«“Il vostro Dio non mangia, tanto è assorto nei suoi pensieri, e della sua pace non so che farmene. Non sapete, voi, che io vivo di guerra e la pace mi disfarebbe?” Così si sentì rispondere il furbo frate che, in accordo con il Capitano Ugo De Cardona, cercava di blandire l’arcigno fante galiziano, che già sotto le mura di Granada aveva scannato tanti di quei Mori che nessuna pietà gli era amica, a retrocedere dal suo intento di non impegnarsi nell’imminente battaglia. Parlava a nome di tutta la compagnia, il mercenario, e sapeva bene che in quel momento lui e i suoi accoliti avevano una forza di ricatto che non possedevano tutti gli eserciti messi insieme. I soldati spagnoli da poco avevano guadato il Petrace e si stavano disponendo in battaglia sulla piana di Seminara. Quando tutto, improvvisamente, si fermò. Le compagnie si rifiutavano di combattere perché da ben otto settimane non ricevevano il soldo. “Come? Credete di dir bene pregando che Dio mi faccia morir di fame?”. Parlò, con piglio sudato, il soldato al frate, perché De Cardona intendesse. “Non sapete che noi viviamo di guerra, che il nostro Dio è il danaro e che solo davanti al suo altare siamo disposti a inchinarci?”».
L’incipit di questo romanzo storico ci coinvolge subito con la magistrale descrizione del campo di battaglia cinquecentesco, dove si fronteggiano gli eserciti spagnoli e francesi. Il Gran Capitán e il mistero della Madonna Nera (Rubbettino, pp. 264, € 14,00) è il quarto romanzo di Santo Gioffrè, medico appassionato di letteratura che con l’attuale casa editrice di riferimento ha già pubblicato Leonzio Pilato e La terra rossa.
Una pianura assolata teatro di una furiosa carneficina
Nel solco tradizionale del romanzo storico, in cui si cesella una raffinata ricostruzione anche linguistica, Gioffrè ci trasporta nella Calabria del XVI secolo: «Era il 20 aprile del 1503 nella piana del fiume Petrace. Le colline che scendevano dalla città erano ricoperte da giganteschi alberi di ulivo, esemplari di una strana varietà e ricercato, diabolico marchingegno agrario creato, nei secoli, dagli abitanti di quelle terre per sentirsi più vicini a Dio nei giudizi, nelle condanne e nelle infami tragedie che perpetravano verso gli altri uomini».
La raffinata tecnica narrativa dell’autore viene incontro alla sensibilità del lettore moderno, evocando lo scenario degli eventi con straordinaria intensità nelle tonalità cromatiche della natura, negli odori emanati da luoghi e persone, nel fermento incessante dell’odio e della violenza di una guerra senza quartiere: «L’acqua, che tutto invadeva ai suoi margini, perché gli uomini potessero decidere se morire o vivere in quella pianura, era insidiosa come la tosse persistente senza apparente causa. Il Petrace, insomma, portava insieme la vita e la morte: frutteti di ogni genere, campi di grano e olio davano la sensazione di vita beata; la malaria che lì era endemica, dava morte orribile. Si trattava solo di voler e poter scegliere».
E ancora, in una sospensione temporale gravida di tensione, scandisce gli interminabili istanti che precedono lo scatenarsi della mischia: «D’Aubigny assaporò il sole tiepido del mattino, in una giornata di cielo sereno, ma dopo che la brina ebbe ceduto il posto alla luce che sapeva già di rosso sangue, avvertì subito fastidio agli occhi per i raggi del sole, come se, di colpo, la luce stessa fosse messaggera di cattive nuove». La devastante potenza di fuoco degli archibugi determina la vittoria degli spagnoli, e una settimana dopo consente al protagonista del romanzo, il Gran Capitán Consalvo Fernandez da Cordova, comandante dell’esercito spagnolo nel Mezzogiorno d’Italia, di rompere l’assedio di Barletta e di sbaragliare un’armata francese quattro volte superiore di numero nella battaglia di Cerignola, grazie alla supremazia degli archibugi e dell’artiglieria leggera sui picchieri svizzeri, falcidiati a distanza senza poter reagire. Al termine di quel fatidico 1503, la seconda grande vittoria di Consalvo al Garigliano sancisce definitivamente per la corona di Spagna la conquista del regno di Napoli.
Le segrete ambizioni di un soldato di ventura
È Consalvo stesso a narrare in prima persona la disfatta subita otto anni prima, in quella medesima spianata, e contro lo stesso comandante francese, D’Aubigny: «Quel caldo soffocava perché non trovava sfogo, imprigionato com’era tra le alte montagne dell’Aspromonte. Il calore che si sprigiona nella Calabria inferiore non sa integrarsi con gli uomini e gli animali: brucia e basta. La calura asfissia persino chi cerca rifugio tra le fonti che scaturiscono, copiose, dalle crepe della terra fatta solo di quell’argilla che la rende danzante e mobile dopo ogni terremoto e che la porta a scivolare, con uomini e cose, dentro il mare viola come la morte dove anche l’empio Odisseo sfidò la sua stessa superbia. L’alba che si levò il 21 giugno del 1495 seppe di tragedia. Il sole si rese insopportabile sin dal mattino. Il fiume, non carico perché in vapore si era dissolto per metà della sua portata, sembrò fermarsi, vagabondo e sonnolento sul ghiaioso piano, tra acquitrini, pozzanghere, raccolte melmose e paludismo. La presenza della malaria si poteva coglier infatti in ogni loco, tra le antichissime felci dai forti colori, le canne urlanti il segreto di Oreste e i pioppi, dritti ed altezzosi che, a volte, sui margini del fiume, con i fichi selvatici, si denudavano nelle proprie radici quando l’acqua erodeva la terra che li nutriva».
Ferito in battaglia e in preda alla febbre malarica, Consalvo trova rifugio presso donna Carlotta, castellana di Seminara: fra i due divampa subito una passione infuocata. Nel Santuario bizantino di Nostra Signora Orante di Seminara, il gran capitano spagnolo si trova al cospetto di una statua della Madonna, e, fatto insolito per un militare incallito come lui, ne rimane estasiato: «Il colore degli incarnati della Vergine, intensamente rosato, dava luminosità al volto che mostrava i lineamenti di una donna molto giovane. La statua era antefissa, all’interno di una nicchia dell’altare. Ebbi un attimo di smarrimento, io rude uomo di guerra, di fronte a tanta intensa bellezza e santità». Mentre, paziente e tenace, compone uno per uno i tasselli del mosaico della sua rivincita contro i francesi, Consalvo si sente investito di una sacra missione, e, probabilmente, destinato a fondare una nuova dinastia.
Dopo la vittoria di Cerignola e il trionfale ingresso a Napoli, Consalvo si concede il meritato riposo del guerriero a Seminara, fra le morbide braccia di Carlotta, ma apprende che la statua della Vergine è stata trafugata. Per rimediare al sacrilegio, affida a uno scultore calabrese, Anselmo Crisostomo, il compito di realizzare una nuova statua della Madonna Nera: «La guardai e vidi una Madonna seduta in trono, frontale, ieratica e trionfante, con lo sguardo perso oltre gli uomini ed un Cristo col corpo di bambino ma col volto quasi di uomo, seduto sul suo grembo. Le sue mani stavano protese senza toccare il figlio. Vidi in Lei e di Lei il Verbo che si fece trono di sapienza. Un ampio manto Le ricopriva il capo e, appoggiandosi rigido sulle spalle, scendeva verso il basso, suddividendosi sul busto per, poi, sovrapporsi sulle ginocchia ove il Cristo, seduto, stava».
Un gioiello letterario che intriga, affascina, commuove
Secondo la cronologia ufficiale, Consalvo rinunciò alla carica di Viceré di Napoli nel 1507, e si spense a Granada otto anni dopo, all’età di 62 anni. Raramente, in un romanzo storico, l’autore riesce a conciliare una narrazione fluida e scorrevole con il rigore scrupoloso della ricostruzione storica: Gioffrè, grazie alla musicalità squisita della sua prosa, è riuscito pienamente nell’impresa.
Il lessico rinascimentale che ha elaborato non è confinato nel recinto accademico, quando invece risulta fruibile per una cerchia assai più ampia delle nicchie elitarie. Inoltre, la sua partecipazione emotiva è sempre vibrante, appassionata: il fremito erotico che intreccia i corpi di Consalvo e Carlotta si mantiene in perfetto equilibrio fra l’anima e la carne, e ci restituisce intatto il fascino di un’epoca, quella cinquecentesca, in cui sia la pittura di Tiziano e di Raffaello che i sonetti dell’Aretino prorompevano in una gioiosa esaltazione dei cinque sensi. Il rovescio della medaglia percorre invece i sentieri insanguinati della guerra e della politica, mettendo a nudo (con scottante attualità) le contaminazioni sordide tra potere e religione, fanatismo e ferocia, intolleranza e cupidigia.
Le battaglie descritte da Gioffrè sono sporche, putride, cannibalesche: ogni pretesto per santificarle si rivela falso, ed è proprio l’io narrante di Consalvo che, immerso fino agli occhi nell’orrore, ne mette a nudo le viscere infette, come il Marlow conradiano di Cuore di tenebra. «Pensavo ai miei soldati morti e mangiati dai cani perché i due potessero dirsi Re, senza che mai avessero annusato l’odor del sangue, impastato con la terra, sotto cumuli di cadaveri. Non volli, più, lì stare e cercai aria pura tra le terrazze dell’Agropoli. Mi allontanai dal fetore che in quella enorme stanza tutto intorpidiva, puzzo stantio, emanato da Monarchi insolenti che erano sicuri che il proprio io corrispondesse a Dio! Guardai il mondo fuori e l’immenso mare che m’immaginavo potesse portare sapori di tempi nuovi come gli uomini che volevano far del bello sentimento eccelso, ma una pioggia improvvisa e violenta spazzò via ogni illusione».
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno XI, n. 113, maggio 2015) |