Da molti anni Luca Giuman risiede in America Latina e divide la sua vita tra la città di Bogotà, dove lavora con le Nazioni Unite, e Medellín. Lo incontriamo nel suo appartamento, un quarto piano sottotetto con finestre affacciate su chiome d’alberi. Il suo spazio di lavoro, una stanza dal soffitto alto orientato a sud, lo condivide con la moglie. Le pareti sono ricoperte da disegni infantili e da mensole occupate da libri in varie lingue, testi di filosofia orientale e manuali accademici di comunicazione.
Ha lavorato su Giù dal cielo la mia anima (La Vita Felice, pp. 304, € 20,00), il suo secondo romanzo pubblicato recentemente in Italia, per quasi dieci anni e ne parla come farebbe un padre che vede una figlia abbandonare la casa per andare a studiare in un’altra città. Sembra che in lui contrastino la volontà di liberarsene per far sì che il libro possa avere vita propria e un affetto profondo, quasi possessivo, per i suoi personaggi che gli impedisce di separasene.
Ambientato nella Parigi dei nostri giorni, tra quartieri e comunità di emigrati, Giù dal cielo la mia anima è un romanzo d’amore non convenzionale che narra le vicende legate alla relazione tra Antonio e Yamina; un amore destinato inevitabilmente a ferire entrambi.
Antonio è italiano, ma vive a Parigi dove fa il prostituto part-time e ha una figlia di cinque anni, Lucía. La madre di Lucía «ha provato a volare a modo suo» e non è più tornata. Antonio è convinto che si sia gettata nella Senna. Il caso decide di concedergli una seconda occasione, insieme a Yamina. Di origine algerina, specializzanda in Cardiologia, è una giovane donna indipendente, sognatrice, l’emblema di una generazione che è più propensa a immaginarsi una vita ideale che non a compiere delle azioni vere e proprie, necessarie per costruirsela. Ma Antonio avrà, questa volta, il coraggio per ricominciare ad amare?
Incalzante, drammatico e ironico, Giù dal cielo la mia anima capovolge i tradizionali ruoli di genere e presenta un vibrante coro di amori deragliati, narrati dalle voci di migranti e altri personaggi ai margini della società che sono alla ricerca di un’opportunità che li metta in salvo.
Giù dal cielo la mia anima è anche il frutto di una collaborazione con Bottega editoriale, agenzia letteraria che ha già rappresentato il primo libro dello stesso autore, Ho imparato a uccidere a vent’anni (Città del sole), un romanzo che narra le violente vicende di Sebastián, giovane reclutato dagli eserciti paramilitari della Colombia degli anni Novanta.
Durante la nostra conversazione, abbiamo posto all’autore alcune domande sull’essenza della sua scrittura e sull’origine del suo secondo romanzo.
Ci racconti delle sue origini e delle ragioni per cui ha lasciato l’Italia.
Sono nato a Venezia, nel quartiere di Castello, da una famiglia tradizionale in cui si parlava spesso in dialetto. In casa non mancava nulla. Ho avuto un’infanzia estremamente privilegiata.
Sono stato bambino negli anni Ottanta, quando c’era un gran fervore economico e ottimismo in Italia. La città per un bambino era una gioia. Noi bambini venivamo lasciati liberi. Mia madre racconta che a tre anni ho deciso di andare all’asilo da solo, a piedi. Se lo immagina? E la cosa era possibile. Non c’erano rischi, i vicini e i negozianti ci conoscevano. Quella libertà era un privilegio. Si tornava da scuola e, dopo i compiti, di nuovo in strada fino al tramonto. Campi, calli e ponti erano il nostro parco giochi. La città ci sembrava infinita. E poi c’era il mare per l’estate e le Dolomiti poco distanti.
Ma quella stessa città, che era un magnifico scenario d’avventura per un bambino, divenne un ambiente angusto per un adolescente proclive alla depressione. Mi ci sentivo stretto, non trovavo un mio spazio. Gli anni del liceo sono stati difficili. Si beveva molto e avevo l’impressione di una vita senza rotta. Così, dopo la maturità, ho lavorato per qualche mese in un bar e poi mi sono trasferito a Roma con l’idea d’essere poeta. Esserlo dentro. Capisce? Non semplicemente scrivere poesie; proprio vivere poeticamente. Ero troppo inquieto per sedermi e scrivere con giudizio. Per scrivere serve una serenità di spirito che non avevo. E non trovando ciò che cercavo, mi sono poi trasferito a Madrid. Non voglio ora tediarla con le varie tappe della mia vita, però posso dirle che da allora non mi sono mai fermato molto a lungo in una città. In quattordici anni, ho contato più di una trentina di appartamenti in cui ho vissuto per periodi più o meno prolungati.
Per due anni ho vissuto a Parigi, città che ispira questo romanzo. Nel frattempo ho studiato e poi ho trovato un lavoro che mi richiede di muovermi da un paese all’altro. Ora vivo in Colombia con la mia famiglia. Ho trovato un po’ di serenità, credo. Sto invecchiando e ho imparato a smetterla di cercarmi tanti problemi. Ero stanco dei problemi.
Di cosa parla Giù dal cielo la mia anima?
Giù dal cielo la mia anima è una storia d’amore. La vicenda è piuttosto semplice: il protagonista, Antonio, è un uomo divenuto padre a poco più di vent’anni. Ha una figlia di cinque che si chiama Lucía la cui madre ha abbandonato entrambi.
Antonio fa il prostituto e altri lavoretti per campare. In fondo Antonio è un personaggio bugiardo. Non riesce ad accettare il proprio insuccesso e per questo tende a reinventare la sua vita. Non è facile credere a quello che racconta e inoltre soffre di bipolarismo, per cui anche il suo carattere e la sua percezione della realtà tendono a fluttuare.
In un viaggio a Madrid, Antonio conosce Yamina. E questo incontro avviene in un momento un po’ complesso della vita di lei. Yamina ha da poco lasciato il suo compagno e una notte, in un vicolo, ha avuto un incontro sessuale con uno sconosciuto, rimanendone incinta.
Per cui abbiamo questo prostituto ragazzo padre e questa studentessa di Cardiologia incinta di uno sconosciuto che si incontrano su un bus e in qualche modo trovano nell’altro qualcosa.
Questo incontro, a livello metaforico, rappresenta la loro opportunità di ricominciare una vita diversa.
Al ritorno a Parigi, in modo occasionale, si incontrano di nuovo. Escono insieme. Fanno sesso. Si innamorano. Ciò che ci si aspetta da una coppia giovane… ma c’è una vita sommersa di cui non parlano. La nuova relazione si basa su presupposti erronei e verità sottaciute. Il loro più grande errore è che iniziano ad abituarsi l’uno all’altra anche se sono perfettamente coscienti che la loro storia non va da nessuna parte.
Questa è l’essenza della relazione tra i due protagonisti, di cui preferisco non svelare altri dettagli.
Questo amore ha tinte piuttosto cupe, per via dell’aspetto a volte grottesco della prostituzione. È per questa ragione che ho sentito il bisogno di creare dei personaggi satellitari che portassero ossigeno al romanzo. Da questa necessità nascono coloro che fanno da famiglia surrogata ad Antonio e Lucía. Si tratta di persone marchiate a loro volta da un amore perduto, e senza dubbio sono personaggi poco comuni: una transessuale cubana, un cileno misogino, un filosofo che ruba nei supermercati…
Come è nato Giù dal cielo la mia anima? Perché quasi dieci anni per scrivere questo libro?
Come lei dice, Giù dal cielo la mia anima è stato iniziato esattamente dieci anni fa e prima di mettermi all’opera ci avevo già pensato su per circa un anno. Era qualcosa che si muoveva dentro da tempo e quando ho iniziato a vivere a Parigi ha subito trovato forma.
Ho scritto freneticamente per otto settimane in un appartamentino di quaranta metri quadri che condividevo con un americano; io avevo una stanzetta senza finestre e dormivo su un letto che nemmeno aveva un materasso. Era una vita molto austera e non c’era nulla a distrarmi.
Quando ho finito il libro, l’ho fatto leggere a due, tre persone e, quando sono stato io a rileggermi, circa un anno più tardi, ho realizzato di essere uno scrittore rudimentale e che non valeva certo la pena provare a pubblicarlo.
Il libro ha dunque dormito per cinque anni. Dopo l’uscita del mio primo romanzo, una persona vicina ha letto Giù dal cielo la mia anima e mi ha invitato a lavorarci un po’ su. Mi sono detto: «Ma sì, con qualche mese dovrei farcela». E poi credevo nella storia, a distanza di tanto tempo mi sembrava ancora buona. Non avevo fatto però i conti con il livello di esigenza a cui ero giunto durante gli anni. Così, invece di pochi mesi, ho dedicato tre anni a riscrivere il romanzo.
Avevo deciso fermamente di preservare lo spirtito e la freschezza originaria. Non volevo tradire la persona che lo aveva scritto. Il problema è stato questo: come riscrivere tanto tempo dopo la stessa storia, preservandone lo spirito?
E poi mi ritrovavo tra le mani questi personaggi, alcuni così distanti. È stato molto complicato conservarne l’ironia, a volte il cinismo. Ho insistito solo perché mi sembrava un passaggio obbligato per tagliare definitivamente con la giovinezza e un passato a cui non appartengo da tempo.
Durante il cammino sono caduto in un altro periodo di forte depressione, ho dovuto sospendere la scrittura e tutto il resto, a essere sincero: questo ha prolungato ulteriormente i tempi. Dunque Giù dal cielo è un romanzo scritto in un arco di dieci anni. Nato dall’urgenza dei venti e prodotto poi con l’ostinazione dei trenta.
Si immedesima in qualche personaggio?
No, sono tutti molto distanti da me. Al principio, e le parlo del romanzo scritto dieci anni fa, la mia volontà era che Antonio fosse il corpo del mio desiderio letterario e un lato oscuro, e che Yamina riflettesse i miei studi, di carattere molto più umanitario e umanistico. L’altra parte di me. Ma poi i personaggi hanno determinato un cammino proprio. Hanno fantasmi propri, alcuni certo sono i miei, ma altri non mi appartengono.
Antonio ha molti dei fantasmi che mi trascinavo dietro quando vivevo a Parigi. Parlo di amori perduti, di sradicamenti e abbandoni, ma la natura del personaggio è quasi al polo opposto di dove mi trovo ora.
Credo d’aver trovato la chiave del romanzo quando ho capito che con loro volevo capovolgere alcuni ruoli di genere. Quando ho deciso che volevo che le due voci parlassero chiaramente della mia generazione e di come amiamo. Ma anche della gran confusione nella mente dei giovani e di un’altra cosa molto nitida per me: di una generazione che ha stentato molto ad assumere responsabilità e che si è giustamente rifiutata di incarnare i ruoli di genere tradizionali.
Quando questi elementi mi sono apparsi chiaramente, ho inizato a vedere nel romanzo una generazione, e non me, ma ciò che mi circondava. Ho provato a lanciare nella storia il mondo degli emigranti e un po’ alla volta questo ha dato forma a un romanzo che parla di un amore che credo ci rappresenti.
È stato difficile per un uomo descrivere un personaggio femminile, come quello di Yamina?
Yamina è un personaggio di cui mi sono innamorato. Era un’idea. Ed era la fusione di persone reali. Conoscevo veramente qualcuno che viveva in una vecchia stazione dei pompieri. Il personaggio di Yamina per me è sempre stato chiaro. Una persona difficilmente domabile, impulsiva, molto fisica e legata ai sensi. Una donna che per sapere dove si trova deve annusare le cose.
Antonio invece è stato una croce. Dove trovare le parole per quest’uomo che è sbilanciato, perduto, che non sa prendere decisioni, che non vuole essere padre? Antonio è stato veramente un problema nella genesi del suo personaggio. È stato difficile sostenerlo. I miei sentimenti verso di lui sono sempre stati confusi. Non te ne puoi innamorare, ma non riesci a disprezzarlo fino in fondo. Non puoi comprenderlo, né agire come lui, eppure il suo carattere tenace e giovanile costituisce ancora per me un modello con il quale confrontarmi e mettermi in discussione. C’è qualcosa che attrae, come attrae sempre il desiderio di morte, bilanciando l’eros.
Spesso, tra le pagine di un racconto, si riconosce un fondo autobiografico. In quale personaggio Luca Giuman si riconosce maggiormente? E, a tal proposito, è particolarmente affezionato a uno dei suoi personaggi?
Due cose sono totalmente reali nel romanzo, le emozioni e la città. E in questi due elementi mi rispecchio completamente.
Parlando delle emozioni, le posso dire che mi riconosco nei sentimenti dei miei personaggi. Le loro emozioni sono reali. Sono cose che ho provato o trasfigurazioni di un universo intimo. E questa è la magia nera della letteratura, l’Io può moltiplicarsi, proiettarsi in altre vite e diluirsi.
Mi ricosco in Antonio quando parla dell’abbandono della madre di sua figlia. Quella sensazione di perdita è reale. La coscienza di aver lasciato andar via una persona che aveva un gran valore, d’esserne responsabile, di non aver lottato a sufficienza per salvarla e per salvarsi.
Riconosco come vero il modo in cui Yamina lo ama. Credo che ci sia stato un tempo in cui qualcuno mi ha guardato come lei guarda Antonio. Questo amore inevitabile, che non c’è dubbio che finirà per farti soffrire, ma da cui non sei capace di liberarti.
Deve pensare che questi personaggi hanno vissuto dentro me per dieci anni. È ovvio che mi ci sia affezionato, però rappresentano l’amore nocivo di cui le parlavo: quando si riesce infine a liberarsene, si sente una grande sensazione di sollievo, qualcosa di rigenerante. Sono felice ora di lasciarli andare. Non torneranno più. Preferisco non sentirne più parlare. Sono cose passate e il passato è solo una creazione della mente.
E come le dicevo, Parigi è reale. Descrivo la città così come l’ho vissuta. Ne parlo come di un essere vivo e in costante trasformazione. Parlo di una città di immigrati. E parlo di una città dove è bello riflettere. Penso che Yamina lo dica in un passaggio:
«M’era sufficiente passare per le stradine retrostanti la basilica, con il naso rivolto verso i camini, per essere sicura che questa città fosse la metafora di tutte le contraddizioni che rendono degna d’essere vissuta l’esistenza».
E l’ho creduto e provato intimamente. Parigi è così contraddittoria e densa che non può che affascinare una persona sinceramente incuriosita dalla vita.
Ha dei modelli letterari?
Certo che ho dei modelli. Da alcuni anni, ho dei modelli molto ben definiti: si tratta per lo più di scrittori che hanno spinto la frontiera della narrazione realista più in avanti. Tra i classici russi, senza dubbio mi sono formato con Anton Cechov e Lev Tolstoj, tra gli americani ora provo a seguire gli esempi di Richard Yates, Raymond Carver, Tobias Wolff, Richard Ford, Andre Dubus; anche Cormac McCarthy ha avuto una grande influenza su di me nell’ultimo periodo. Tra gli italiani, Beppe Fenoglio è un autore a cui ritorno costantemente.
Mentre, di molti anni di letteratura latinoamericana, il solo autore che abbia lasciato una traccia credo sia Roberto Bolaño. Se non condivido più il suo stile, mi trovo invece sostanzialmente d’accordo con il pensiero filosofico della sua opera.
Per quanto riguarda Giù dal cielo la mia anima, invece, non credo che si tratti di un romanzo facilmente categorizzabile. Non risponde a un genere. Esce un po’ dalla tassonomia, forse perché nel libro confluiscono molti anni e diverse correnti. Credo che adotti alcuni elementi di Henry Miller e di Pedro Juan Gutierrez, si sente la presenza di Bolaño, e c’è qualcosa di Antonio Lobo Antunes.
Non lo dico per compararmi a questi autori. Non credo di essere all’altezza di nessuno di loro, però la narrazione in prima persona e alcune scelte sintattiche vengono da questi modelli, così come il cambio di punto di vista e l’idea di un romanzo polifonico. Recentemente ho letto un’opera di Charles D’Ambrosio, un autore brillante. Non lo conoscevo quando ho iniziato a scrivere Giù dal cielo la mia anima, ma le sue atmosfere credo che si avvicinino molto a quelle di questo romanzo. Abbiamo un modo simile di descrivere la solitudine e la relazione tra spazio ed emozione.
Il contesto geografico del romanzo è Parigi. Ha scelto questa città per un motivo particolare?
Guardi, il germe di tutto era il desiderio di scrivere una storia d’amore non convenzionale, ma credibile per la mia generazione.
L’opportunità di scriverla si è data nel momento in cui mi sono trasferito a Parigi, e quando ho iniziato a viverci ho riflettuto sul fatto che i personaggi a cui avevo pensato avrebbero trovato uno spazio giusto in quella città.
Per un lungo periodo, Parigi è stata il fulcro dell’arte, un passo obbligato per chi aveva l’aspirazione a diventare un artista. Per questo, anche prima di andarci a vivere, rappresentava qualcosa di vivido nel mio immaginario. Per me era la città di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, e ancora il luogo dove Modigliani e Picasso avevano deciso di vivere. Per non parlare di una delle migliori generazioni di scrittori americani, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, più tardi Henry Miller, e Julio Cortazar in primis tra i latinoamericani.
Quando ero un ragazzo e li leggevo, mi dicevo: «Un giorno devo andare a viverci. Devo capire perché ha ispirato tanti autori».
La Parigi che io ho conosciuto non era certo in piena forma. Erano gli anni delle crisi delle periferie. La città aveva perso smalto. Non attirava più molti artisti. In quel momento, Barcellona stava passando di moda e credo che fosse Berlino la città più dinamica.
Però, Parigi ha atmosfere profondamente poetiche. È una città esteticamente splendida e molto colta. Mi sono spesso sentito insignificante e popolano quando mi sedevo a discutere con i parigini o gli studenti, francesi e non.
Non potevo certo parlare di una classe sociale a cui non appartenevo. Non sono mai stato fatto per i caffè letterari e i circoli intellettuali. Però ho sempre amato camminare e i quartieri di Parigi che più ho amato erano quelli ad alta densità di immigrati africani, magrebini soprattutto. Parlo di Chateau Rouge, di La Chapelle. In quei quartieri mi sentivo più a mio agio. Vi trovavo dei volti di cui volevo parlare. Delle storie che valeva la pena conoscere. Avevo anche parecchi amici che erano immigranti sudamericani.
Per questo, la mia Parigi è una città poco francese e multiculturale. Ho parlato di ciò che ritenevo di conoscere meglio.
Dopo Ho imparato a uccidere a vent’anni, Giù dal cielo la mia anima è il suo secondo romanzo. Quali sono le differenze tra i due romanzi?
Devo essere sincero. Ho pubblicato Ho imparato a uccidere a vent’anni troppo presto. È stato un romanzo che, come il successivo, ho scritto d’istinto. Credo di averlo terminato in tre mesi, e di aver immediatamente cominciato un lavoro di editing durato un paio di anni. Non ho avuto il buon senso e la prudenza di lasciarlo riposare per un certo periodo prima di pubblicarlo.
Lo stile di Ho imparato a uccidere a vent’anni è realistisco e la sua struttura narrativa lineare. In quel periodo leggevo quasi esclusivamente autori colombiani; parlo di Alfredo Molano, Arturo Alape, Evelio Rosero, Alvaro Mutis, e questi autori mi hanno insegnato a scrivere con il linguaggio della gente di campagna, delle persone umili, le sole che mi abbiano veramente interessato in Colombia; ma il libro è frutto anche di una profonda ricerca accademica e dell’ascolto diretto di alcune testimonianze.
In quegli anni ho letto quasi ogni cosa che venisse pubblicata sul conflitto armato. Parlo di testi di scienze politiche, di storia e molti giornalistici. Volevo parlare della guerra e farlo conoscendo ciò di cui stavo parlando. Volevo farlo con gran dignità perché lavoravo con molte famiglie di sfollati e conoscevo varie persone che avevano perso un famigliare durante il conflitto. Volevo trattare il tema con rispetto e oggettività. Credo di averlo fatto. Dal punto di vista morale, non ho nulla da rimproverarmi. Ho imparato a uccidere a vent’anni è un’opera moralmente matura e sensata, nonostante fossi ancora piuttosto giovane. È un romanzo molto compassionevole e credo esprima una tragicità universale.
Mi piacciono i suoi personaggi. Credo che il libro combini bene componenti tragiche e altre ironiche, ciò che contraddistingue i colombiani, capaci di ridere anche nei momenti più difficili.
Però, come scrittore, come artigiano della scrittura, avevo ancora alcune cose da imparare. Credo che, se avessi avuto più pazienza, avrei potuto farne un’opera più snella e dinamica. Forse avrei evitato alcuni errori. Sarei stato più parco. Avrei fatto più economia nella parola. E questo mi dispiace. Nella versione spagnola del libro, che spero possa essere pubblicata presto in Colombia, vorrei rimediare ad alcuni di questi errori.
Giù dal cielo la mia anima, invece, è un’opera curata in ogni dettaglio. Mi sono dato tutto il tempo necessario per limarla. Nulla è lasciato al caso. Ho riscritto alcuni capitoli quattro o cinque volte e la maggior parte di essi è stata revisionata più di trenta o quaranta volte. Ho provato a togliere ogni parola superflua. Ho ridotto le frasi ad una struttura minimale. E questo credo dia al libro un dinamismo diverso. Non è una lettura semplice, ma credo che lo stile spinga a una lettura rapida.
Contrariamente a Ho imparato a uccidere a vent’anni, la morale soggiacente è meno evidente. L’ironia e l’assurdità di alcuni personaggi rischiano di appannare alcuni messaggi. L’ho voluto così. Non volevo essere pretenzioso.
Credo che il passare da scene morbose ad altre di natura più poetica e da momenti tristi a scenari d’ilarità faccia sperimentare al lettore o lettrice un’imprevedibile alternanza di emozioni. Questa struttura narrativa impedisce infatti di immaginare cosa succederà nel capitolo sucessivo.
In Giù dal cielo la mia anima ho anche deciso di usare una narrazione con molteplici punti di vista. Volevo che altre voci rinforzassero il messaggio centrale del romanzo. A voi il compito di giudicare se l’esperimento sia riuscito.
Amori sbagliati, seconde occasioni. È possibile ricominciare?
Ricominciare? Sì, anche se non per i personaggi coinvolti in questo romanzo.
I personaggi dei miei libri sono soggetti a una legge semplice di causa-effetto. Come sa, questa non è solo una legge fisica, ma morale e filosofica. Nella cultura buddista si parla di karma, che non è nient’altro se non la responsabilità personale di fronte alle proprie azioni. Il pensiero, la parola e le azioni hanno conseguenze da cui non si può fuggire. In questo senso siamo, in gran parte, responsabili della nostra felicità o della nostra sventura.
Il passato esiste solo nella misura in cui la nostra mente non lo abbandona. Questo è un elemento centrale del libro e, per rispondere alla sua domanda, sì, è possibile ricominciare, ma la condizione necessaria è quella di sanare il proprio passato o abbandonarlo.
La mente d’Antonio, invece, è intossicata dal passato. La vita di chi lo circonda è fortemente condizionata da amori che non si possono dimenticare.
Ma sono veri questi amori? Com’è possibile che, per amare, una persona diventi “meno libera”? Perché per amare è necessario appartenere a un altro? Perché aver amato contamina il nostro presente?
Ciò che non dico esplicitamente, ma che spero che il lettore intuisca, è che questi amori deragliati sono sentimenti che non coincidono con l’amore. Sono ossessioni, riflessi dell’ego, modi compulsivi di relazionarsi con gli altri. L’amore di questo libro non rende liberi, ma costituisce una catena.
È un modo assai comune, ma totalmente sbagliato, d’amare. Molto latino: gelosia, struggimento, rimpianto, anni di lacrime per una persona che ci abbandona. Ne risultano dei personaggi infelici, mai soddisfatti.
Yamina è diversa, ma paga le conseguenze di non aver il coraggio di separarsi da una persona che non può far altro che nuocerle.
Credo che nella vita sia possibile rialzarsi tutte le volte in cui si trova l’energia per farlo. Ma quando il passato è carico di fantasmi, è necessario lasciarlo andare per potersi rialzare.
Se si è coscienti che il nostro presente è determinato dal nostro passato, allora si può modificare profondamente il nostro comportamento presente per costruire un futuro dove la serenità e il benessere prevalgono.
Nel buddismo si parla di accumulare crediti positivi, di costruire un karma favorevole, e questo si realizza tramite il pensare, parlare e agire in modo corretto e a beneficio degli altri; la compassione è infatti un elemento centrale in questa filosofia. Nella cultura cattolica si parla di seguire la retta via, di fare buone azioni. Tutto ciò fa parte di un percorso spirituale difficile. Cambiare è difficile. Modificare i meccanismi che avvelenano la mente è difficile. Placare l’ansia della mente è difficile. I personaggi di Giù dal cielo la mia anima affrontano queste difficoltà e questi dilemmi, ma pochi hanno la maturità per mantenere nel tempo lo sforzo necessario a ricominciare. In modi diversi, rappresentano tutti esempi da non seguire.
Non volevo descrivere angeli, ma persone che attraversano una fase difficile, perché credo che questa sia la situazione in cui si trova la maggior parte di noi. Alcuni sopravvivono, altri sprofondano.
Bottega editoriale
(direfarescrivere, anno XI, n. 116, agosto 2015) |