis ONU e Unione Europea. Rapporto, soprattutto con quest’ultima, di subordinazione per via delle cessioni di sovranità, cui dedica un capitolo del saggio, nonché delle differenti organizzazioni interne dei diversi Stati. Quali sono le riforme – politiche e monetarie – che dovrebbero restituire all’Italia il proprio margine di intervento?
Anzitutto, dobbiamo uscire dalle organizzazioni internazionali che alimentano la nostra sottomissione mediante le cessioni di sovranità. O ci affidiamo a una formazione sovranista che si muova in tale direzione, o modifichiamo l’articolo 75, che appunto vieta i referendum sui trattati internazionali, e ne usciamo, ristabilendo il principio del volere popolare, che negli ultimi decenni è stato abbondantemente offuscato. Inoltre, occorre che gli Stati occidentali, o comunque affini ai nostri, come la Russia di Putin, costruiscano un blocco di Nazioni con il fine di coordinare le politiche comuni, senza cessioni di sovranità o regole economiche assurde, che finora ci hanno intrappolati in una gabbia da cui è difficile uscire. Questo blocco di Nazioni, tra l’altro, sarà la struttura ideale per fronteggiare le civiltà ostili alla nostra. Questa proposta ci rimanda all’“Internazionale Populista” proposta da Steve Bannon.
Mentre scriviamo tiene ancora banco il caso Palamara. Una certa politicizzazione della magistratura, ostaggio di correnti e interessi personalistici, è da tempo entrata nel dibattito politico. Come ovviare?
Gli avvenimenti odierni relativi alla magistratura erano embrionali nel periodo successivo alla stesura del nostro statuto nazionale, occorreva soltanto che maturassero, col tempo, perché esplodessero, come infatti vediamo. Come ho scritto, la parte della Costituzione relativa al CSM e alla Corte Costituzionale non consente riforme efficaci da parte del Guardasigilli, che può intervenire solamente su aspetti molto limitati. La soluzione è rendere tali organi completamente e direttamente elettivi da parte del popolo, e i candidati devono essere scelti fra i laureati in giurisprudenza afferenti a ciascun partito, perché altrimenti siamo in balia di un’élite che non controlliamo minimamente e che confligge apertamente e spavaldamente con gli altri poteri dello Stato. Questo sistema che propongo vincola l’azione e il comportamento della magistratura al voto della gente comune, cui deve rispondere a intervalli di tempo regolari. Soltanto così, con la spada di Damocle del giudizio popolare, sarà costretta a tenere comportamenti corretti e non eversivi.
Si trova d’accordo con la proposta, avanzata anni addietro da Silvio Berlusconi, di un “portavoce” che si esprima per conto del Tribunale, limitando l’esposizione pubblica e mediatica dei magistrati?
Non sarebbe efficace, poiché non risolverebbe il problema di fondo della mancata legittimazione popolare della magistratura. Se le cose rimangono così, questi atteggiamenti, di cui il caso Palamara è soltanto la punta dell’iceberg, permarranno in eterno. Attualmente, i giudici sono élite scelte da altre élite, che non devono rendere conto a nessuno del proprio operato. Sia il CSM sia la Corte Costituzionale sono composti in parte attraverso l’elezione indiretta mediata da altre cariche statali, in parte da altri magistrati. Un sistema con queste caratteristiche non può funzionare, nel lungo corso.
Interpretando il suo pensiero, e parafrasando Sciascia, potremmo parlare di “professionisti dell’antifascismo”: lei evidenzia una sorta di monopolio della memoria da parte di soggetti quali l’ANPI, accusandoli di fomentare interessi di parte e di offuscare il forte contributo che alla Resistenza fu dato da altre parti politiche, creando perciò una «dittatura del pensiero unico» e talvolta una vera e propria censura. Ci può portare qualche esempio pratico?
Alla dittatura del pensiero unico ho dedicato il capitolo più lungo del libro, perché presenta molte sfaccettature. Una delle componenti principali, appunto l’antifascismo, assieme all’ossessione delle grandi tragedie del Novecento, serve a condizionare il dibattito politico e spesso anche la società. La definizione di “fascismo” della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione è talmente vaga che in pratica la sinistra, grazie anche alla propria egemonia culturale, incasella in tale definizione chiunque non le vada a genio. Nel corso dei decenni questa “fascistizzazione dell'avversario” si è rivelata il modo più efficace per delegittimare e zittire l’avversario politico, sebbene, nella pratica, comporti la violazione dell’articolo 21, che appunto garantisce la libertà d’espressione e la tutela contro la censura. Pertanto, le prevaricazioni che negli anni abbiamo visto da parte dei sedicenti antifascisti e da parte dei post-partigiani sono un atto illegale, che la magistratura non vede o piuttosto non vuole vedere, essendo schierata dalla stessa parte politica. Ma la dittatura del pensiero unico si manifesta anche con il pacifismo, che mira a disarmarci contro le minacce esterne, con l’antirazzismo, che sempre più spesso si profila come un razzismo nel verso opposto, cioè contro i bianchi, con il terzomondismo, che, sotto la lente d’indagine, corrisponde essenzialmente a un revisionismo storico a nostro svantaggio, e con le altre componenti di questo complesso bavaglio ideologico applicato alla collettività, con fini di controllo sociale. Molti dei pezzi di questo grande mosaico finalizzato alla censura hanno una legittimazione nella Costituzione, benché la maggioranza di noi non se ne renda conto. Finché non ci accorgiamo di questo fatto, la dittatura del pensiero unico continuerà a esistere, opprimendoci tutti in eterno.
Un cavallo di battaglia dei partiti e dei movimenti che si presentano come antisistema è rappresentato dalla riduzione dei costi della politica. Tuttavia, all’atto pratico, è sempre mancata una vera e sostanziale riforma degli stessi. Qual è la sua proposta in merito?
Il problema di fondo è che lo stipendio delle cariche pubbliche è formulato da leggi ordinarie, che quindi possono essere facilmente alterate da ogni governo. Non possiamo fissare lo stipendio dei politici con un valore fisso, poiché nel giro di alcuni anni l’inflazione lo polverizzerebbe. Propongo di inserire in Costituzione che lo stipendio dei politici sia proporzionale, secondo un numero che dobbiamo scegliere oculatamente, a quello dell’italiano medio, secondo le fonti dell’ISTAT. Questa riforma costituzionale non solo impedirà alle cariche pubbliche di aumentarsi lo stipendio impunemente, ma le obbligherà anche ad aumentare la ricchezza degli italiani, se vorranno guadagnare di più, proprio in virtù del fattore di proporzionalità. E difficilmente potranno falsare i dati dell’ISTAT, perché è un ente molto controllato, e un eventuale imbroglio non avrebbe vita lunga. Se vogliamo regolare i costi della politica, dobbiamo seguire questa strada.
Il suo approccio riformatore si scontra con un forte deterrente, sintetizzato nella formula del «culto della Costituzione», una sorta di maschera di quel pensiero unico di cui parla, che tende a reprimere le voci del dissenso. Può fornirci un esempio di tale culto che lo qualifichi come irrazionale o antistorico?
La critica al culto della Costituzione permea tutto il mio libro, non ne tratto solo nel capitolo apposito sulla dittatura del pensiero unico. I padri costituenti crederono di aver stilato una Costituzione tanto perfetta che la loro retorica, così come quella dei loro epigoni attuali, non ammetteva critiche di alcun tipo ad uno statuto nazionale considerato fuori dal tempo e inattaccabile sotto ogni punto di vista. Tale culto della Costituzione è servito a delegittimare chiunque la criticasse, o anche solo ne discutesse, affinché ogni dibattito sull’inadeguatezza della Costituzione stessa, scritta negli anni Quaranta, ai problemi dei nostri giorni fosse stroncato sul nascere. Gli insigni costituzionalisti Rodotà e Zagrebelsky sono l’esempio più evidente di questa retorica. Sono talmente obnubilati da questo culto della Costituzione da opporsi, anche nei salotti televisivi, a qualunque riforma sia proposta, e non ammettono nemmeno un dibattito sull’argomento, irragionevolmente. Non riescono a concepire alcun cambiamento di essa proprio perché sono intrisi di questo fanatismo per la preservazione assoluta e incondizionata del nostro statuto nazionale, deificato sopra ogni misura, che è stato tramandato dai tempi dei padri costituenti fino ai complicati giorni nostri. Poiché, come spiego nel mio libro, la nostra Costituzione è servita, negli ultimi settant’anni, a sostenere tutte le linee politiche di stampo mondialista e liberal-progressista, il culto associato ad essa la protegge da eventuali riforme, che, pertanto, se fossero applicate, minerebbero alle fondamenta quelle tendenze politiche medesime. Se vogliamo uscire da questa gabbia in cui, spesso senza rendercene conto, siamo rinchiusi da decenni, dobbiamo avere la forza di riformare la Costituzione, e, per fare ciò, dobbiamo ribellarci al culto associato ad essa, che ci preclude di vedere che i problemi odierni traggono origine da essa.
Il suo testo si caratterizza per una difesa radicale della religione cattolica. Ma la solidarietà per chi soffre, in particolar modo gli immigrati, non emerge con altrettanta forza. Non vede in ciò una contraddizione?
Sono ateo, ma ritengo utile il Cristianesimo poiché definisce una notevole parte della nostra identità. Con la fine dell’Impero Romano, nel passaggio dall’età antica al Medioevo, le nuove statualità romano-barbariche e le autorità ecclesiastiche si resero conto che, al netto di numerosi altri fattori, l’universalismo cristiano, questo amore per l’altro, aveva reso i romani poco inclini a combattere e a difendere il proprio Paese. Perciò, per rimediare a questi difetti del Cristianesimo, successivamente fondarono i primi ordini di monaci guerrieri e limitarono l’amore per l’altro a chi fosse autoctono. Sotto molti aspetti, questi emendamenti andarono contro i principi cristiani ancestrali, ma, se non li avessero varati, il Cristianesimo non sarebbe durato molto oltre quei tempi. In effetti, queste modifiche furono mantenute fino alla rivoluzione sessantottina del XX secolo, che le ribaltò completamente, riportandoci all’universalismo cristiano senza frontiere né distinzioni di alcuna sorta. I suoi effetti sono ben visibili oggi, con l’ideologia dell’accoglienza e l’antirazzismo, che inducono le persone ad amare le minoranze di ogni tipo e chiunque entri nei nostri territori, portando la nostra civiltà al suicidio. Tale universalismo cristiano fu accompagnato dalla quasi scomparsa della pratica del culto, determinando un post-Cristianesimo, un’ideologia non tanto religiosa, quanto socio-politica, che abbraccia anche le persone che tengono la fede in ambito personale o che si dichiarano atee, manipolandole per imporre loro l’immigrazionismo, il multiculturalismo e altri aspetti della dottrina mondialista, sotto la copertura, appunto, dell’amore per l’altro. Dobbiamo riaffermare i valori che sussistevano prima del nefasto 1968, perché, se continuiamo ad accogliere allogeni, i costi sociali, come la delinquenza di massa e il terrorismo, i costi economici, come le rimesse, l’abbassamento dei salari e il saccheggio dei nostri sussidi, i costi logistici, come la colonizzazione di alloggi popolari e di interi quartieri, determineranno, nel lungo corso, un sempre più marcato spossessamento, fino alla nostra fine. E poco importa se siano migranti economici o rifugiati, perché i due gruppi hanno le stesse statistiche criminologiche e le medesime dinamiche comportamentali. È assurdo che, in nome dell’amore per l’altro, in questo caso rappresentato da un migrante o da un rifugiato, visti come vittime, noi diventiamo vittime di queste vittime. E l’Italia, come il nome riporta, appartiene agli italiani. Oggi, dicendo una frase del genere, rischiamo un linciaggio mediatico da parte delle nostre élite, ma esprime un concetto assolutamente vero. Se vogliamo uscire da questa spirale di privazione, contemporaneamente all’azione di un nutrito movimento di opinione che sostenga politiche sovraniste e identitarie, dobbiamo modificare la Costituzione, introducendo a chiare lettere una corposa sezione che codifichi la nostra identità, affinché la possiamo difendere più efficacemente, ed eliminando l’articolo 10, che ci obbliga ad accogliere tutti coloro che nel loro Paese di origine non possono godere di libertà democratiche analoghe a quelle che la nostra Costituzione garantisce. L’articolo 10, nei fatti, è una calamita per gli immigrati da tutto il mondo; se non lo abroghiamo, rischiamo seriamente, nel lungo corso, una sostituzione etnica. La riforma della Costituzione che sollecito nel libro deve rimettere al centro gli italiani e non un’entità cosmopolita internazionalista che miri ad annullare la nostra identità.
Fulvio Mazza
(direfarescrivere, anno XVII, n. 187, settembre 2021)
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