Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
In primo piano
50 anni fa il “Golpe Borghese”:
un denso saggio di Fulvio Mazza
Pellegrini editore pubblica la 2a edizione del “Quarto grado
di giudizio”. Fra i tristi protagonisti: Andreotti, Gelli, Maletti…
di Guido Salvini, Giovanni Pellegrino, Guglielmo Colombero e Alessandro Milito
Sul numero di novembre 2020 di questa nostra rivista abbiamo pubblicato una corposa recensione di Guglielmo Colombero, praticamente un saggio breve, al volume Il Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadership di Gelli, il “golpista” Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti” (pp. 272, € 16,00), scritto dallo storico Fulvio Mazza, edito da Pellegrini.
Nel marzo 2021 è stata pubblicata la seconda edizione del libro (pp. 304, €. 16,00) riveduta e ampliata in base all’acquisizione di diverse fonti inedite emerse in occasione del 50° anniversario stesso. Il titolo è: Il Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadership di Gelli, il golpista Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti”.
Come si sarà notato, nel titolo della seconda edizione sono cadute le virgolette al termine “golpista” attribuito ad Andreotti.

Su questa seconda edizione, nel giugno dello stesso 2021, sulla rivista Bottegascriptamanent (www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=2456) è stata pubblicata un’importante intervista a Giovanni Pellegrino, Presidente della Commissione stragi. La riportiamo qui di seguito, per consentire al lettore una migliore visione d’insieme.

Il Golpe Borghese:
la verità giudiziaria e quella storica
di Alessandro Milito


Partendo dal libro di Fulvio Mazza, intervistiamo l’avvocato
Giovanni Pellegrino, Presidente della Commissione stragi



Intervistare l’avvocato Giovanni Pellegrino, il temuto Presidente della Commissione stragi (che operò, nella sua seconda fase, dal 1994 al 2001), è, oltre che un onore, una responsabilità non da poco. Non è semplice. Dialogare con colui che, insieme a pochissimi altri in Italia, conosce nei particolari le varie vicende storiche, politiche e giudiziarie che hanno contraddistinto quegli anni significa toccare molti dei più delicati punti della nostra storia repubblicana.
E il Golpe Borghese, che fu tentato nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970, rientra appieno in questo contesto. Il tentato golpe, sino all’uscita del volume qui trattato, era avvolto nella nebbia di molti misteri che ora appaiono invece per gran parte risolti.
Non a caso il magistrato Guido Salvini, autore di fondamentali indagini risultate in altrettanto fondamentali Sentenze sui fatti di quegli anni, ha scritto che «Il saggio di Fulvio Mazza […] fornisce, nel cinquantennale del tentativo di golpe, una risposta ragionata a tutti gli interrogativi posti dagli avvenimenti del 7-8 dicembre 1970».
Ovviamente, non significa che questo libro abbia detto tutto ciò che c’era da dire in merito e che quindi non siano necessarie ulteriori ricerche storiche. Vi sono difatti numerosi aspetti da dover ancora approfondire, ed è il testo stesso a metterli in evidenza. Un esempio per tutti: il falso giudiziario contenuto nel terzo “Malloppino” in cui si descriveva una riunione che si sarebbe svolta in una data che era ancora di là da venire: una vera e propria preveggenza!
Va però evidenziato come il saggio abbia aggiunto diversi nuovi dati e interpretazioni, grazie all’utilizzo di fonti inedite o che comunque non erano state sufficientemente verificate con la giusta attenzione e spirito critico.
Ma torniamo all’avvocato Pellegrino ricordando come, da Presidente della Commissione stragi, abbia, in numerosi casi, contribuito in maniera determinante a far luce sui punti più oscuri di quelle vicende. O di come abbia permesso di produrre documenti fondamentali per gli studiosi interessati a ricostruire la verità di quegli anni. È questo il caso de Il Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadership di Gelli, il golpista Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti” (Pellegrini editore, seconda edizione, 2021, pp. 304, € 16,00), il cui autore, lo storico e saggista Fulvio Mazza, si è avvalso, per l’appunto, (anche) dei materiali della Commissione.
È quindi con la stima che si deve alla personalità dell’avvocato Pellegrino che ha così tenacemente contribuito a far emergere la verità degli anni delle stragi che abbiamo condotto quest’intervista, la quale, ci auguriamo, si rivelerà utile e illuminante per il lettore.

Presidente, il saggio, sin dal suo titolo, parla della necessità di una sorta di provocatorio “Quarto grado di giudizio” in quanto la verità giudiziaria, nel caso del Golpe Borghese, è molto differente rispetto a quella storica. Lei condivide tale necessità?
Non c’è alcun dubbio che sia andata proprio così. D’altra parte la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi fu costituita proprio perché la risposta giudiziaria era del tutto insoddisfacente e quindi era sorta la necessità di far chiarezza sugli anni delle stragi, della Strategia della tensione, e appunto sul Golpe Borghese.
L’azione depistante e censoria di Maletti e di Andreotti, come giustamente è evidenziato nel libro, determinò una carenza di verità che la nostra Commissione era chiamata a risolvere.

Il libro mette in evidenza come il Golpe Borghese sia stato definito da più parti un “Golpe da operetta” e, dalla Cassazione, un «complotto di pensionati sostanzialmente inoffensivi».
Il saggio mette invece in evidenza la pericolosità del Golpe e, in particolare, sottolinea come Junio Valerio Borghese non fosse uno sprovveduto dal punto di vista della preparazione militare. Di conseguenza, non si sarebbe mai messo alla testa di un complotto del genere se non avesse avuto una certa sicurezza di portarlo vittoriosamente a termine. Alla luce della sua esperienza di Presidente della Commissione stragi, che conclusioni ha tratto su questo punto?

Junio Valerio Borghese era un “uomo d’arme”, non certo uno sprovveduto. Ricordo che era un militare di grande esperienza. Non dimentichiamo che rifondò nella Repubblica sociale italiana la X Mas e che questa fu una delle strutture militari più efficienti della Rsi. Non era uno sprovveduto nemmeno in ambito politico. Ricordo che riuscì a mantenere una posizione di autonomia rispetto ai tedeschi e anche rispetto al governo di Mussolini stesso, e che riuscì a sottrarsi alla giustizia partigiana accordandosi con i Servizi segreti angloamericani.
Ebbene, un personaggio del genere non poteva di certo avventurarsi in un Golpe che non avesse avuto concrete possibilità di successo.

Borghese morì nell’agosto del 1974, proprio quando stava preparando il suo ritorno in Italia (tale suo progetto era ben noto) e proprio mentre Maletti e Andreotti stavano spulciando il rapporto del Sid (Servizio informazioni difesa) del 26 giugno precedente per stabilire cosa inserire e cosa censurare nel testo che avrebbero poi consegnato alla Magistratura il 15 settembre successivo. In quei giorni, dunque, mentre Maletti e Andreotti stabilivano cosa far sapere o meno alla Magistratura, Borghese improvvisamente morì. In tal modo si evitò il rischio che potesse chiamare in causa, per esempio, le persone salvate proprio da Maletti e da Andreotti. Non le pare una coincidenza un po’ strana? Il libro sostiene l’ipotesi che si sia trattato di un assassinio. Lei come la pensa?
Concordo anche su questo punto: in particolare fu Stefano Delle Chiaie a insistere molto circa la forte probabilità che Borghese fosse stato ucciso da un caffè avvelenato. In effetti, se fosse tornato in Italia avrebbe probabilmente scatenato un terremoto politico-giudiziario spiegando il coinvolgimento di diverse persone nel Golpe, ivi comprese quelle che, grazie ai depistaggi di Maletti e Andreotti, erano riuscite a farla franca. Ricordiamo che il 1974 è un anno cruciale, in quanto è quello della Rivoluzione dei garofani in Portogallo e della caduta dei colonnelli greci.
Se fosse tornato in Italia, Borghese avrebbe potuto mettere in crisi tutta l’azione depistante e censoria di Maletti, Andreotti, ecc.

Nel saggio si racconta di come lei riuscì a fare ammettere a Maletti l’appoggio sostanziale che i Servizi segreti, e lo Stato in generale, diedero ai golpisti e il perché di un tale sostegno. Questa tesi, nel libro, viene definita “Dottrina Maletti”. Condivide tale neologismo storico-politico?
Sì, possiamo chiamarla “Dottrina Maletti”. Ma, al di là delle denominazioni, è stato importante sentire da Maletti la conferma dell’ipotesi che si era andata delineando.

Ci può descrivere tale “Dottrina”?
Certamente. Lo faccio riportando lo stesso brano presente nel libro che riporta quanto dissi allora e quanto ribadisco adesso:
«Ora, quando abbiamo sentito il generale Maletti, io ho formulato al generale un’ipotesi […] che in realtà l’origine dello stragismo va individuata nell’esistenza in Italia di una serie di reti operative, alcune ufficiali, come era il Sid, altre semiufficiali, come poteva essere Gladio, e altre reti; che queste reti avevano come terminale periferico uomini dell’estremismo di destra, io dico della destra radicale, che con ogni probabilità sono questi a commettere le stragi e lo fanno, però, non per aver ricevuto un input dall’alto ma probabilmente anche per logiche di attivismo autonomo o per deviazioni da piani concordati.
L’ipotesi si completa nella valutazione che queste persone sono state coperte – e quindi per queste ragioni i colpevoli dello stragismo non sono stati individuati – non perché in se stesse meritassero protezione, ma perché si volevano coprire le responsabilità istituzionali e politiche del rapporto anteriore che queste persone avevano avuto con queste reti ufficiali o clandestine […]. Devo dire che il generale Maletti ha asseverato questa ricostruzione».

In che contesto avvennero tali ammissioni di Maletti?
Queste affermazioni furono fatte da Maletti a Johannesburg, in Sudafrica, quando ci recammo con la Commissione stragi nel 1997.
Fu una visita molto dibattuta perché ci accusarono di essere scesi a patti con un latitante, ma sono ben soddisfatto di questa scelta, sia perché emersero questi e altri dati fondamentali sugli anni delle stragi, sia perché facemmo da apripista per una sorta di pellegrinaggio giudiziario che caratterizzò altre visite a Maletti da parte di diversi inquirenti italiani.

Le grandi censure al “Malloppo originario” delle indagini scaturite dall’infiltrazione del capitano del Sid Antonio Labruna all’interno del mondo golpista (e da qualche altro sparuto atto procurato da ulteriori agenti del Sid) furono attuate da Maletti nei primi mesi del 1974, tanto che il documento del 26 giugno di quello stesso anno contiene molto meno materiale rispetto a quanto originariamente era stato presentato allo stesso Maletti. Per fare un esempio, potremmo evidenziare la censura che salvò l’ammiraglio Giovanni Torrisi e come, nel suddetto documento del 26 giugno, non ci fosse alcun riferimento al ruolo di Licio Gelli in generale e, in particolare, al progetto di rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Il libro cambia le denominazioni date ai documenti dai giornalisti e acriticamente recepite dagli storici. Ciò avviene in quanto sinora il documento del 26 giugno veniva definito il “Malloppone”, mentre nel libro viene chiamato “Malloppastro” per specificare come fu un testo tagliato e denaturato che, dunque, non può definirsi logicamente “Malloppone” poiché quest’ultimo termine dà piuttosto l’idea di un testo molto corposo.
Volendo mettere in ordine anche le terminologie, concorda dunque nella differenziazione in “Malloppo originario” per indicare la grande quantità di documenti inizialmente prodotti da Labruna e altri, in “Malloppastro” per identificare il testo che scaturì dalle prime censure di Maletti, e a confermare la denominazione di “Malloppini” per definire i documenti esili che alla fine furono consegnati, dopo le ulteriori censure di Maletti (e di Andreotti) il 15 settembre 1974 alla Magistratura?

In effetti definire “Malloppone” quel testo che era nato monco a causa dei tagli che Maletti aveva fatto al rapporto di Labruna e altri è un po’ un controsenso, il termine “Malloppastro” si confà di più.
Ma, al di là delle denominazioni, il libro ha fatto bene a mettere in evidenza che il corposo rapporto di Labruna (corroborato da qualche documento di altri agenti) può essere denominato “Malloppo originario”, perché è il punto di partenza che si concluderà, censura dopo censura, nei tre esili fascicoli giustamente definiti i “Malloppini”.

La Storia si fa con i “se”. Se così non fosse, sarebbe una pura cronologia. I “se” sono necessari a interpretare.
In virtù di ciò, se Maletti e Andreotti non avessero bloccato la trasmissione alla Magistratura dei documenti provenienti dal “Malloppo originario”, e se la Corte di Cassazione non avesse tolto le indagini ai magistrati di Padova e di Torino (designando il “Porto delle nebbie” di Roma come unica Procura competente), non pensa che si sarebbe giunti con una certa facilità a individuare le trame del Golpe Borghese? Non pensa che si sarebbero bloccate sul nascere anche quelle cospirazioni successive che nel libro vengono definite lo “sciame golpista” degli anni 1971-74?
Non pensa che in questo modo l’Italia si sarebbe risparmiata stragi, decine e decine di morti, sangue e violenze?

Sì, è ben probabile che senza i depistaggi e le censure, e senza la determinazione della Cassazione che lei ha citato, molte stragi, attentati, omicidi e molto sangue innocente sarebbero stati risparmiati.

Nel libro emerge la figura del capitano Antonio Labruna in modo differente da come è stato solitamente disegnato. Emerge come un uomo coraggioso e caparbio che, rischiando la pelle in prima persona, si infiltrò fra i golpisti, ne denunciò le trame e divenne una sorta di vittima sacrificale dovuta alla vendetta dei neofascisti. Pur non esentandolo da critiche, emerge anche come un uomo ligio agli ordini che, come scrisse il giudice Salvini, nessuno volle difendere e perciò finì per diventare un “capro espiatorio” di tutte le malefatte del Sid. Condivide questa sorta di riabilitazione?
Sì, Labruna fu una vittima inconsapevole di questo meccanismo. Fece il suo dovere infiltrandosi negli ambienti fascisti e traendo informazioni importanti, però poi fu abbandonato alla prima difficoltà. Anche perché era andato a toccare ambienti e nomi che il Sid, e in generale il potere costituito di allora, non voleva assolutamente fossero toccati. Labruna ha subito una damnatio memoriae che va contrastata.

Nel libro si mette in evidenza come la sinistra, per i generali dell’Esercito italiano, fosse il nemico. Condivide questa tesi?
Purtroppo era così. Ricordo in particolare due audizioni della nostra Commissione.
Ricordo come il Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica (e poi della Difesa), il generale Mario Arpino, spiegò che ancora nel 1980 un terzo del Parlamento italiano era per i militari considerato “il nemico” e come Maletti evidenziò che, fino al 1974, nessuno gli aveva mai detto che il compito degli apparati di sicurezza era anche quello di tutelare la Costituzione. Siamo negli anni che Cossiga definì di “Guerra mondiale a bassa intensità”. Per capire gli avvenimenti di allora dobbiamo tenere presente questi fattori e anche, in particolare, il fatto che l’equilibrio politico in Italia era in quegli anni basato su di un patto di indicibilità e in qualche modo di reciproca ipocrisia: ciascuno sapeva dei legami illegali dell’altro, ma non li denunciava apertamente. Le due parti si attaccavano vicendevolmente senza esagerare. Il governo era perfettamente a conoscenza dei finanziamenti che pervenivano dall’Urss al Pci; così le sinistre sapevano delle illegalità istituzionali commesse dagli apparati di sicurezza e avallate da uomini di vertice della Dc. Questo era il clima e il sistema della Costituzione materiale di allora.

Come va inquadrato il ruolo di Andreotti?
Andreotti è uno dei politici che ha più e meglio rappresentato questo quadro storico-istituzionale. La sua connivenza, e probabilmente anche complicità verso il Golpe, non mi meraviglia affatto.

Stesso dicasi dunque per il Pci, partito estremamente cauto nella denuncia del Golpe pur avendo avuto informazioni immediate e dirette circa il Golpe stesso e che invece fece filtrare la notizia solo dopo tre mesi?
Sostanzialmente sì: attaccò fortemente il governo ma senza esagerare. Ed evitò di personalizzare gli attacchi contro Andreotti con il quale ebbe sempre un filo di particolare dialogo.

Parliamo del “Contrordine” che fu emanato da Borghese dopo aver ricevuto una misteriosa telefonata. Alcune attendibili piste documentarie e testimoniali portano a concludere che a chiamare il Comandante fu Licio Gelli. Altre fonti, ugualmente attendibili e sempre documentarie e testimoniali, accreditano invece la tesi che fu Giulio Andreotti. Nel libro viene evidenziato che non si tratta necessariamente di due piste alternative ma che potrebbero essere convergenti in quanto entrambi i personaggi erano portatori di istanze similari.
Lei condivide questa ipotesi?

Andreotti e Gelli erano personaggi diversissimi l’uno dall’altro ma, nella sostanza, si mostrarono spesso portatori di interessi convergenti. Nulla di più probabile, dunque, che – una volta constatata la defezione dei Carabinieri e degli Usa – si siano coordinati fra di loro per ingiungere a Borghese l’emanazione del famoso “Contrordine”.

Alessandro Milito

(www.bottegascriptamanent.it, anno XV, n. 165, giugno 2021)


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Analogamente, dopo l’intervista e prima della recensione di Colombero, riportiamo un altro assai interessante contributo sull’argomento: una recensione stilata da Guido Salvini che, come è noto, è stato uno dei magistrati che ha più e meglio indagato e sentenziato sull’argomento e sulle sue gravi interconnessioni con le stragi di quegli anni (Piazza Fontana in primis).
La recensione, pubblicata su Bottega Scriptamanent (www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=2449&ricerca=) viene qui riprodotta al fine di consentire al lettore una migliore visione d’insieme.

Il Golpe Borghese
fu un pericolo vero

di Guido Salvini

La seconda edizione del libro evidenzia, tra l’altro,
il coinvolgimento di Andreotti e Gelli e i depistaggi del Sid


Il saggio di Fulvio Mazza, Il Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadership di Gelli, il golpista Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti”, fornisce, nel cinquantennale del tentativo di Golpe, una risposta ragionata a tutti gli interrogativi posti dagli avvenimenti del 7-8 dicembre 1970.
Innanzitutto la gestione politica (e giudiziaria) viene nel libro messa a nudo con il racconto in presa diretta della costituzione nel 1968 del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese e della perfetta conoscenza che il Sid aveva dei suoi progetti, tramite soprattutto l’azione del cap. Labruna che dal 1973 era riuscito far parlare alcuni congiurati, a partire dal costruttore Remo Orlandini, fingendo la piena adesione sua e dei suoi superiori al piano. I congiurati gli avevano raccontato in dettaglio non solo quanto era avvenuto la notte del 7 dicembre 1970 ma i nuovi piani golpistici che ancora sino all’estate del 1974 venivano coltivati nel progetto denominato “Rosa dei Venti”.
La gestione di questa massa di notizie da parte del Sid era stata un filtraggio molto accorto.
Nell’impossibilità di nascondere alla magistratura tutto quello di cui era venuto a conoscenza, non dimentichiamo che l’indagine sulla “Rosa dei Venti” condotta a Padova del giudice Giovanni Tamburino stava giungendo al cuore dei progetti eversivi, prima il gen. Maletti e poi l’on. Andreotti, allora Ministro della Difesa, avevano selezionato e depurato le informazioni raccolte dal cap. Labruna.
Così l’originario “malloppo” documentario si era trasformato in un “malloppo” più piccolo (che è passato alla storia con la denominazione di “malloppone”, ma che – ad onta del nome – era in effetti una documentazione smagrita), per opera del gen. Maletti e poi, di concerto con il Ministro alla Difesa, in tre esili malloppini che erano stati consegnati nel settembre 1974 alla Procura di Roma, certo meno “pericolosa” rispetto al magistrato padovano.
Così era sparito dall’organigramma dei progetti eversivi il ruolo di alti ufficiali, tra di essi l’amm. Giovanni Torrisi destinato poi a diventare capo di Stato Maggiore della Difesa, il ruolo di Licio Gelli che nel progetto del 7-8 dicembre aveva il compito di neutralizzare il Presidente della Repubblica, il ruolo della struttura occulta di Avanguardia Nazionale diretta da Stefano Delle Chiaie e l’appoggio ai piani eversivi delle più importanti famiglie della ’ndrangheta calabrese. In più era scomparso ogni riferimento allo stesso direttore del Sid gen. Vito Miceli, contiguo ai golpisti e di cui guardava con benevolenza i progetti tanto da essere arrestato nell’ottobre 1974 proprio dal giudice Tamburino.

Sappiamo tutto questo e con certezza perché quasi vent’anni dopo, il 7 novembre 1991, il cap. Labruna aveva portato al mio ufficio, l’Ufficio Istruzione, una vecchia borsa impolverata che conteneva i nastri, grosse bobine magnetiche di quel tempo, con la registrazione dei molti suoi colloqui con i congiurati che gli avevano rivelato tutto. Erano i nastri originali che Labruna aveva conservato per tanti anni, non quelli sottoposti alla potatura dalla direzione del Sid e dall’autorità politica per salvare gli aspiranti golpisti che andavano protetti. Li abbiamo fatti trascrivere e in quelle conversazioni, con tanto di ruoli e di circostanze, emergevano i nomi, alcuni li ho indicati, tutti li troviamo nel saggio, di coloro che, ai più alti livelli, erano stati salvati dall’incriminazione.
Bisogna riconoscere che l’azione di infiltrazione del cap. Labruna era stata brillante sul piano investigativo e psicologicamente intelligente. Non si può ritenere che egli fosse complice dei golpisti, al contrario, e lo ricorda bene e forse per la prima volta Fulvio Mazza, il capitano fu tradito dai suoi superiori e alla fine pagò per tutti con i processi e la degradazione. Così, rendendo pubblici quei nastri il cap. Labruna, pochi anni prima di morire, ha riabilitato pubblicamente la sua figura.

Parlando della risposta giudiziaria, l’assoluzione da parte della Corte di Assise di Roma di tutti gli imputati accusati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato era stata poi in piena consonanza con la presentazione riduttiva del progetto eversivo da parte del Sid, e anche oltre visto che erano stati assolti anche gli imputati rei confessi.

Quanto al possibile appoggio degli americani l’autore evidenzia, come confermano anche le carte desecretate pochi anni fa negli USA, che Borghese aveva preso ripetuti contatti con l’ambasciata americana a Roma e che i nostri alleati atlantici sapevano tutto di quanto si stava progettando. Tuttavia la risposta statunitense era stata più che scettica. Al più gli Stati Uniti potevano dare il loro appoggio ad un intervento più limitato con la costituzione di un governo forte presieduto da un esponente DC di loro fiducia, con la prospettiva di indire nuove elezioni dalle quali magari fossero escluse le liste comuniste. Ma non condividevano il progetto di un golpe vero e proprio e questo per la mancanza di una vera leadership militare italiana in grado di governare. In sostanza non era possibile fare in Italia come ad Atene nell’aprile 1967. La mancanza di un appoggio atlantico è stata con ogni probabilità la ragione profonda del fallimento dell’operazione. Fine giunta, alle prime ore dell’8 dicembre, con il “contrordine” sia esso attribuibile, come scrive Mazza, a Gelli o a Andreotti. Non è escluso però, aggiungiamo noi, che un messaggio in tal senso possa essere giunto anche dai Comandi dei Carabinieri annunciando la loro defezione dall’operazione.

Tra le altre vicende affrontate nel saggio c’è la morte del comandante Borghese in Spagna il 26 agosto 1974. Una scomparsa avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite ma comunque provvidenziale perché proprio in quelle settimane il Sid con il gen. Maletti si apprestava a far pervenire alla magistratura le sue informative sui progetti di golpe dal 1970 al 1974, il cd “malloppino” depurato dai nomi più imbarazzanti ed un paventato ritorno del comandante Borghese in Italia avrebbe potuto rivelarsi assai scomodo per gli alti militari e i nomi più importanti che erano stati salvati da un possibile intervento della magistratura.

Fulvio Mazza ricorda anche la scomparsa del giornalista de L’Ora di Palermo Mauro de Mauro, avvenuta il 16 settembre 1970, appena tre mesi prima del tentativo del 7 dicembre. De Mauro, per i suoi trascorsi giovanili proprio nella X Mas di Borghese, probabilmente aveva raccolto informazioni su quanto si stava preparando e il suo lavoro poteva essere quindi pericoloso per i progetti golpisti.

Inoltre l’atteggiamento e la scelta del Pci che molto probabilmente aveva avuto notizia di quanto stava avvenendo in tempo reale e comunque ben prima dello scoop di Paese Sera del 17 marzo 1971. Il partito, con una precisa scelta politica, aveva tuttavia deciso di far comprendere all’esterno di essere al corrente del pericolo corso solo con qualche articolo volutamente criptico sul quotidiano l’Unità e aveva nel contempo aumentato la “vigilanza” dei suoi militanti. Questo per non provocare subito una reazione dei settori filo-golpisti delle Forze armate che, di fronte all’esplosione del caso, avrebbero potuto intraprendere una reazione violenta e ancor più pericolosa.

Il saggio è corredato dalla riproduzione delle più importanti relazioni del Sid concernenti la preparazione del golpe, difficilmente accessibili ed in parte inedite, e da una dettagliata cronologia degli avvenimenti di quei giorni, dalle prime ore del 7 dicembre 1970 sino al contrordine, giunto intorno alle ore 1.40 dell’8 dicembre, e alla ritirata dei congiurati. Infine Fulvio Mazza, sulla base dei dati disponibili dopo lunghi anni di ricerche e di indagini giudiziarie, stima l’entità dei militari, anche di alto grado, e dei civili che furono coinvolti nel complotto in 20.000-40.000 persone. Una forza per niente disprezzabile. Tutt’altro, in conclusione, che un golpe da “operetta” progettato da “quattro generali in pensione” ma un capitolo della storia italiana da non dimenticare perché ha ancora non poco da insegnarci.

Insomma: un libro decisamente buono e ben documentato.

Guido Salvini
Magistrato

Fulvio Mazza, Il Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadership di Gelli, il golpista Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti” (Pellegrini editore, seconda edizione, 2021, pp. 304, € 16,00).
(www.bottegascriptamanent.it, anno XV, n. 164, maggio 2021)


Qui di seguito, si può leggere la recensione del critico letterario Guglielmo Colombero alla prima edizione del volume stesso.

50 anni fa il “Golpe Borghese”: un denso saggio di Fulvio Mazza
Per Pellegrini editore una sorta di provocatorio “Quarto grado di giudizio”.
Fra i tristi protagonisti, Andreotti, Gelli, Maletti…


di Guglielmo Colombero


Nel saggio Il Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadership di Gelli, il “golpista” Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti” (Pellegrini editore, pp. 272, € 16,00) viene affrontato, con grintoso spirito giornalistico, un argomento particolarmente delicato e spinoso: la ricostruzione di quanto accadde nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970, quando le istituzioni democratiche del nostro paese rischiarono di essere violentemente sovvertite dai neofascisti guidati dall’ex comandante della X Mas, Junio Valerio Borghese, e manovrati nell’ombra dal “Gran Maestro” della loggia massonica deviata P2 Licio Gelli. Il tutto con la probabile (la documentazione è credibile, ma non è sufficiente per dare una parola definitiva) complicità di Giulio Andreotti.

L’autore è il nostro direttore Fulvio Mazza, che non avrebbe bisogno di ulteriori presentazioni, ma del quale evidenziamo comunque come sia un affermato storico contemporaneista, con, al suo attivo, numerosi saggi editi, fra gli altri, da: Esi, Franco Angeli, Istituto della Enciclopedia italiana (“Treccani”), Laterza, Pellegrini, Rubbettino (cfr. https://opac.sbn.it/opacsbn/opaclib;jsessionid=87A71733BAE715CDFC7E06D37869B2D3).

Il saggio nasce e si verifica anche e soprattutto tramite la documentazione, spesso inedita, proveniente da varie fonti: innanzitutto il Sid, la Commissione parlamentare P2 e la Commissione parlamentare stragi. Una documentazione che viene anche riportata per alcuni atti più qualificanti.

La demonizzazione dei “rossi” come “Antefatto” e pretesto del “Golpe”
Il primo dei quattro capitoli si occupa di esaminare i fatti, la cui trattazione è approfondita in dieci paragrafi.
Nel primo paragrafo, Il contesto politico: per le Forze armate il Pci e la sinistra sono i nemici e la Dc non riesce più a garantire l’ordine costituito. L’influenza delle vicine dittature, l’autore analizza i presupposti della cospirazione: la pulsione golpista fermenta all’interno di una «classe arrogante che avvertiva come prossimo il termine del proprio potere di casta». Il teorema è suggestivo quanto verosimile: il “Golpe Borghese” come ultimo colpo di coda di un’oligarchia agonizzante, che, non potendo più contare sulla prevalenza degli elementi più conservatori all’interno della Democrazia cristiana dopo la caduta del governo Tambroni, punta a riprodurre in Italia una situazione analoga a quella della Grecia dei colonnelli, dove tre anni prima, con il pretesto di una (inesistente) minaccia comunista, una cricca di militari corrotti (finanziati dietro le quinte dai ricchi armatori come Aristotele Onassis e Stavros Niarchos: i corrispettivi dei nostri Roberto Calvi e Michele Sindona) si era impadronita dello Stato, gettando in carcere migliaia di oppositori. Mazza sottolinea come nel corso degli anni ’60, dopo la prima esperienza del centrosinistra, la Dc sia diventata un «marasma correntizio sempre più oscillante fra il conservatorismo, che la permeava fortemente, e le nuove istanze progressiste che vedevano crescere i consensi tra le sue fasce giovanili, intellettuali e fra quelle legate al mondo del solidarismo cattolico e del sindacalismo cislino». Dal canto suo, l’opposizione di sinistra, egemonizzata dal Pci ancora legato ideologicamente all’Urss, è maggioritaria all’interno del sindacato più rappresentativo, la Cgil, e l’“Autunno caldo” ha dimostrato come le istanze della classe lavoratrice siano state in grado di ottenere una conquista fondamentale come lo Statuto dei lavoratori, che ha eroso notevolmente lo strapotere dei “padroni delle ferriere” italiani.

Una sentenza di assoluzione che rimette in circolo le tossine eversive
Nel secondo paragrafo, Un “Quarto grado di giudizio” che fissa la “verità storica”: i golpisti vengono assolti solo grazie ai depistaggi dei vertici del Sid e di quelli dello Stato, l’autore puntualizza, tenendo in debita considerazione la cosiddetta “Sentenza Golpe Borghese”, la differenza fra “verità storica” e “verità giudiziaria”: tre mesi dopo il fallito “Golpe”, uno scoop di Paese Sera scoperchia il vaso di Pandora ma il processo celebrato tre anni dopo si conclude con una generale assoluzione. La Cassazione, il 25 marzo 1986, sentenziò l’assoluzione di tutti gli imputati. Vennero paradossalmente assolti anche i rei confessi. Mazza elabora così un immaginario “Quarto grado di giudizio” ed emette un’ipotetica “sentenza storica”. L’espediente letterario escogitato dall’autore scavalca lo steccato della pura e semplice indagine documentale, e si spinge oltre, entrando in una dimensione per così dire “metafisica” del Potere: Mazza si addentra in un labirinto di intrighi, depistaggi e complotti, si districa in una ragnatela di silenzi e di complicità, ma il volto del Tessitore resta sempre nascosto in qualche cono d’ombra, in qualche nicchia segreta, negli scantinati più sordidi della politica di casa nostra. Un’atmosfera che ricorda la machiavellica e malsana atmosfera di Todo modo, il romanzo di Leonardo Sciascia portato sullo schermo da Elio Petri: mandanti occulti, strategie ricattatorie, misteri irrisolti.

“Malloppo originario”, “Malloppone/Malloppastro” e “Malloppini”
Nel terzo paragrafo, Gli importanti elementi innovativi: la doppia censura ai tre (e non due) “Malloppi”, l’isolamento all’interno del Sid, del capitano Labruna, la “Dottrina Maletti”, Mazza architetta il dispositivo del suo “Quarto grado di giudizio”: il “Malloppo originario” è la cospicua stesura, appunto originaria, delle indagini condotte dal capitano Antonio Labruna; il “Malloppastro” (termine introdotto proprio dall’autore per evidenziare le clamorose manipolazioni effettuate dal superiore diretto di Labruna, generale Gian Adelio Maletti, anche su suggerimento dell’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti) è la versione epurata; i “Malloppini” sono quanto resta dopo due successive ondate di tagli e censure. In altri termini, i “Malloppini” sono paragonabili a una costata alla fiorentina più volte mordicchiata finché non rimane qualche brandello di carne ancora attaccata all’osso. Le identità dei partecipanti a questo banchetto restano oscure nella maggior parte dei casi, immerse in una foschia torbida su cui si tenta faticosamente di proiettare un fascio di luce: «Il confine fra il lecito e l’illecito era assai labile e spesso fu infranto per ragioni assai poco nobili», così sintetizza l’autore per quanto riguarda l’operato del Sid, il Servizio informazioni della difesa. Dall’indagine di Labruna scaturisce un complesso mosaico sulla cosiddetta “Strategia della tensione”, inaugurata dalla bomba di piazza Fontana (che, nel piano originario dei golpisti, pare dovesse sincronizzarsi con il “Golpe dell’Immacolata Concezione”) e culminata con l’occupazione, anche se non integrale, del Viminale; ma, lungo l’itinerario che porterà al processo, Maletti e Andreotti si dedicano a una sistematica sottrazione di tasselli, vanificando il paziente lavoro del loro subordinato, anzi, spingendosi fino a un vero e proprio scempio della sua opera. Maletti, in particolare, è fautore di una strategia occultatrice che l’autore battezza come “Dottrina Maletti”. Il teorema machiavellico elaborato da Maletti giustifica la copertura offerta ai neofascisti con l’esigenza di non infangare la reputazione degli apparati di sicurezza nazionali. Un cinismo che mette i brividi al pensiero che il Sid è comunque un organismo finanziato dai contribuenti…

Macchinazioni massoniche, connivenze nixoniane, triangolazioni repressive
Il quarto paragrafo, Le undici ipotesi riformate e confermate: dal sostegno degli Usa con Giulio Andreotti capo del governo, al ruolo di Licio Gelli, al “Piano antinsurrezionale”, mette in rilievo gli ambigui intrecci fra funzionari ministeriali, esponenti della destra eversiva e “amici degli amici” in odore di mafia. In particolare emerge l’appoggio che ricercò (anche in prima persona, attraverso viaggi in Calabria) e che poi effettivamente ebbe appieno, con la ’ndrangheta. Aspetti sui quali Labruna aveva indagato a fondo, ma delle sue deduzioni nei “Malloppini” non è rimasta traccia: notte e nebbia.
Il tramite delle connessioni fra cospiratori, neofascisti e mafiosi è ampiamente ipotizzabile nella massoneria deviata, vale a dire la famigerata loggia Propaganda 2 creata dalla “primula nera” Licio Gelli: va sottolineato anche l’atteggiamento fortemente ambiguo dell’ambasciata statunitense, che durante gli anni fangosi dell’amministrazione Nixon non mancava mai di esercitare pressioni anticomuniste. Inoltre vi è qualche sospetto che all’interno sia dell’Arma dei Carabinieri che dei vertici dell’Esercito si annidasse qualche fautore di una esasperazione in senso repressivo (leggi: antimarxista) di un certo “Piano antinsurrezionale” (già ampiamente collaudato all’epoca dell’attentato a Palmiro Togliatti e sporadicamente durante i moti di piazza contro il governo Tambroni) denominato “Esigenza Triangolo”.

Dall’analisi di documenti riservati emerge la mefistofelica ambiguità del “Divo Belzebù”
Da due fonti significative (più attendibile quella proveniente dagli archivi diplomatico-militari Usa, discussa l’altra estratta dal “Testamento politico” di Borghese) emerge un particolare alquanto inquietante della cospirazione golpista: il ruolo assegnato a Giulio Andreotti come premier dell’esecutivo “di salute pubblica” consequenziale alla svolta autoritaria (ed è questo il comune denominatore di entrambi i documenti). Nel “Testamento” di Borghese compare anche il nome di un elemento di raccordo fra Andreotti e i golpisti: un fido collaboratore di Andreotti, Gilberto Bernabei. Secondo Borghese, il vero autore della telefonata che lo indusse a mandare all’aria il “Golpe” sarebbe stato proprio Bernabei su ordine di Andreotti, e non di Gelli. Sottolinea l’autore che comunque, al di là della paternità della telefonata, sia Andreotti che Gelli «avevano in quel frangente (come in altri…) una visione comune», e che inoltre, «Dalle carte Usa emerge un atteggiamento dell’amministrazione Nixon perplesso ma sostanzialmente disposto ad appoggiare il “Golpe”». In definitiva, si può tranquillamente congetturare (dato che prove certe, purtroppo, non ne esistono, e se mai ne fossero esistite sono state abilmente fatte sparire) che personaggi di grosso calibro come l’ambasciatore statunitense a Roma Graham Martin, il responsabile della Cia in Italia Hugh Fendwich e, dulcis in fundo, addirittura l’ex ufficiale nazista Otto Skorzeny, il sedicente liberatore di Mussolini, fossero tendenzialmente favorevoli al complotto ma solo nel caso in cui questo fosse andato in porto grazie all’appoggio determinante dell’Arma dei Carabinieri, elevando alla guida del governo un democristiano conservatore gradito all’amministrazione nixoniana come Andreotti, in funzione anticomunista, antisovietica e filoatlantista. Un atteggiamento analogo a quello dell’amministrazione Johnson che, tre anni prima, aveva avallato il brutale colpo di Stato dei colonnelli in Grecia senza mai stigmatizzare le sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dalla giunta militare di Papadopoulos.
Nel quinto paragrafo, Le altre conferme: le relazioni con il conservatorismo politico e sociale, da Pacciardi a Sogno. I rapporti con massoneria e Msi; la “Strategia della tensione”, l’autore, preso atto della sostanziale estraneità della massoneria al progettato “Golpe” (solo la loggia P2 di Gelli ne era al corrente), sottolinea il ruolo sostanzialmente marginale del Msi di Giorgio Almirante, sicuramente ben disposto verso un’eventuale svolta autoritaria ma titubante nel procedere decisamente alla mobilitazione dei suoi militanti in appoggio al “Golpe”. Come l’ambasciata Usa, la Confindustria e il Vaticano, anche gli eredi del fascismo non si espongono più di tanto, timorosi di finire intrappolati da un eventuale fallimento del “Golpe”. Anche esponenti conservatori con un passato antifascista come Edgardo Sogno e Randolfo Pacciardi (la Resistenza per il primo, la Guerra di Spagna per il secondo) risultano invischiati nelle trame golpiste più che altro per l’ingenua aspirazione di rivestire ruoli di primo piano in un eventuale esecutivo a guida Andreotti.

Gli uomini che sapevano troppo: una scomparsa irrisolta e una morte sospetta
Nel sesto paragrafo, I sette punti oscuri: il sospetto assassinio di Borghese, il Dossier sulle Forze armate, la scomparsa di De Mauro, il falso sul terzo “Malloppino”, il “contrordine”, l’autore riflette sulla scomparsa del giornalista De Mauro, notoriamente di sinistra ma con radici nell’estrema destra: fu decisa perché avrebbe potuto sprigionare rivelazioni scottanti sui rapporti fra mafia e golpisti? Potrebbe fare il paio con la morte improvvisa in circostanze mai chiarite del tutto – Mazza adombra esplicitamente l’assassinio – dello stesso Borghese in Spagna? Il provvidenziale attacco di pancreatite che uccide Borghese a Cadice nell’estate del 1974 avviene in compagnia di una donna: secondo la testimonianza di un noto terrorista nero, Vincenzo Vinciguerra, la partner sessuale del principe al momento del decesso non era altro che una agente del Sid… Tutto da dimostrare, ma che i servizi segreti di ogni paese si servano spesso e volentieri di avvenenti quanto letali creature femminili non è una novità… Ancora più inquietante e intricata la vicenda della scomparsa di De Mauro, ex legionario della X Mas di Borghese (al quale era talmente devoto da battezzare sua figlia con il nome Junia), rapito e sicuramente eliminato dalla mafia tre mesi prima del “Golpe”: cosa sapeva? E chi decise di commissionare la sua eliminazione alla mafia?
Quanto a due poteri forti che in Italia contavano parecchio, la Confindustria e il Vaticano, l’autore sottolinea che pare assai improbabile una loro totale estraneità alla vicenda golpista. Non va dimenticato che gli industriali italiani (destinatari fra il 1940 e il 1943 di sostanziose commesse belliche) iniziarono a sganciarsi da Mussolini solo quando cominciarono a piovere le bombe angloamericane sulle loro fabbriche. Altrettanto ambiguo l’atteggiamento di un papa storicamente importante come Pio XII: non solo salutò con esultanza l’ingresso del generalissimo Franco a Madrid ma durante l’ultimo conflitto, pur di evitare rappresaglie anticattoliche da parte di Hitler, tacque per anni prima sulla politica antisemita del Terzo Reich e poi sull’Olocausto. Un silenzio rimasto impenetrabile nonostante numerose informative riservate in proposito anche da parte di esponenti antinazisti del clero polacco. Un dettaglio, quello della triade ambasciata Usa-Confindustria-Vaticano che, più o meno tacitamente, sta alla finestra in attesa degli eventi (per poi magari saltare repentinamente sul carro del vincitore) scarsamente preso in considerazione dalla memorialistica sul “Golpe Borghese”, e che invece varrebbe assolutamente la pena di approfondire.
In questo stesso paragrafo si parla del falso giudiziario che caratterizzò il terzo “Malloppino”. Questo fu consegnato da Andreotti al procuratore della Repubblica di Roma, Elio Siotto, il 15 settembre 1974. E, fin qui, nessun problema. Il fatto è – evidenzia Mazza – che «nel documento si descrive anche l’avvenuto svolgimento di due riunioni che “si terranno/si tennero” il 23 e il 29 settembre 1974. Una vera e propria preveggenza! Come è stato possibile che un documento potesse contenere informazioni afferenti a fatti accaduti dieci giorni dopo la sua consegna? La gravità dell’episodio – conclude Mazza – è acuita dal fatto che, mentre gli altri documenti che abbiamo visto erano “solo” atti del Sid, i “Malloppini” erano anche e soprattutto atti giudiziari».

Qualcuno molto in alto allunga il piede per far inciampare Labruna…
Il settimo paragrafo, Le indagini di Labruna colgono nel segno. I neogolpisti organizzano la vendetta e vengono baciati dalla fortuna. Riemerge prepotentemente la “Dottrina Maletti”, esplora le inquietanti connivenze fra apparati di intelligence e vere e proprie mine vaganti neofasciste. Secondo l’autore, che cita il presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino (che, a sua volta, cita lo stesso Maletti), appare chiaro che i vertici del Sid abbiano deliberatamente offerto copertura al terrorismo neofascista in cambio di un sostanziale appoggio in quella che viene definita come “Guerra fredda interna”. Il discredito vendicativo gettato dagli ex golpisti sulla figura di Labruna, che viene addirittura accusato di connivenza con l’eversione neofascista che lui tentava di smascherare, annichilisce definitivamente il suo sforzo investigativo, e sul fallito “Golpe Borghese” cala una saracinesca di impenetrabile omertà.

Un dossier incandescente raffreddato e sterilizzato per renderlo innocuo
L’ottavo paragrafo, I documenti vengono finalmente mandati alla Procura. Ma prima si epurano i nomi imbarazzanti e quelli degli “amici”: Cangioli, Gelli, Paglia e Torrisi, per esempio, esamina l’epurazione del “Malloppone” e la sua metamorfosi nel “Malloppastro”, poi ulteriormente spezzettato nei tre “Malloppini”. Sembra una gara a eliminazione in stile Grande Fratello televisivo: uno dopo l’altro i partecipanti svaniscono come spettri dal Dossier originario di Labruna. In primo luogo il “Gran Maestro” Gelli, poi l’ammiraglio Torrisi seguiti da vari esponenti della destra eversiva coinvolti nelle “trame nere”. Una volta sottoposto all’attenzione del ministro Andreotti, lo scarnificato “Malloppastro” subisce ulteriori mutilazioni; voraci come squali, i suoi manipolatori continuano a sbranarlo, pezzo dopo pezzo. Evaporano così altri dettagli fondamentali: la mappa della capillare rete territoriale della pericolosa organizzazione paramilitare neofascista denominata Fronte nazionale, i suoi inquietanti legami internazionali con la Cia nixoniana, il ruolo cospirativo dell’ex capo partigiano monarchico Edgardo Sogno. Insomma, una sciarada che fa impallidire la memoria storica delle mistificazioni eseguite sulle prove accusatorie da parte dei vertici militari francesi all’epoca del caso Dreyfus, con Labruna costretto suo malgrado a recitare un secolo dopo un ruolo analogo a quello dell’onesto maggiore Georges Picquart…

La sconcertante indulgenza della magistratura nei confronti dei golpisti
Nel nono paragrafo, Il flop del processo: l’accusa minimizza, le prove vere sono state tagliate e quando riemergono è troppo tardi! La Cassazione sentenzia: il “Golpe” non è mai avvenuto, emerge la pesante ingerenza di Andreotti sui già epurati “Malloppini” allo scopo di sminuirli e disinnescarli ulteriormente. In soccorso del presunto “Divo Belzebù” interviene anche la Cassazione, che amalgama le tre indagini in un unico pastone, dirottato a Roma dove all’epoca il rapporto fra il pubblico ministero Claudio Vitalone e Andreotti era paragonabile a quello fra l’unghia e il dito: il processo si conclude con una generale assoluzione. «Se l’unico vero investigatore era stato ostacolato, isolato e screditato; se l’accusa era sostenuta da chi era in stretta sintonia con Andreotti che, in ogni occasione, minimizzava e screditava l’inchiesta stessa, cosa ci si poteva attendere di più?» conclude l’autore. Lo strascico finale risale al 1991, quando Labruna, dopo un «acuto e lungo travaglio interiore», decide consapevolmente di infrangere il segreto d’ufficio e consegna al giudice Salvini la copia originale dell’intera documentazione investigativa sul “Golpe Borghese”: la magistratura potrà quindi vedere anche i numerosi atti censurati da Andreotti e Maletti, ma l’oblio della prescrizione impedisce ogni ulteriore procedimento penale.

L’ombra inquietante del grande Burattinaio
Il decimo paragrafo, Il ruolo centrale di Gelli nel “Golpe” è acclarato. Fu sempre lui a indurre Borghese al “contrordine”? O fu Andreotti, capo designato del governo golpista?, affronta quello che potremmo definire, come scriverebbe Jorge Luis Borges, «un enigma che racchiude un mistero in cui è nascosto un segreto». L’enigma è il seguente: Licio Gelli era oppure no l’eminenza grigia del “Golpe Borghese”, vale a dire l’artefice occulto della cospirazione? Un punto è certo: un commando golpista capitanato da Gelli stesso aveva fatto irruzione nel Quirinale per rapire il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Infine, il segreto: fu Gelli a emanare il “contrordine” che arrestò il meccanismo già avviato del “Golpe”, oppure fu Bernabei per conto di Andreotti? Ed ecco le tre ipotesi più attendibili. Primo, Gelli era effettivamente il numero uno del complotto, dato che godeva di libero accesso al Quirinale grazie a un lasciapassare fornitogli (sembra) da Vito Miceli. Il che, al di là del fallimento o meno del “Golpe”, è già di per sé piuttosto allarmante. Secondo, il rapimento di Saragat fu mandato all’aria perché, all’ultimo momento, Gelli venne a sapere che l’Arma dei Carabinieri non avrebbe messo in atto il “Piano antinsurrezionale”, l’“Esigenza Triangolo”, in supporto al colpo di Stato (o, per rimanere nei termini spagnoleggianti con i quali è passato alla Storia, del “Golpe di Stato”). Terzo, diversi testimoni provenienti da ambienti neofascisti hanno concordemente affermato che fu una telefonata di Gelli a indurre Borghese a impartire il “contrordine” una volta appurato che l’amministrazione Nixon non avrebbe legittimato il “Golpe” (come invece accadde in Cile contro Allende tre anni dopo), e tantomeno avrebbe ordinato ai militari presenti nelle basi Nato in Italia di fornire sostegno logistico ai golpisti, principalmente sul versante delle telecomunicazioni. In sintesi, l’autore perviene a questa conclusione: dalla documentazione di matrice Usa emerge, riferendosi ad Andreotti, «un’ipotesi del leader democristiano quale elemento di contatto di vertice fra i golpisti e l’amministrazione Nixon. Un ruolo che collima con quello che emerge dal “Testamento politico” di Borghese. Una documentazione, quest’ultima, che va sempre presa con le pinze perché, come abbiamo accennato, la sua attendibilità è dubbia, ma non si può ignorare d’emblée. Ciò vale ancor di più perché ci restituisce una figura di Andreotti che risulta perfettamente compatibile con questa degli archivi federali statunitensi».

Gli altri tre capitoli
Il secondo capitolo consiste in una Cronologia annotata delle giornate del “”Golpe”. Nel terzo e nel quarto contributo vengono pubblicati alcuni assai interessanti documenti sull’argomento, quasi tutti inediti e quasi tutti provenienti dal Sid, che costituiscono una delle basi dell’analisi di Mazza.

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno XVI, n. 178, novembre 2020)

L’uscita del libro non è passata inosservata. Fra le altre evidenziamo due interviste Rai, entrambe a cura di Pierluigi Mele: confini.blog.rainews.it/2020/12/17/il-golpe-borghese-un-colpo-di-stato-sotto-lo-sguardo-di- licio-gelli-e-giulio-andreotti-intervista-a-fulvio-mazza/ e l’altra visibile qui.

 
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