Sempre più spesso sentiamo parlare della necessità di riformare nel profondo la Costituzione italiana, anche i suoi principi fondamentali. Critiche e proposte di modifica, che per decenni hanno rappresentato un tabù, quasi un sacrilegio, vengono sollevate proprio in questi ultimi anni a causa dell’esiziale situazione di crisi economica, politica, sociale, etica che il nostro paese sta attraversando. Le proposte, eterogenee, si fondano sul tentativo di avviare un’inversione di tendenza a una situazione che fortemente sta debilitando il popolo italiano, e incontrano un muro, apparentemente invalicabile, nella nostra Carta costituzionale.
Alberto Donati, nel suo saggio La confessionalità della vigente Costituzione. La crisi italiana come fallimento della Carta fondamentale (Città del sole edizioni, pp. 192, € 16,00), analizza in profondità il testo della Costituzione repubblicana italiana del 1948 e i lavori dell’Assemblea costituente che hanno portato alla sua redazione. Il libro nasce dalla consolidata collaborazione tra la suddetta casa editrice, l’autore e la Bottega editoriale. All’interno di questa sua acuta analisi, tenendo in considerazione entità sovrane come la Santa Sede, l’autore si sofferma con particolare acume su quei temi, come la sovranità popolare e la confessionalità dello stato, che rappresentano un vero paradosso. Per Donati solo la sovranità formale appartiene al popolo, mentre realmente è esercitata dallo stato, dai partiti e dalla Chiesa di Roma. Dalle sue riflessioni emerge come l’Italia sia uno stato confessionale cattolico, uno stato, conseguentemente, dotato di una sovranità limitata.
Il saggio, inoltre, svela molti altri vizi costituzionali che, l’autore sottolinea, già erano noti ai padri costituenti e ciò emerge dai moniti lanciati da alcuni di loro, come Pietro Nenni, Benedetto Croce e Pietro Calamandrei.
Un ottimo approccio al lavoro di Alberto Donati ci viene offerto dalla Prefazione, curata da Guglielmo Colombero, che con precisione introduce le tematiche e i punti salienti di questo illuminante saggio.
la Bottega editoriale
Prefazione
Una Costituzione compromissoria fra il Vangelo e “Il Capitale” di Marx?
L’analisi politologica che Alberto Donati sviluppa sul testo della Costituzione repubblicana del 1948 parte da un concetto fondamentale su cui si regge l’impianto stesso di qualsiasi carta costituzionale: quello di sovranità popolare. L’autore, infatti, s’interroga sull’effettività di tale sovranità: al di là di qualsiasi retorica enunciazione di principio (non si può negare che la nostra Costituzione ne contenga fin troppe, rimaste tristemente lettera morta), uno dei padri costituenti, Pietro Nenni, constatava amaramente che la sovranità popolare rischia di risultare un guscio vuoto se si pongono troppi diaframmi fra la sua espressione e il suo concreto esercizio.
Pensiamo per un attimo alla libertà degli ex schiavi neri negli Stati Uniti appena usciti dalla Guerra di secessione: nel 1865 i neri americani erano certamente liberi, liberi di crepare di fame… Una prima distinzione operata da Donati, quindi, si focalizza sulla distinzione fra sovranità popolare e sovranità statale: secondo la sua tesi di fondo, è la nascente partitocrazia (inaugurata dall’Assemblea Costituente) un primo, serio vulnus all’effettivo dispiegarsi della sovranità popolare: non è più il popolo ad essere sovrano ma lo Stato, di cui, poco per volta, s’impadroniranno i partiti.
Un altro concetto fondamentale a cui Donati dedica una particolare attenzione è quello di “confessionalità” dello Stato. Il presupposto da cui parte si basa sulla limitazione della sovranità stessa dello Stato italiano, vincolato ad una trattativa permanente con un’altra entità sovrana, la Santa Sede, un soggetto che egli acutamente definisce “metanazionale”. L’idea di Donati è che l’articolo 7 della Costituzione non rappresenti altro che il frutto di una vera e propria intimidazione della Chiesa nei confronti dello Stato, esercitata attraverso il “braccio secolare” del Vaticano in Italia, e cioè la Democrazia Cristiana (partito apertamente confessionale persino nel nome!). Fu Nenni a definire questa operazione una vera e propria “sopraffazione clericale”. Donati non manca di sottolineare che la Chiesa Cattolica Apostolica Romana è «una comunità che rinviene il proprio momento unificante ed ordinante nella persona del Pontefice che, in quanto assistito dal dogma della Infallibilità, acquisisce la corrispondente prerogativa divina, relegando inesorabilmente tutti coloro che non ne recepiscono il pensiero nell’errore, ed assoggettandoli, ove le circostanze lo consentano, alle sanzioni previste dal diritto canonico». Insomma, un vero e proprio ribaltamento della prospettiva storica: spazzata via l’eredità della Riforma, dell’Illuminismo e dello stesso Risorgimento, si riportano indietro le lancette dell’orologio della Storia, fino allo spirito del Concilio di Trento e della Guerra dei Trent’anni. La legislazione in materia di divorzio e di aborto sanciranno la «frattura, profonda, tra cattolicesimo e società civile».
Un importante corollario di questo dibattito ideologico è la questione della laicità dello Stato: secondo Donati, lo Stato italiano è laico in quanto garante della libertà religiosa dei cittadini cattolici, e quindi, paradossalmente, la laicità stessa si trasforma in una subordinazione etica dello Stato rispetto alla Chiesa Cattolica.
In sintesi, Donati elabora il seguente teorema: nella nostra Costituzione, solo la sovranità formale appartiene al popolo, mentre quella sostanziale appartiene allo Stato, ai partiti e alla Chiesa Cattolica. E ne deduce che la «confessionalità dello Stato repubblicano si pone, in virtù della presenza, nell’art. 7, dei Patti Lateranensi, in un rapporto di continuità con lo Stato fascista, ugualmente confessionale, quantunque in forma più attenuata, in virtù di questi stessi Patti». Secondo Piero Calamandrei, un altro dei padri costituenti, fiero difensore della laicità dello Stato come Nenni, nell’articolo 7 «la religione è usata come mezzo per agire sul carattere e sul costume della Nazione», e Donati puntualizza come, persino il battesimo assume una valenza di «fatto giuridico, in virtù del quale, il minore, incapace di intendere e di volere, viene, ciò non di meno, incardinato nell’ordinamento canonico».
Altra fondamentale questione sviscerata da Donati concerne i diritti inviolabili e la loro “relativizzazione”: in altre parole, l’autore si domanda se tali diritti inviolabili debbano essere considerati immanenti (cioè connaturati alla persona umana) oppure concessi (vale a dire promananti da un’autorità statale, o addirittura da una teocrazia). La chiave interpretativa risiede, secondo l’autore, nell’adempimento degli obblighi di solidarietà: alla luce di quanto sancito dall’articolo 2 della Costituzione «la solidarietà condiziona l’esercizio dei “diritti inviolabili”; in tanto si ha la facoltà di goderne, in quanto, contestualmente, si soddisfino le ragioni della solidarietà. Ma il “diritto inviolabile” che sia condizionato, cessa di essere tale». E, ironicamente, Donati conclude che «il soddisfacimento delle ragioni della solidarietà costituisce il “pizzo” che il cittadino deve pagare allo Stato perché possa esercitare le proprie capacità di iniziativa». Mostrandosi purtroppo lungimirante – se pensiamo a quel che sta accadendo in questi mesi – l’autore sostiene che il «primato della solidarietà segue la natura strumentale dell’economia rispetto alle sue esigenze. Donde il debito pubblico, la prassi della raccomandazione e del clientelismo, la disaffezione nei confronti del lavoro produttivo, l’elefantiasi della burocrazia (dove il lavoro non è svolto secondo il criterio della produttività economica), la recessione economica, la progressiva uscita dell’economia nazionale dall’area dell’economia di mercato».
Di notevole interesse, sia giuridico che politico, troviamo poi le riflessioni di Donati in materia di “riserva di legge”: i diritti inviolabili del cittadino, infatti, risultano spesso soggetti ad essa, al punto da subire una vera e propria menomazione. Se le libertà sancite da una Carta costituzionale sono poi delimitate da una qualsiasi successiva legge ordinaria, viene da chiedersi quale reale utilità possegga una Costituzione trasformata in anatra zoppa.
Quanto al principio di “sussidiarietà”, esso è paragonabile, secondo Donati, ad una moneta a due facce: nell’ottica cattolica, vale come autolimitazione dello Stato assoluto mentre in quella illuministica, si basa sulla subordinazione dello Stato alla sovranità popolare. Si delinea quindi la contrapposizione fra lo Stato di diritto e lo Stato garante dei diritti dell’Uomo, che è «sussidiario rispetto alla base sociale ed è, in virtù di questa medesima sussidiarietà, posto in una relazione strumentale rispetto ad essa. Il principio di sussidiarietà, pertanto, regola il rapporto, non tra lo Stato ed il cittadino, bensì, tra il cittadino e lo Stato». Secondo Donati, la nostra Costituzione, nell’articolo 5 «recepisce la dottrina sociale della Chiesa e, quindi, il relativo principio di sussidiarietà, talché tutto il potere spetta allo Stato, che lo trasferisce agli enti intermedi, nel cui àmbito i cittadini sono autorizzati a realizzare i servizi di cui necessitano. Non è lo Stato che assicura i servizi, sono i cittadini che sotto la sua vigilanza li realizzano». Tutto questo, secondo l’autore è incastonato dentro un disegno di propagazione progressiva del neoliberismo più selvaggio, finalizzato a smantellare il welfare state.
Sul diritto al lavoro sancito dall’articolo 4 della Costituzione, l’esegesi di Donati appare particolarmente caustica e impietosa, in quanto, tale affermazione di principio «riflette due istanze diametralmente opposte. Quella comunista, volta a superare il sistema economico basato sulla proprietà privata, a risolvere, mediante il ricorso all’economia statizzata, il problema della disoccupazione e della sottoccupazione; l’altra, cattolica, diretta ad impedire l’emancipazione del Mezzogiorno, a restaurare il rapporto di dipendenza dell’uomo dallo Stato confessionale, per questa via, dalla Chiesa, volta a far venire meno l’autonomia che caratterizza l’uomo inserito nell’economia di mercato». È innegabile che quanto è accaduto nell’ultimo ventennio di storia italiana abbia avvalorato le sue previsioni.
Un ultimo aspetto sul quale vale la pena di soffermarsi è la regionalizzazione dello Stato prevista dall’articolo 117 della Costituzione, legata indissolubilmente alla questione meridionale. Secondo Donati «si può dire che, nell’Assemblea Costituente, si contrapposero due meridionalismi, quello sanfedista, cattolico, volto a ridare l’autonomia al Mezzogiorno e a relegarlo nella tradizionale condizione di sottosviluppo; quello progressista che vedeva nello Stato unitario, nell’inquadramento del Mezzogiorno nel contesto di una politica nazionale necessariamente unitaria, l’unica via per la sua emancipazione culturale ed economica. Prevalse il primo». Se è vero che la mattanza reazionaria del 1799 seguita al crollo della Repubblica Partenopea, mandando al patibolo un’intera generazione di pensatori meridionali, condannò il Mezzogiorno d’Italia a un secolo e mezzo di spaventosa arretratezza culturale, non possiamo che essere d’accordo con Donati quando bolla come reazionaria la concezione che non pochi deputati cattolici della Costituente seguivano in materia di decentramento della sovranità statuale. Significativo il monito lanciato da Benedetto Croce: «il solo bene che ci resti intatto degli acquisti del Risorgimento sia l’unità statale che dobbiamo mantenere saldissima». Uno Stato che frantuma se stesso «ripristina e legittima il pluralismo centrifugo dal quale l’Italia si era emancipata attraverso la catarsi risorgimentale». Con il rischio di far rivivere certi spettri che si credevano ormai sepolti in un passato remoto, come il Papa Re e i Borboni, operando un catastrofico smantellamento dello Stato unitario risorgimentale, l’avanzata che fino a pochi anni fa sembrava inarrestabile del secessionismo di matrice leghista dà una prova incontrovertibile che non si tratta di un allarmismo ingiustificato. Risuonano profetiche, a tale proposito, anche le parole di Nenni: «Le autonomie come sono state concepite non solo portano al disordine interno, alla dissipazione, al rovesciamento di ogni ordine finanziario, ma a volte portano necessariamente alla divisione politica e, o prima o dopo, al separatismo». Nel Mezzogiorno, attraverso la manovalanza fornita dal crimine organizzato, l’autonomia regionale ha purtroppo scatenato fenomeni degenerativi come il servilismo feudale verso le consorterie politico-mafiose, vere e proprie satrapie che formano uno Stato dentro lo Stato ed eseguono sentenze di morte contro i servitori leali dello Stato che li combattono, come i giudici Falcone e Borsellino nel 1992. Donati intravede sotto la falsa vernice libertaria della solidarietà regionale il subdolo disegno politico di «separare il Mezzogiorno dalla rimanente parte d’Italia, ad impedirne l’emancipazione, con evidenti conseguenze involutive e destabilizzanti per il Paese».
In conclusione, è affascinante la dialettica affilata con cui Donati enuclea e poi demistifica certi luoghi comuni che per decenni hanno cristallizzato la nostra pur preziosa Carta costituzionale in una specie di turris eburnea che risuonava quasi sacrilego anche solo velatamente criticare: perché l’Assemblea Costituente non volle sottoporre la Costituzione del 1948 all’approvazione popolare mediante referendum? Le parole di Nenni costituiscono una risposta efficace a tale interrogativo: «il vizio segreto di questa Costituzione è il medesimo che si ritrova ad ogni tappa della nostra storia, dal Risorgimento in poi: sfiducia nel popolo, paura del popolo e, qualche volta, terrore del popolo; necessità di frapporre fra l’espressione della volontà popolare e le esecuzione della stessa volontà popolare quanti più ostacoli, quanto più diaframmi possibili». Anche chi scrive è dell’avviso che l’oscurantismo clericale e la demagogia marxista vi affiorano, purtroppo, in non pochi passaggi, anche se a macchia di leopardo: l’aver respinto, nel referendum del 2006, un’alternativa sciagurata che rischiava di trasformare l’Italia in una Repubblica delle banane non significa astenersi da qualsiasi disamina critica verso una legge fondamentale che, a partire dalla caduta del muro, comincia anch’essa a mostrare qualche vistosa crepa. Il lavoro di Donati, che non perde mai di vista l’orizzonte dei diritti dell’Uomo in una visione autenticamente liberale, può aiutarci a riflettere su un’esigenza di rinnovamento delle istituzioni assolutamente prioritaria per tutti i cittadini che credono ancora nel futuro del nostro Paese.
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno IX, n. 90, giugno 2013) |