I labirinti poetici e narrativi di un autore
coinvolgente: Massimiliano Bellavista
Un’analisi precisamente compiuta sui temi, lo stile e la scrittura,
attraverso le sue opere in cui tutto è sospeso tra sogno e realtà
di Guglielmo Colombero
È possibile conciliare la vocazione di teorico del marketing aziendale e algido manager con una fervida vocazione letteraria? In una mente caratterizzata da strategie aziendali può celarsi, e poi felicemente esplodere, una feconda passione di poeta e narratore, intrisa dei più svariati echi letterari (Borges, Camilleri, Gadda, Pirandello, Simenon, tanto per citarne solo alcuni), che serpeggia lungo le insenature enigmatiche del thriller oppure esplora nicchie mistiche e arcane, nostalgiche di un passato seducente e fiabesco, che si amalgama al presente passando attraverso il perenne varco dimensionale dell’immaginario e del sogno?
Il personaggio capace di rispondere affermativamente a tale quesito si chiama Massimiliano Bellavista, ingegnere e docente di Management strategico, nato a Siena nel 1973.
Questo felice connubio è raro che avvenga, ma talvolta così è. Per rimanere ai grandi esempi del passato possiamo ricordare i casi dell’assicuratore Franz Kafka e dell’impiegatuccio del Genio civile Salvatore Quasimodo; per il presente potremmo rammentare il magistrato Giancarlo De Cataldo e il bancario Maurizio De Giovanni.
In questo secondo saggio critico che la nostra Agenzia letteraria Bottega editoriale dedica allo studio di alcuni fra i più interessanti scrittori contemporanei, dopo Mimmo Gangemi (Mimmo Gangemi: poesia e narrazione tra natura, morte, vita e appartenenza, in: http://www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=235) la nostra lente d’ingrandimento letteraria punta, dunque, su Massimiliano Bellavista.
Non ci soffermeremo, ovviamente, sui suoi studi economici: basterà citarli segnalandone l’importanza che hanno nei rispettivi campi.
Ricordiamo dunque, tra i pregevoli testi in materia di organizzazione aziendale, Le reti di impresa (FrancoAngeli, 2012) scritto assieme a Lorenzo Zanni e, tra quelli dedicati alle strategie di start up imprenditoriale, the naked pitcher (Licosia, 2018).
Ma, tornando nel precipuo ambito letterario, partiremo da un dato personale: l’intrinseca qualità letteraria di Bellavista è emersa ai nostri occhi faccia a faccia quando, durante la scorsa edizione del Salone internazionale del libro di Torino, abbiamo avuto la fortunata ventura di presentare il suo romanzo d’esordio, L’ombra del caso (il seme bianco, 2018), che ha come protagonista il commissario M., indicato con la sola iniziale del nome in quello che appare una specie di omaggio simultaneo sia al Maigret di Simenon che al Joseph K. di Kafka. «Il narrare storie è parte del mio lavoro quando si parla di start up aziendali», ha spiegato Bellavista in quell’occasione, «perché spesso e volentieri la prima cosa che l’imprenditore ti racconta è una storia, una storia di sé o di quello che vuole essere. E da lì poi si deve fare una contronarrazione trovando in qualche modo un colpevole, che può essere lui stesso o possono essere delle inefficienze, e trovare una soluzione o improvvisare una narrazione che possa convincere lui o lei a seguire una certa strada. In questa storia più o meno è lo stesso. C’è una narrazione che in qualche misura M. subisce, e una contronarrazione che lui piano piano costruisce sulla base di una serie di elementi che non lo convincono. E le due narrazioni come materia e antimateria sono destinate a scontrarsi».
Istantanee che riprendono la morte al lavoro
Una catena di morti violente, solo in apparenza prive di una qualsiasi connessione, è il perimetro agghiacciante su cui si concentra l’indagine del commissario M., poliziotto disilluso quanto tenace, che concepisce il suo lavoro non come una missione (dato che gli tocca difendere una società marcia e corrotta, in cuor suo profondamente disprezzata), ma come ricerca di una verità ambigua e sfuggente. Il messaggio affiora chiaramente da questo scorcio narrativo denso di echi pirandelliani e di fatalismo kafkiano: «A M. in sostanza, pareva di leggere un libro in cui era scritta la sua vita, ma che lui non aveva diritto a sovrascrivere e nemmeno ad annotare. Da qui due conseguenze logiche per la mente analitica di un investigatore: primo, era qualcun altro a decidere il copione, secondo, questo qualcuno il copione l’aveva già scritto in tutto o in parte, quindi nella migliore delle ipotesi lui era indietro rispetto alla sua vita di qualche pagina nella peggiore si trattava di un libro già bello che finito, magari anche di seconda mano. E quindi la logica conseguenza era che nelle cose della vita non occorreva sempre impegnarsi: tanto il libro avrebbe comunque girato pagina da sé».
Con glaciale professionalità, questo investigatore, molto vicino alle figure dei cinici detective del noir americano del primo dopoguerra (su tutti il Bogart de Il grande sonno), entra a piedi uniti dentro un focolaio infetto che sprigiona miasmi intossicanti e genera un grottesco balletto di morte lungo un filo di bava rabbiosa (che intreccia pedofilia, tangenti, prostituzione). «La gente non capiva che la morte non si fa. Si subisce. Non si crea né si distrugge, passa solo di mano in mano, come un cerino acceso»: efficace la rappresentazione della “morte al lavoro”, che tallona M. fino a sfiorarlo direttamente, e rafforza in lui la caparbia determinazione di scoperchiare una volta per tutte il tappeto sotto cui si cela una montagna di putredine morale.
Nel descrivere un campionario umano miserando, ripugnante e meschino, l’autore non risparmia impennate di umorismo impietoso e corrosivo: «Quel tale, Franco Luraschi, era titolare di una grossa società che si occupava di servizi d’igiene ambientale: smaltimento dei rifiuti, bonifica ecologica, amianto erano le specialità della casa. Decisamente obeso e ormai prossimo ai settanta, era inguainato in un elegante gessato di sartoria. E non poteva essere altrimenti per un uomo che passava abbondantemente i centocinquanta chili per quasi due metri di statura e a occhio e croce calzava il cinquanta. Un’apoteosi del su misura di lusso insomma. L’avvocato che lo accompagnava ne era fisicamente agli antipodi. Basso e magrissimo, parlava con voce sommessa e ricordava un uccellino spelacchiato e senza nido. Se ne stava aggrappato ai braccioli della sedia, sembrava quasi per timore di essere da un minuto all’altro travolto dalla massa dell’imprenditore, le cui carni adipose tracimavano dalla sedia in ogni direzione. Però era l’avvocato ad aver tenuto banco fino a quel momento nel colloquio, come se avesse portato in commissariato il suo grasso pupazzo ventriloquo».
Un viaggio cinematografico nell’irrazionale
Come il Ciccio Ingravallo di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, M. fruga in una atroce discarica colma di «dolore, malvagità, dubbio, pericolo, sadismo, pazzia». I primi due delitti che M. dovrà decifrare sono descritti mediante analogie di forte suggestione visiva, frutto di una tecnica narrativa squisitamente cinematografica: «La faccia morta di quel tizio morto così, quasi senza scatola cranica dietro e adagiata sulla nuda terra come una maschera, somigliava a un planisfero, una proiezione cartografica dove tutti i continenti sono riportati accuratamente in piano, cercando di mantenere le originarie proporzioni sferiche». Altrettanto efficace il parallelismo fra un corpo umano devastato e una viscida lumaca calpestata, quasi a voler significare che, una volta privo di vita, anche l’involucro considerato come contenitore dell’anima degrada, si decompone, degenera, e provoca nausea in chi lo contempla: «C’erano solo loro, un prato mal rasato dove proliferavano buche, sassi, infestanti e una baracca. E a pochi metri, un corpo scomposto, attorno al quale brulicavano uomini. M. per un attimo pensò a una grossa lumaca in decomposizione che giorni prima aveva inavvertitamente schiacciato. Era così tardi da essere quasi presto, pioveva un sacco ed era ancora buio, non l’aveva vista, dal guscio uscivano liquidi e gli organi interni. Tre ore di sonno e lui era di nuovo lì, ma la lumaca non c’era più: era diventata uno spaccio di proteine all’ingrosso, gremito di formiche che si affaccendavano su ogni lembo di quel corpo. A quel pensiero, accusò di nuovo un lieve malessere».
Nel corso dell’indagine, M. procede su un doppio binario: quello lucido e razionale dell’investigazione, che utilizza i consueti strumenti di analisi empirica del reale, e quello onirico del sogno, della potenza quasi divinatoria dell’inconscio, degli archetipi junghiani: «Dio puntò il suo dito su una persona, che veniva verso M. tenendo per mano un bambino. Il dito era bianco, lucente, enorme eppure sembrava che lui fosse il solo a vederlo, le altre persone nella piazza continuavano a ridere e scherzare come se niente fosse, a cominciare dal suo bersaglio. Il dito non proiettava alcuna ombra sul terreno. La testa dell’uomo scoppiò, il sangue usciva copiosissimo, lo avvertì nelle narici, poi in bocca, infine il sangue gli coprì gli occhi bruciandoglieli e per un istante non vide più nulla».
La ritualità delle morti si accelera nel corso della narrazione, con vampate di tenore espressionista che innestano sfumature macabre, quasi un ghigno funereo emanato dalle oscure pulsioni di un sadismo criminale: «Imma non indossava una maschera, indossava la morte. C’era una densa chiazza dal diametro di oltre un metro che formava un’aureola rosso sangue intorno alla sua testa. Un solo foro trapassava la fronte. I capelli le coprivano il volto, quasi completamente, come una grottesca maschera barbuta. I denti ridevano, completamente scoperti, di un sorriso innaturale che sarebbe stato impossibile da riprodurre per tutti, tranne che per un cadavere».
Una scrittura tra mosaico e allegoria
Come la riproposizione delirante di un autodafé della Spagna di Torquemada, l’autore si sofferma sullo scempio di due cadaveri, bruciati dall’assassino per distruggere ogni traccia, spingendo l’iconografia delittuosa fino alla soglia dell’intollerabile: «E il fuoco aveva trasformato quei due corpi, tramutando il luogo che poche ore prima era stato un grande e spazioso soggiorno in un teatro dell’assurdo dove un corpo seduto in una posizione innaturale, prono sulla scrivania, sembrava guardare furtivamente un altro corpo, o meglio una specie di nera crisalide, che ancora oscillava appesa a una trave, unica rimasta completamente intatta tra tutte quelle che sorreggevano il soffitto».
In chiusura di questa inquietante panoramica sulla “morte al lavoro” nel romanzo di Bellavista, è doveroso citare un frammento descritto mediante l’uso della soggettiva, che l’autore padroneggia con una raffinata calibratura dei dettagli sia cromatici che sensoriali: «In un non-tempo quelle immagini si serigrafarono in ciò che restava della sua mente, polarizzandosi sul bianco che proveniva dalla luce accecante del sole, moltiplicata dalle mille fratture che si propagavano velocissime sulla superficie del parabrezza, e sul rosso del sangue che usciva copioso. Eppure, anche se da un solo occhio e con frequenti dissolvenze al nero intervallate da continue intermittenze di strane immagini che parevano pezzi di ricordi lontani, continuò a guidare. Le sensazioni che provenivano dai nervi facciali recisi, dal buco che aveva in faccia, erano ben oltre il dolore. Tuttavia per pochi secondi continuò a guidare, e quello che era più incredibile, intenzionalmente».
In definitiva, per esprimere la frustrazione del commissario M., che ancora brancola nella caligine sanguigna di tanti indecifrabili omicidi, Bellavista ci offre l’ennesima, fascinosa similitudine, quella dell’alta marea destinata prima o poi a defluire, rivelando quello che nasconde alla vista: «Gente che moriva attorno a lui in modi improbabili, storie che avrebbero dovuto avere un collegamento tra di loro che rimanevano scollegate, separate da distanze logiche che parevano incolmabili. Come isole tidali. La marea cresceva, M. si chiese quando avrebbe cominciato a scendere, rivelando i collegamenti tra di loro, infinite e sconosciute vie di sabbia».
Non è assolutamente casuale, in questa opera prima di Bellavista, la citazione da uno dei racconti più allegorici e mefistofelici di Borges, La lotteria di Babilonia: «A tutti e due piaceva quel racconto. E così, provammo a ipotizzare come avrebbe potuto funzionare. Come si sarebbe potuto mettere in pratica l’insegnamento di quel racconto, ovvero quello di creare un Ordine sociale basato sul caso. Sul caso governato». Nulla è come appare nel complicato mosaico costruito da Bellavista: una partita a scacchi in cui le regole del gioco vengono sovvertite a ogni mossa; un labirinto di specchi in cui il bianco diventa nero e il nero bianco a seconda delle circostanze, un mutevole divenire che racchiude metamorfosi e metastasi di una società ormai irrimediabilmente contaminata da appetiti inconfessabili, dal cannibalismo consumistico, dal delirio di onnipotenza di chi si crede dotato del potere sovrumano di decidere sul destino dei propri simili nel nome di un’astratta morale al di sopra della legge.
La casualità esiste davvero?
L’epilogo della storia narrata da Bellavista concentra nella dispersione di un pugno di ceneri il senso dell’effimero, dell’inevitabile, un sic transit gloria mundi che condensa il non-senso di una sorta di mostruoso quanto tragicomico complotto, fonte di una sequela di morti inutili, di efferatezze gratuite, di paranoide ferocia: «Le ceneri, dopo un breve volo, come se non potessero sottrarsi alla reciproca attrazione, si raccolsero in una densa chiazza grigia, che si dissolse lentamente nel lavorio superficiale delle onde e in quello appena sottotraccia delle correnti, galleggiando ancora per un po’ in lontananza, senza meta apparente, come un banco di piccoli pesci».
Ancora una volta illuminanti, a questo proposito, le parole dell’autore al Salone internazionale del libro di Torino: «Una serie di casi, e una gestione del caso, che però è – e il commissario M. lo afferra sempre di più – in qualche misura pilotata da qualcuno o da qualcosa. Questo è il concetto dell’ombra del caso. Il conflitto fra una visione del caso assolutamente probabilistica – per cui tutto è possibile e non è determinato da niente – e la sensazione forte che M. si muova dentro una storia già scritta, che poi è la storia del libro, una sorta di libro in 3D, da cui lui vuole uscire trovando una sua dimensione».
Un poeta itinerante in un dedalo di emozioni
Addentriamoci ora in un sentiero a ritroso, fino a un Bellavista ventenne che pubblica l’antologia poetica Come uno strappo (Il Fauno edizioni, 1994): da questi versi eleganti e ricercati, intrisi di vivide suggestioni crepuscolari, di morbido lirismo evocativo e di limpide assonanze musicali, già emergono alcune delle tematiche che, puntualmente, ritroveremo in successive opere narrative.
In primo luogo lo scorrere lento e inesorabile del tempo, incarnato nella magia luminosa di un paesaggio che si confonde con la visione onirica di un fantasma d’amore: «Allo schiaffo del giorno/alla croce di un’alba/sull’intarsio ligneo/dei tuoi capelli/che si perde/si perde…/nei bruschi fondali/il cangiante scolo/dei bagliori/dal ventre morto/delle città./Ti penso qui/da sulle spalle dei monti/dove morimmo di un male lucente» (Come uno strappo).
Nostalgia e rimpianto pervadono altri versi sospesi fra malinconia e struggimento, dove l’autore distilla frammenti emozionali e li condensa in una poetica della natura e delle cose, emblematica della fragile condizione umana: «Di tante anime/è rimasto/il vento/che pulsando/stride fra le porte». E analogamente: «Le vite/degli uomini/hanno inciso/il tuo tronco/che ora giace/a terra immoto/sprigionando l’essenza del tempo» (Albero abbattuto). Talvolta affiora una religiosità contemplativa che, nella silenziosa agonia cristallizzata di un crocifisso, sintetizza la muta eloquenza dell’angoscia esistenziale: «Tra riflessi barocchi/il Cristo/soffre la sua croce/in un silenzio/d’abbandono» (Chiesa di Lilliano).
Anche il simbolismo dell’acqua e della pietra ricorre sovente nei versi giovanili di Bellavista, con accenti che rivelano le sedimentazioni di una cultura nutrita di classicismo (come una riproposta in chiave moderna delle folgoranti intuizioni di un Anacreonte): «Tutti/restammo naufraghi/sulla riva di un’alba» (S. Lorenzo). Persino il simbolismo rivelatore di più recenti influenze (Montale, Neruda, Rilke) si esprime in scenari ereditati dalla turgida virulenza del Barocco seicentesco (alla Gongora, per intenderci), visionaria (ossa insanguinate, croci impolverate) e iperbolica (il suono che è anche metallo): «E non sia più/morte odorosa sui muri dei vicoli/e un bianco passo che il cuore non vede/e ossa nude temprate nel sangue/e polvere sulle croci./E palloni arcobaleno/crocifissi a bianche pietre/in questo giorno di festa/sotto all’urlo bronzeo/della chiesa» (Sarà più grande).
In altri scorci, fa già capolino l’ombra lunga di Borges, in un evidente soprassalto di consapevolezza che il tempo non si può fermare, e scandisce inesorabile l’esistenza che si consuma attimo dopo attimo come sabbia che scorre fra le dita: «Vicino all’eternità/qui/porto il tempo/nelle mani/e vivo sospeso/in un limbo di tuffi di luna/su acque immobili» (Con l’anima spezzata).
Anche la passione amorosa, che si dispiega in un vortice di immagini gioiosamente pagane (i miti di Circe incantatrice e di Diana cacciatrice, il Sol invictus, la falcata luminosa di una divina bellezza capace di tessere una ragnatela seduttiva), emana l’aroma amarognolo dell’effimero: «Esci divenendo maga/meridiana, pelle di rosa,/anima vulnerata dalla mano vorace,/stordimento di vento, trionfo di membra,/caccia che si disperde nel bosco./Dal sole, occhio tiranno, apprendi/a calarti come un ragno/vesti di luce ogni tuo passo» (Mi è dato far delirare).
Questa prima raccolta gli consente di vincere alcuni premi nazionali, mentre parte delle poesie del libro viene ripubblicata su riviste e in antologie (Stillae Temporis, Edizioni Cantagalli, 2004).
L’esperienza poetica prosegue, creando un ibrido costellato di lampi di prosa, in Il segno e la foresta (Magalini Editrice, 2001). Il libro, presentato al Festivaletteratura di Mantova, è corredato dalle splendide fotografie in bianco e nero di Luca Liserani. L’autore esordisce con una appassionata dichiarazione d’amore alla natia Siena: «La mia Città Madre è una Città d’Acqua che parla solo nei sogni. Pochi i convitati del Suo fluido mistico e segreto». E ancora: «la Città visitò i sogni di Dante affinché gli uomini, illuminati dalle sue parole, cessassero allora e per sempre di profanarne inutilmente il Ventre alla ricerca dell’Inconoscibile».
Prosegue poi evocando Leida, la sua «Città amante», storica roccaforte dei Paesi Bassi protagonista nella loro temeraria sfida al tirannico dominio asburgico fra il 1572 e il 1574. Con poche pennellate di plastica efficacia evocativa, Bellavista compone un tableau vivant su una pagina storica poco conosciuta, ma non per questo meno fondamentale, che due secoli prima della Battaglia di Valmy dimostrò come una “armata di straccioni” potesse battere il più temuto esercito professionale dell’epoca: «Così venne a incendiare i sogni di Guglielmo il Taciturno, ormai grigi e sfibrati dal lungo assedio. L’indomani Egli, compresa la vera natura del proprio potere, decise di aprire le dighe tra Rotterdam e Gouda. L’acqua, che per lungo tempo gli spagnoli avevano creduta amica e alleata, avanzò, arma perfetta in pugno al vento, sbaragliando tutta l’Olanda Meridionale».
Suggestioni ermetiche sono poi rintracciabili, come un fiume carsico, in altri versi dedicati a Siena, vera e propria matrice di ispirazioni poetiche e letterarie, radice feconda di tradizioni culturali intramontabili, che alimentano la sostanza del ricordo, della nostalgia e del sogno: «Non ti terrò/ma salda a me/già stringo/la meraviglia del tuo nome/potente spezia del pensiero».
Si rivela anche generatrice inesausta di fertile sensibilità creativa: «Sa vegliare/la mia città eletta./Sa colmare di vento/i ventri vuoti della sua terra./Le volute del suo essere/troppo incline al pensiero/sbocciano perenni da una/sempre nuova vertigine».
Analogo l’omaggio rivolto al fascino gotico e rinascimentale di Leida, patria di Rembrandt: «Amo/le città vive di corti./Questa bellezza/è una misura colma di ombre sublimi./Non amo/quelle erette di obelischi/che opprimono il petto di Dio». Annullando la soglia che distingue il sogno dalla realtà, Bellavista colloca Leida in una dimensione metastorica e atemporale, ribaltandone la visuale in soggettiva: «Tu sei frutto e fine/della mia pazzia./Il tuo passaggio esige/il varco alato/di un’allucinazione./Non sei del tempo/mai./Con te mi sento/uomo metamorfico».
Una melodia inconscia e sotterranea
Vale la pena di soffermarsi su questo «uomo metamorfico» adombrato dall’autore dentro la cornice di due città così ricche di memorie storiche, dove i singoli destini individuali si fondono, con limpida sonorità musicale, in una sorta di occulta armonia universale: a Leida «camminerò al fiume/e scioglierò con acqua i sali del pensiero/varerò con essi/i vasti sogni che ho pianto». E ancora nei meandri di Siena si domanda: «Tu/che hai composto/il tutto di cui sei parte./A quale dimensione/si connettono i miei sensi?». Lasciandosi poi trasportare in un labirinto onirico: «Ho sognato/ il sonno della tigre./La grinta del sole antico/nelle sue luci fisse al punto/dove corre e/ricorre il mare», per approdare infine alla meta finale di tutte queste trasformazioni. «E ora so precisamente/dove perdermi»: perdita di sé che significa lasciarsi trasportare dai flutti della percezione (identificata con il flusso e riflusso della marea). Il simbolismo dell’acqua, per il poeta liquido amniotico nell’utero immaginario di Siena Mater, riaffiora costantemente anche lungo i canali di Leida (vero e proprio labirinto fluido che si trasfigura in paesaggio interiore, in mappa emozionale), e tallona l’io narrante, custode di un soffio vitale dentro cui ribolle l’alchimia poetica: «Intriso/dall’eco della pioggia/una corona di gocce mi assedia la fronte/poi lacrimando dal crespo delle labbra/verso la radice del mio passo/che scorre le vie».
In conclusione, la poetica di Bellavista presente in Come uno strappo e ne Il segno e la foresta procede lungo due direttrici: un linguaggio quasi iniziatico che riveste i versi di una segreta melodia, di un respiro interno proteso verso la soglia del sogno, del miraggio, ma anche intessuto di dettagli iperrealisti, e l’esplorazione dei recessi più oscuri delle emozioni, in una ricerca mai appagata del loro nucleo più autentico, dei significati che balenano un istante, come illuminazioni, per poi svanire e inabissarsi nuovamente nella palude del subconscio.
Un terzo occhio oltre la soglia dell’inconoscibile
La poetica di Bellavista continua a evolversi in una tappa successiva, rappresentata da Anatomia dell’invisibile (Edizioni Tabula Fati, 2017), opera decisamente atipica e stilisticamente audace. Definirla come antologia di racconti brevi potrebbe apparire riduttivo: siamo piuttosto nei paraggi dell’apologo fiabesco, della meditazione filosofica, della parabola morale. L’incipit – e qui consentiteci un aggettivo più incisivo del solito – è semplicemente superbo, desta echi delle pagine più veementi del Faulkner de L’urlo e il furore e di Mentre morivo: «La mia faccia si decompone da viva nel tempo come una torta nuziale sotto la pioggia. Gli zigomi si sono fatti estremi come antenne sintonizzate su un qualche evento che dovrà presto riguardarmi, forse la morte stessa. In questa casa vi sono grida di polvere, grida di ragnatele disposte come trine artistiche o pendenti a larghe falde dai telai degli infissi come tende fatte di cascami. Se anche il disordine si ordina ed esprime una qualche rozza intenzione artistica come musica emergente dal rumore è tempo per me di svanire da questa casa che forse non so più governare». In questo primo racconto, intitolato Il contrappunto del gufo e della fenice, una sequela di metafore sincronizzate (dove ogni parola è significante), ci introduce subito nell’interiorità del narratore, un vecchio musicista che sente avvicinarsi la morte. Bellavista sintetizza come in una fotografia, o meglio, in una inquadratura cinematografica, un caleidoscopio di sensazioni rappresentate con tonalità oscillanti fra reminiscenze di un cupo espressionismo decadente (l’incubo dell’invecchiamento paragonato a una torta sfaldata dalla pioggia, gli zigomi ormai sporgenti come grotteschi sensori tesi a percepire il passo felpato della morte, le ragnatele talmente invadenti da assomigliare a veri e propri sudari) e squarci di introspezione psicologica tipici del romanzo postmoderno (il silenzio assordante della polvere, l’idea del morire vista come svanire da una realtà ormai vuota, simulacrale). Rafforzano questa evidenza del segno anche le citazioni pittoriche: le nature morte e gli strumenti musicali impolverati di Baschenis e di Loyeux come allegorie del trascorrere inesorabile degli anni, della falce impietosa del Tempo. E quando si rivolge al suo interlocutore, un giovane giardiniere, il protagonista ricorre alla cruda similitudine fra il lupo affamato, proteso a inseguire la preda, e la velocità del tempo simile a una freccia che sibila nell’aria, inarrestabile: «Ora tu, mio giovane giardiniere, mi dirai che il futuro invece procede in linea retta, è teso come una lancia, che per capirlo in fondo basta guardarsi attorno. Ad esempio mi diresti, prendi un po’ di vento, che, in questa stagione, viene spesso quassù sulle colline a scompaginare le carte e ad uccidere, come è successo il mese scorso, abbattendosi contro un cipresso pluricentenario, risalendo con violenza dalla valle sottostante e percorrendo il bosco con la stessa veemenza di un lupo che si lancia in mezzo al gregge. Basta l’arco di una semplice tempesta a dimostrare evidentemente l’esistenza della freccia del tempo».
Sul limite della vita
L’eterno dilemma della condizione umana su cui incombe la morte, del senso autentico dell’esistere, traspare nell’angoscioso interrogativo che tormenta il vecchio musicista protagonista del racconto, ossessionato dalla prospettiva ineluttabile dell’annientamento finale: «Come può dare senso alla vita sapere che ogni nostra conquista si sfibrerà prima o poi in una stanchezza molecolare e perenne, in uno zero assoluto di emozioni? La conquista di un’emozione o di una conoscenza è un fatto enorme e non può svanire nel nulla: se non percepibile immediatamente nella musica delle cose deve perlomeno lasciare una traccia perenne tra le notazioni del pentagramma. L’universo semplicemente non tende all’entropia e al caos ma si evolve verso l’arte, in un ordine musicale mimetico e profondo per noi ancora inconoscibile ma che esiste certamente. E la materia non è creata, è composta. L’universo non morirà perché esiste il ritmo che di questa composizione profonda è la traccia più evidente, il rumore di fondo. È come un mare che con le sue onde non arriverà mai a riva, perché essa si ritrae nel mistero più velocemente del suo progredire». Quando il cerchio esistenziale si chiude, gli ultimi pensieri del musicista narrante si placano nell’immensità del silenzio, in una nuova musica segreta che non proviene dagli strumenti, ma emana dall’anima in procinto di staccarsi dall’involucro corporeo per addentrarsi nell’ignoto: «Ma c’è qualcosa di nuovo che accade e persiste ai miei sensi un momento prima che tutto mi sfugga deragliando quasi senza dolore dai binari della coscienza, prima che anche il mio corpo si squarci come una fragile diga rovesciando la mia anima verso direzioni sconosciute: per un attimo, per la prima volta prima del buio, nei miei polmoni vuoti respira il silenzio assoluto».
In un altro dei racconti, Dissolvenza in grigio, un anziano pittore, menomato da un ictus, ritrova l’ultimo slancio di una creatività che sembrava ormai quasi atrofizzata: «L’undicesima musa è una calda ombra di seta che vedo danzare sulla parete e sul corpo di mio figlio. Preparo i miei ingredienti cromatici con l’automatismo dei momenti migliori come se non fossero passati anni enormi e pesanti sulle mie spalle, ma solo poche ore».
L’ironia sul male e la morte come trasformazione
In Musa il narrante è, invece, uno scultore rimasto vedovo, che evoca la figura della moglie, di nome Musa. Qui Bellavista getta lo scandaglio nella “cognizione del dolore” (Gadda e Montale sicuramente hanno lasciato qualche prezioso sedimento nella sua ispirazione letteraria), si addentra in una catarsi emotiva che trasfigura l’agonia di Musa in una dimensione fiabesca (la metamorfosi in “bozzolo di Fata”), quasi a voler deridere la morte, non più percepita come salto nel buio, ma come mutazione benefica in qualcosa di altro: «Quando sei entrata in coma nostro figlio ha detto che non saresti tornata. Che eri destinata ad un altro mondo e saresti tornata come fata. C’era dell’ironia, fosse stato il momento: Musa la Fata. Rimasero tutti impressionati da quel piccolo essere, così forte. Io lo sapevo che aveva ragione. L’entrata nell’assurdo, nella terra senza speranza, quella dove si affonda, era avvenuta molto prima, quando si era passati dalle parole come terapia, operazione, trattamento a quelle sempre meno comprensibili e composte come sperimentazione, infusione, carboplatino. Erano per me tanto improbabili quanto il loro esito fausto. Più erano improbabili le parole, più sorridevi. Più perdevo le mie radici aggrappate alla realtà, più mi confortavi. Più le parole mi sconvolgevano e più mi suonavano come sinonimi di una sola: fine, morte. Tu mi prendevi in giro chiedendomele come chiavi di un immaginario cruciverba. Per lui no, la tua sofferenza era come trascesa in una visione: eri un bozzolo di Fata. E ne ridevi. Sarà bello veder nascere una fata dicevi».
Anche L’equilibrio, dove l’io narrante medita con macabro sarcasmo sulla propria, inguaribile malattia, ha un sapore beffardo, tristemente derisorio verso la morte come nel pirandelliano L’uomo dal fiore in bocca. Qui le iperboli costruite da Bellavista risultano particolarmente efficaci, come una serie di scatti che letteralmente “fotografano” le sensazioni del personaggio: l’anima bucata dal male che sperpera fiotti di vita, il tumore paragonato a un fossile insediato nel cranio o a un tartufo immerso nell’humus cerebrale: «Linfoma primitivo. C’è un che di ancestrale in questa sentenza, primitivo come una condanna forse scritta nei geni di qualche mio lontano antenato, magari un pastore transumante come quelli che tremila anni fa percorrevano ogni due stagioni i meandri del fiume che sfocia al mare qui vicino venendo dalle montagne dove ora sorge la mia città. Linfoma primitivo. Da qualche settimana dunque so di avere un foro nella mia anima da cui perdo quantità crescenti di vita. In effetti ho una specie di fossile in testa, ma stranamente ciò non mi suscita immagini mostruose o angoscianti ma piuttosto parallelismi con cose preziose e nascoste. Che so io, un tartufo bianco, un minerale raro o forse un tubero profumato come quello dell’ireos».
Storia di storie sulla materia oscura e i contrasti del vivere
Ne I massi erratici, una coppia si immerge nella contemplazione della natura. Stavolta l’io narrante è la donna, legata a un uomo assai più giovane di lei, e la risalita faticosa verso un qualcosa che è «per metà sogno e per metà chimera» simboleggia l’anelito verso una ritrovata voglia di vivere e di amare, anche se dovesse durare per un solo attimo fuggente: «Il luogo è fantastico, silenzioso, di un verde sinfonico orchestrato in infinite fughe e variazioni, che prorompe da ogni angolo, crepa o anfratto e occupa ogni spazio facendo solo il gioco delle acque, azzurre e limpide, che di contrasto spiccano dalla roccia bronzea come sgargianti pupille sussurranti. Mi chiedo allora chi di noi due Dio preferisca, tu che sali agile il suo masso e fai la tua preghiera di carne, ossa, sangue e sudore o io che manifesto la mia preghiera restando qui davanti in silenzio nell’ombra come un antico orante».
Una definizione esaustiva dell’«invisibile» che Bellavista anatomizza nelle sue pagine, dense di pathos e di riferimenti alla vita quotidiana, colta nelle sue sfumature più vitali (la creazione dell’artista, la bellezza della natura) o al contrario ineluttabili (la malattia, la morte incombente), risulta ardua, complicata. Poliedrico, sfaccettato, talvolta intricato come un sentiero che si dirama in più direzioni, lo stile dell’autore possiede una musicalità ricca di dissonanze, alcune labirintiche, ma proprio per questo affascinanti. Il coinvolgimento emotivo che si intravede in controluce è sempre estremamente sobrio, controllato, anche se la ricercatezza del lessico si concede iperboli narrative ai limiti della sperimentazione. Scrutando le abissali profondità del mondo interiore, Bellavista setaccia gli angoli più riposti della psiche con sopralluoghi solo in apparenza casuali (in realtà costruiti con sapiente dosaggio degli ingredienti narrativi). I suoi personaggi mettono a nudo le loro pulsioni più segrete, come in una seduta psicoanalitica, e cercano tutti disperatamente una risposta alle tante domande che affollano il loro spirito. Del resto, l’invisibile è tale proprio perché non può essere descritto, ma solo intuito a livello quasi subliminale: anatomista che non scava nelle viscere ma nelle anime (e l’anima è, per definizione, incorporea e quindi anche invisibile e impalpabile), Bellavista ci offre stimoli intriganti sul versante della profondità introspettiva, e se talvolta il suo messaggio può apparire criptico, enigmatico, quasi sibillino, è perché tale è la realtà sulla quale lui tenta di gettare un tenue fascio di luce.
Anche la tappa successiva dell’itinerario narrativo di Bellavista, Dolceamaro (Castelvecchi, Emersioni, previsto per l’aprile 2019), è catalogabile come raccolta di racconti, ma, torniamo a ripetere, si tratta di una definizione assai riduttiva, dato che il poliedrico modo di raccontare dell’autore non può essere assolutamente recluso dentro il rigido steccato di questo o quel genere letterario: ci troviamo al cospetto di un narratore che è anche ritrattista di anime, scandagliatore dell’inconscio, esploratore di sogni, fotografo di emozioni, anestetista di dolori e cauterizzatore di ferite interiori. In La città e i suoi falsi santi rintracciamo la morte come entità immanente e imminente nel medesimo tempo, simboleggiata dal buio che si avvicina e dall’immagine desolata del guscio svuotato di luce: «La notte è un cielo che trapassa dal bianco al nero, offrendo allo sguardo un arcobaleno di grigi: devi addestrarti a catturarne le infinite sfumature, ma prima ancora devi abituarti a vederle in modo diverso. Così capirai che ogni modesta variazione di luminosità può svelare qualcosa di insolito o di importante: una porta che si apre, una tenda che scorre, un gruppo di persone che passano. In fondo ogni ombra è il guscio lasciato vuoto da una luce». Anche qui l’io narrante, analogamente all’episodio L’equilibrio in Anatomia dell’invisibile, disquisisce sugli oltraggi che la malattia ha inflitto al suo corpo, e con delirante lucidità li esamina, li soppesa, li distilla nel tentativo di decodificare gli atroci geroglifici che la violenza tellurica dell’ictus ha scolpito nella sua quotidiana esistenza: «L’anima mi è venuta fuori colando dal corpo senza che lo volessi per un fenomeno del tutto fisico. Niente ricerche spirituali, zero crisi esistenziali: peso, Momo, pura materia e puro peso. Dovrebbe essere una grande notizia, l’anima si può estrarre per pressione, basta sia sufficientemente forte, un po’ come si fa per forgiare i diamanti sintetici. È il mio corpo che improvvisamente ha acquistato troppo peso come se avessi cambiato pianeta di residenza e la forza di gravità si fosse aggrappata intorno a me come una piovra. L’ictus ha reso il mio corpo una massa cieca, una massa che è implosa, sprofondata come un gigantesco maglio sui miei pensieri estraendone una specie di olio essenziale, un percolato quasi impalpabile di cui ho imparato che a volte profuma come un’essenza, mentre a volte è orribilmente repellente come il liquido che fuoriesce da una discarica». Il dualismo fra Eros e Thanatos emerge anche dalla cornice quasi scanzonata e libertina di Sale e zucchero: Bellavista focalizza uno scenario decisamente più rasserenante, quello edonista della seduzione, ma non rinuncia a lampi di humour nero (il ripiano metallico su cui avviene l’amplesso, simile a quello di un obitorio) e a riferimenti alla religione e al peccato (le ragazze spiate in chiesa, il senso di profanazione): «Fare l’amore in un panificio è davvero un’esperienza. Mi sentivo più o meno come quando in chiesa guardavo sotto le gonne delle ragazze inginocchiate. I ripiani da lavoro freddi e lucidi in acciaio ci facevano pensare ai tavoli autoptici di una serie americana, in quei locali stretti non si trovava posto e in generale mi sembrava di violare un santuario».
Il commissario M. oltrepassa lo specchio
Concludiamo il nostro tragitto fra le pagine di Bellavista con un’opera ancora inedita, Il colore dello specchio (che, ovviamente, speriamo vivamente di vedere presto pubblicata), e proprio per questo ancora più ricca di stimoli interessanti: ricompare il commissario M., protagonista de L’ombra del caso, nella seconda indagine di una trilogia dedicata ai temi del caso, dello specchio e del labirinto per cui l’autore è ancora in fase di stesura. Suggestivo lo spunto iconografico scelto: si tratta di un celebre dipinto del pittore romantico Johann Heinrich Füssli, intitolato L’incubo, che raffigura un demone dall’aspetto orribilmente scimmiesco appollaiato sull’addome di una splendida fanciulla addormentata. E sono demoni della mente quelli che Bellavista insegue in questo thriller atipico, sofisticato e stregonesco. Un inquietante paesaggio, di una città come sempre immaginaria, denso di sentori di minaccia, introduce il lettore in una dimensione allucinata, da fiaba nera dedicata a soli adulti: «L’eden si interrompeva bruscamente sul ciglio della collina. In quel punto scomparivano gli alberi e l’inappuntabile prato all’inglese che circondava la chiesa e il piccolo cimitero nelle sue immediate vicinanze faceva bruscamente i conti con l’avanzata della città e precipitava a ciuffi sempre più radi e secchi come una cascata smeraldina nella scarpata di pietre aguzze che scendeva quasi a perpendicolo giù nell’ombra verso i basamenti del ponte. Gli ultimi disperati ciuffi d’erba, nati al momento sbagliato nel posto sbagliato, sembravano affondare le loro radici nel nulla, traendo sostentamento solo dall’aria». Segue un’agghiacciante scoperta in un canale abbandonato, in cui compaiono per la prima volta gli specchi presenti nel titolo del romanzo, nonché quattro cadaveri imbalsamati, dai volti alterati mediante la chirurgia estetica prima del decesso: «Ai due lati della scena, uno di fronte all’altro, campeggiavano due grossi specchi rettangolari racchiusi in due pesanti cornici di legno dorato. Gli specchi collimavano al millimetro e riflettevano l’uno l’immagine dell’altro. E quei quattro cadaveri là nel mezzo assumevano l’aspetto di una interminabile teoria di morte moltiplicata all’infinito». Spetta ancora a M. indagare su questa macabra scoperta, e il cinico disincanto sfoderato nella precedente investigazione non fa che rafforzarsi nel personaggio: «Una volta gli avevano spiegato come fare l’investigatore significasse in ultima analisi trovare soluzioni ai problemi che si presentavano sulla sua strada, ma quando quella passeggera nuvola di depressione e passività oscurava il cielo della sua anima e tutto sembrava sfuggirgli di mano, si chiedeva se non gli accadesse piuttosto il contrario, ovvero di cercare problemi da abbinare a soluzioni già impostate da altri». La tenacia di M. sarà di nuovo la sua carta vincente: e sarebbe inopportuno rivelare adesso i singoli tasselli del puzzle che Bellavista compone pagina dopo pagina per rivelare la soluzione dell’enigma dopo una sequenza incalzante di strani e terribili eventi che si dipaneranno in Scozia, Cina, Olanda e Francia. M. finisce per scoperchiare un orripilante sarcofago in cui fermentano i veleni sprigionati da odio familiare, delirio di onnipotenza, pulsioni sadiche e sete di vendetta. Il messaggio finale è magistralmente condensato in un passaggio che proietta la simbologia dello specchio nelle degenerazioni attuali di una tecnologia sempre più invasiva (e persuasiva) nel suscitare una mutazione virale di massa verso il consumismo compulsivo da zombie: «Lo specchio era un malizioso maestro che insegnava a riflettersi negli altri. Insegnava a sovrapporre agli altri la propria immagine, a capire se gli altri erano disponibili ad accettarla e a rifletterla così com’era; e a diffidare di chi non lo faceva. E la tecnologia con l’avvento degli smartphone aveva moltiplicato all’infinito quegli specchi, rendendoli anche capaci di dialogare in tempo reale con infiniti altri, dotandoli di memoria. Un infinito tunnel di specchi».
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno XV, n. 157, febbraio 2019)