«La mattina della partenza la distesa verde smeraldo del Mediterraneo lambiva Beirut con pacatezza, quasi a voler sciogliere nell’acqua indulgente l’amarezza che accompagnava quel distacco inatteso. Sorvolati i faraglioni di Raouché, l’arco frastagliato del lungomare si stendeva oltre il faro in una luce abbagliante, mai percepita con quell’intensità dalla terraferma, malgrado fosse un ritrovo abituale per le lunghe passeggiate dei pomeriggi estivi. Il profilo del porto emergeva chiaramente man mano che l’aereo prendeva quota, ampliando la prospettiva dai grattacieli moderni, distribuiti lungo la costa, alla città vecchia, con le viuzze snodate attorno agli antichi palazzi ottomani e a quanto dei rigogliosi giardini interni era scampato alla guerra civile. Il candore del centro storico, così rimesso a nuovo da sembrare finto, contrastava con i quartieri meridionali, dove il degrado della zona sciita, abusiva e avvolta nel caos dei campi profughi, mi aveva dato una stretta al cuore».
Le parole poetiche, struggenti, descrittivo-evocative, delineano il meraviglioso incipit di Sette paia di scarpe (Rai Eri, pp. 194, € 13,00), il romanzo con il quale la calabrese Eliana Iorfida si è aggiudicata il secondo posto alla scorsa edizione de “La Giara”. Ci riferiamo nello specifico al concorso nazionale che ricerca nuovi talenti nel mondo letterario, al di sotto dei trentanove anni di età, e che è dedicato ai testi di narrativa, nato grazie all’impegno di Rai e Rai Eri, il laboratorio di scrittura creativa. Questo, in sintesi, il giudizio della commissione: «La scrittura della Iorfida riesce a rendere con espressività l’atmosfera di un villaggio rurale della Siria vissuto attraverso gli occhi della giovane protagonista. Senza frapporre giudizi morali e politici, narra un mondo arcaico facendocelo sentire comunque molto vicino al Mediterraneo di casa nostra. Un bel ritratto di una cultura diversa, sentita come ricca di valori anche se fortemente autoritaria».
Il libro racconta le vicissitudini di tre fratelli, Aidha, Nashat e Tahir, costretti ad abbandonare repentinamente Beirut, ritenuta pericolosa dal loro padre, che si aspetta, come tutti, l’inizio di una guerra, risposta di Israele agli hezbollah del Libano.
Siamo difatti nel 2006 e i tre giovani, che sono rimasti purtroppo orfani di madre, raggiungeranno la propria famiglia di origine, con la quale la donna aveva interrotto il rapporto, quindi si confronteranno con tutti quei parenti che non avevano avuto modo di conoscere fino ad allora. Si ritroveranno, dunque, improvvisamente inseriti in un contesto di struttura patriarcale dove la condizione delle donne è di assoluta subordinazione: occupandosi delle faccende domestiche, dei bambini e dei vecchi, in una posizione necessariamente di secondo piano, sono impossibilitate a prendere decisioni autonome, visto che l’autorità è concentrata tutta nella mani dei forti, degli uomini, dei parenti più prossimi, quali il fratello maggiore o il marito. Di contro Aidha scoprirà qui alcuni segreti, legati alla giovinezza della madre, che ne nascondono un animo forte e fiero, che non ha voluto sacrificare la sua passione e il suo amore alla rigidità delle tradizioni popolari ma che ha saputo contrastare ribellandosi. «I sogni ingenui di mia madre bambina mi fecero commuovere. Riuscivo appena a immaginarla al riparo delle piccole mura d’argilla mentre fuori infuriavano terribili tempeste, immersa nelle sue fantasticherie sentimentali».
Donne
Figure femminili, concrete, reali, quasi palpabili, cariche di fascino e di mistero animano una narrazione che rasenta in alcuni punti il lirismo quando il pathos si fonde con la forza trascinante del senso delle parole, delle situazioni, degli scenari, della storia familiare.
«Con mia madre non avrei percorso la stessa strada. La sua immagine restava cristallizzata nel ricordo dei miei quattrodici anni, fissa nell’ultimo fotogramma che la memoria mi consentiva di trattenere. Le sue fughe improvvise dalla realtà, i momenti in cui la sorprendevo assorta, proiettata in un’altra dimensione, sarebbero rimasti un mistero assoluto».
Aidha racchiude in sé l’animo della donna autentica, verace, solare che sa ben commisurarsi alle difficoltà che la vita le pone davanti per costruire, a partire da queste, una base solida di emancipazione e di comprensione di se stessa da un lato, dall’altro, invece, delle stesse tradizioni e della propria famiglia. Facendo tesoro di quanto accade nei luoghi dove si trova a vivere, quindi intorno a lei, o dentro la sua stirpe, tra i suoi affetti più profondi, sa plasmare un carattere nuovo che la trasformerà da adolescente in donna consapevole.
I paesaggi
Così la seguiamo nel suo viaggio, nel suo distaccarsi dalla sua terra d’origine, nello scoprire nuovi territori, nel guardare al mondo con gli occhi pungenti della novità e ci concentriamo su di lei durante la lettura, accompagnandola in uno scenario affascinante e molto attuale, alla scoperta di qualcosa di assolutamente sconosciuto. «Aleppo è una meta gettonata tra gli occidentali. È facile imbattersi in gruppi di turisti boccheggianti, in t-shirt e bermuda floreali, pronti a filmare ogni cosa e a farsi fregare da qualche astuto mercante del suq, ma solo pochi “audaci” si avventurano nell’entroterra, alla scoperta delle rotte carovaniere e dei castelli crociati che punteggiano il deserto».
O ancora attraverso i suoi occhi osserviamo abitanti, tradizioni, punti di vista: «La buona volontà era l’unica risorsa spendibile per conquistare la fiducia di quelle persone. Eravamo estranei, e lo saremmo rimasti per sempre se le circostanze non ci avessero giocato quel tiro. Non pretendevamo di svelare il mistero delle nostre vite in così poco tempo, ma lavoravamo sodo per aprire almeno un piccolo varco nella diffidenza reciproca».
L’autrice e la scelta del titolo
Eliana Iorfida è una giovane archeologa originaria di Vibo Valentia. Per il suo lavoro si è dedicata a numerosi scavi sia nazionali che internazionali, soprattutto in Medio Oriente, in particolare in Egitto, in Israele, in Siria. Proprio durante una di queste missioni ha tratto l’ispirazione per la stesura del romanzo che le ha permesso di vincere il secondo posto del Premio “La Giara”. Sue materie d’interesse, oltre all’Archeologia, sono state e sono tuttora la Museologia e la Didattica. Si interessa da sempre anche ad alcuni hobby creativi, non solo quello ormai ben noto della scrittura, ma anche quello del disegno.
Il libro arriva dritto al cuore quando, tra i ricordi sofferenti degli ultimi istanti di vita dell’amatissima madre di Aidha, che narrava la fiaba del Principe Serpente e della sua donna, scopriamo il significato nascosto del titolo del romanzo: «Il tuo amato è lontano da qui. Dovrai consumare sette paia di scarpe per trovarlo! La fanciulla allora partì attraverso strade, deserti, boschi, e il giorno in cui finì per consumare il settimo paio di scarpe arrivò davanti al cupo castello in cui il jin teneva incatenato il suo principe».
Conclusioni
Moltissimi e profondi gli spunti di riflessione, le emozioni intense e le suggestioni che il libro sa regalare ai sensi del lettore attento, rapito da una scrittura vibrante e intensa, che lo proietta in una dimensione attraente anche se distante, diversa, a tratti pericolosa, e lontana. Ci si perde con il cuore e con la mente a fantasticare, a immaginare, a vedere…
«Vista da lontano la guerra è impersonale. La sua narrazione si fa mitologia, drammatizzazione figurata di un altrove. Il nostro immaginario si sbarazza in fretta dei mostri che risveglia, ricacciandoli nell’inferno da cui sono emersi. Chi come me l’ha vissuta sulla propria pelle sviluppa la tendenza opposta, trattenendo nella pupilla ogni singolo fotogramma di morte. Il nostro sguardo non è indulgente né giustificatorio rispetto alle “ragioni” e alle “regioni” della guerra, perché gli occhi inariditi di chi non ha più lacrime vedono solo macerie indistinte – di edifici e corpi – sparse come briciole di veleno sulle generazioni future».
Pamela Quintieri
(direfarescrivere, anno X, n. 103, luglio 2014)
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