Una serie di episodi che diventano racconto fluido, attraverso una scrittura quanto mai chiara, poiché indirizzata soprattutto ai bambini, e funzionale mediante l’utilizzo di un font adatto alla lettura per le persone affette da dislessia, permettendo una fruibilità ampia e senza confini. Poche parole che possono già definire il lavoro di Francesco Boschi, Le incantevoli luci della vita (il Seme bianco, pp. 264, € 21,90), appartenente alla “Scuderia letteraria” di Bottega editoriale e arricchito dalla Prefazione scritta da Rino Tripodi, critico letterario, di cui vi forniamo il contenuto di seguito, come anteprima e analisi di questa preziosa opera.
Siamo ormai abituati a romanzi gialli dagli intrecci inverosimili, a foschi noir, a narrazioni di vicende violente, a scritture infarcite di volgarità e di coprolalie.
Tutto ciò trova riscontro sia nelle fiction televisive e nella produzione cinematografica, specie hollywoodiana, sia nella realtà politica e sociale. A tal punto che ormai non è chiaro se è la realtà a essere alla base di produzioni “artistiche” di un certo tipo, oppure siano libri, film, ecc. a influenzare negativamente il mondo comune.
Il nodo scuola
Pertanto, ben vengano romanzi come quelli di Francesco Boschi, che narrano vicende ordinarie di persone normali, con un linguaggio e uno stile misurati e rispettosi del lettore e degli stessi personaggi.
Senza voler rivelare troppo del libro, possiamo affermare che esso ha al centro la scuola, la scuola elementare. Vi traspare un grande amore sia per l’infanzia, sia per quel prezioso mondo – peraltro spesso bistrattato – dell’insegnamento-apprendimento. Come sappiamo tutti, la scuola italiana è affetta da grandi mali, quali la precarietà di molti docenti, la vetustà degli edifici, i fondi che non vengono sempre equamente distribuiti o, meglio, non indirizzati laddove ve n’è davvero bisogno. E, forse, alcuni rimedi escogitati dalla politica son peggio dei mali.
Si pensi alle decine di “riforme della scuola” succedutesi nel corso degli anni, con frequenza via via sempre maggiore, l’ultima quella boriosamente autodenominatasi “Buona scuola” (legge 107 del 2015), targata Giannini-Renzi-Pd, con corollario Fedeli. L’impressione è che si voglia curare un malato con dosi sempre più massicce della medicina che l’ha reso tale e che si getti il bambino assieme all’acqua sporca (fuor di metafora, che si ripulisca la didattica da tante antiquate concezioni, ma che, assieme a esse, si scaraventi nella spazzatura anche tutto un millenario patrimonio culturale e umanistico).
I bambini e i docenti
Ma, per fortuna, ci sono i docenti (e gli allievi). Nonostante la cattiva stampa, le critiche dettate spesso da ignoranza e alcuni brutti episodi, è pressoché impossibile che un docente, di ogni ordine e grado, non avverta la responsabilità fondamentale del proprio ruolo, non si senta stimolato a dare il massimo – sul piano culturale, psicologico, formativo, affettivo – ai discenti che gli sono stati affidati. In una parola, è pressoché impossibile che un docente non ami il proprio lavoro e, nel senso più spirituale del termine, non provi un amore sconfinato verso i propri alunni.
È ciò che traspare a ogni pagina del libro di Boschi. La maestra elementare (voce narrante, e allo stesso tempo protagonista del romanzo), è pervasa da un’attenzione continua, una costante sensibilità ed empatia verso gli scolari che le sono stati affidati. Il suo rapporto è di pieno amore.
La banalità del bene
Nella vita, nell’immediato, il male è più forte del bene. Ricordiamo un pugno più di una carezza; il dolore (fisico o psicologico) è devastante, il piacere è passeggero; la bruttezza ci resta più impressa dell’effimera (e precaria) bellezza; superare una malattia è più difficile che restare in salute; le ferite lasciano sempre cicatrici; il torto resta nella memoria più della “normale” giustizia; siamo tutti soliti dimenticare il bene ricevuto e ricordare solo gli sgarbi subiti.
Eppure, alla lunga, il bene prevale sempre. Perché il male è vincente sul momento, ma non riesce a costruire nulla di stabile e perenne, anzi tende all’autodistruzione. Il bene prevale lentamente, nel tempo, perché ripara, costruisce, edifica, innalza. L’odio e la violenza sono momentanee eccezioni, l’amore è la costante umana.
Il libro di Boschi è, appunto, una delicata sonata al bene della quotidianità, di cui non ci accorgiamo perché è “normale”, mentre fa notizia l’“anormalità”: l’insensibilità, gli egoismi, le prepotenze, le brutalità, le crudeltà. Come ci ha insegnato Hannah Arendt (1906-1975) può essere “banale” anche il male, quando esso è burocratico, senza alcun fascino superomistico, compiuto da gente “comune”. Ma ancora più “banale” è il bene: la solidarietà, la sensibilità, la dolcezza, l’attenzione rivolta agli altri, l’empatia, la fratellanza pudìca, l’amore incondizionato verso il prossimo.
Non ci si accorge del bene, finché non lo si ha più; eppure esso opera di nascosto, come un torrente sotterraneo che è preziosa, quanto invisibile, fonte di vita.
Fuori da ogni Arcadia e da ogni idillio
Peraltro, non si deve cadere nell’errore di vedere lo scritto di Boschi come una fantasiosa Arcadia, un immaginario mondo idilliaco lontano dalla realtà.
Nel suo romanzo sono presenti anche le amarezze della vita, le delusioni, i contrasti. Per esempio, un amore tragicamente interrotto, un rapporto che “non funziona” perché “clandestino”, le relazioni non sempre facili coi genitori degli alunni, le difficoltà quotidiane, le patologie ormai molto diffuse (o riconosciute) come la dislessia.
E, ancora, la frenetica fretta quotidiana, le incombenze, gli obblighi, le tensioni.
Eppure, sul marasma prevale la riflessione, la volontà di porre un argine, di ordinare le apparenti caotiche vicende esistenziali. La protagonista si sforza sempre di ripensare alle proprie azioni, alle proprie giornate, cercando di dare un senso, di guidare lei la propria vita. Nelle ultime pagine del libro annota: «Non è facile accettare la realtà, non lo è assolutamente.
Non è facile capire quello che la vita vuole dirti, comunicarti, lei arriva così, da un momento all’altro, senza preavviso, senza bussare alla porta, senza annunciarsi e, te la trovi lì davanti, che ti guarda e pretende delle risposte. […] Raramente ho visto la vita accontentarsi, è un po’ sadica in questo, la signora vita, perché lei, zitta zitta, si avvicina, alcune volte attende il momento migliore, per sé, un po’ meno per te, e ti salta alle spalle urlando anche “Bu”. […] ma se lotti, se ci provi, se non ti arrendi, se credi in te e nei tuoi mezzi, se credi in quello che fai, in quello che hai, che hai fatto e farai, allora, e solo allora, la vita sarà pronta a farti uno sconto.
Quando speri in qualcosa con tutto te stesso e non arriva, e ti massacri la mente, quando desideri qualcosa, la vuoi, la cerchi e la disegni, ma lei non arriva e ti massacri la mente, lasciala là, proprio laggiù, nei meandri dei tuoi ricordi e aspetta perché lei arriverà, se lo desideri davvero lei arriverà, dalle solo il tempo di farsi coraggio, dopotutto è solo timida.
Alcune volte lottare ogni giorno stanca, alcune volte verrebbe da “tirarci il cappello” e mettersi a piangere, ma provarci merita, provarci fortifica e provarci è il minimo che possiamo fare per poter dire “Ok, non sarà andata come volevo, ma nemmeno come volevi te… 1-1 e palla al centro…”».
Dunque, alla fine, la protagonista riesce a capire qualcosa del guazzabuglio della vita, quel «pasticciaccio brutto», secondo Carlo Emilio Gadda (1893-1973), e a cogliere il mistero del mondo, che Eugenio Montale (1896-1981) nella poesia I limoni (da Ossi di seppia, 1925), definiva così: «L’anello che non tiene,/il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/nel mezzo di una verità».
Le forme espressive e l’attenzione ai dettagli
Boschi, attraverso l’io narrante, costruisce sapientemente le vicende del libro, dalla trama fluida e ordinata, pur con numerosi flashback e parti riflessive. Il testo principale è inframmezzato da brani, evidenziati in corsivo, che illuminano le vicende dei personaggi e, in particolare, della protagonista. Sono fiabe, favole, apologhi, meditazioni, di grande suggestione simbolica, che penetrano nell’inconscio, sfiorando l’effetto perturbante: «Sulla destra il mare, sulla sinistra la sabbia, sulla destra la favola e sulla sinistra la lacrima, sulla destra la luna e sulla sinistra un chilometro, sulla destra il caffè, sulla sinistra il tè, sulla destra lui, sulla sinistra lei […].
Era stanco, eppure la fine della collina era là, la vedeva, sì, sì, la vedeva.
Si fece forza, si fece coraggio e con le ultime forze che aveva raggiunse la fine della collina, la sua cima, dove trovò un cartello con su scritto Qui inizia la fine. Lui si fermò.
“Cosa vorrà dire?”
L’anziano uomo appoggiò il carretto da una parte del sentiero per avvicinarsi meglio al cartello, leggendolo con attenzione.
Qui inizia la fine.
Ci rifletté un po’ e, memore delle sue esperienze e della lunga camminata che aveva fatto lungo quella strada per arrivar sin lì, capì; ora gli era chiaro, ora tutto gli era chiaro.
“Che sbadato che sono stato”, disse tornando al carretto.
Lo prese con le ultime energie che gli erano rimaste, si avvicinò al fare della discesa e lo lasciò andare verso la fine.
Il carretto correva sempre più veloce lungo il sentiero, fino a quando si infranse su un grande macigno che segnava la fine della strada, distruggendosi in mille piccoli pezzi».
Lo stile dell’autore è pacato e soffice, la lingua perspicua, l’espressione sempre denotativa. Il ritmo segue la storia come un’armonia di sottofondo, liricamente pensosa e l’atmosfera a volte assume toni da favola.
Forse l’aspetto maggiormente caratterizzante è l’accurata descrizione dei dettagli. Per esempio, gli interni, i paesaggi, gli animali (l’indimenticabile gatta Sofia), i piccoli gesti quotidiani.
«Una candela accesa davanti a me, molte altre tutto intorno a un tavolo color della sabbia, due finestre ai miei lati, una che lascia entrare le ultime luci della sera, i raggi di un sole che mi ha scaldato durante il giorno, dall’altra la bellezza della natura, i profumi dei fiori e una canzone in sottofondo che culla i miei sentimenti.
Una valigia rossa appoggiata a un mobile lontano, un tappeto colorato del colore del tuo cuore, un divano ricco di noi, un orologio appeso a un muro che mi segna le 20:30 e un libro tra le mie mani».
L’attenzione maggiore, però, è rivolta ai bambini, i cui nomi, quali Luna e Stella, sembrano assumere profondi significati simbolici.
Decine di pagine sono occupate dai dettagliati dialoghi coi bambini, con le loro ingenuità, purezze, primigenie intuizioni e illuminazioni…
Lo scorrere della vita, come un lento fiume
Nel suo procedere il romanzo include tutte le varie fasi dell’esistenza della protagonista. Si tratta, dunque, di una parabola generale della vita, al cui centro si colloca il più grande dei misteri: la maternità.
Il messaggio finale del romanzo è che la vita scorre come un maestoso fiume, lento ma inarrestabile, armonioso, sebbene a volte possa anche essere vivace e scoppiettante. E tutti ne facciamo parte, come diceva il poeta americano Walt Whitman (1819-1892) nella sua celebre poesia Ahimè, ah vita (da Foglie d’erba, 1855): «“Che cosa c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita?”./RISPOSTA/“Che tu sei qui, che esistono la vita e l’individuo,/che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un tuo verso”».
Non possiamo ritrarci dalla vita. Non possiamo tenerci fuori. Possiamo contribuirvi, entrando in armonia con la sua eterna bellezza e con i destini umani.
La vita va avanti, ma forma anche un cerchio, nel suo eterno ciclo di nascita, giovinezza, amore, procreazione, vecchiaia. Sembrano banalità, ma le abbiamo perse di vista, ce ne siamo dimenticati in questo mondo ipertecnologico e postumano. Boschi ce le ha ricordate, facendole restare impresse per sempre nella mente simili a delicati palpiti di luce, luminescenti sentieri, sapienti costellazioni, circolari equilibri.
Rino Tripodi
(direfarescrivere, anno XV, n. 159, aprile 2019)
|