Parlare di costituzionalismo storico oggi ha un valore particolarmente attuale. Tanto la ricerca filosofica quanto quella storico-sociologica tentano continuamente di gettare le basi, più o meno fondate e ammissibili, al fine di ottenere nuovi punti di vista sull’argomento “costituzionalismo” e “libertà”.
È in questo contesto che il saggio La costruzione della libertà. Appunti per una storia del costituzionalismo europeo (Rubbettino, pp. 392, € 19,00) di Roberto L. Blanco Valdés va a contribuire alla ricerca, ormai fiore all’occhiello per molti centri di studio mondiali.
Sono infatti pagine ricche di riflessioni, “appunti” e analisi storico-politologiche quelle che lo studioso spagnolo propone oggi anche al pubblico italiano, come tema attualissimo ‒ sebbene le origini vere della riflessione abbiano radici ben più salde e remote.
Di seguito vi invitiamo dunque alla lettura della Prefazione all’edizione italiana a cura di Silvio Gambino, che scrupolosamente traduce e introduce gli studiosi italiani a questo nuovo punto di vista in materia di costituzionalismo storico.
La redazione
Prefazione all’edizione italiana
La costruzione e il consolidamento delle libertà.
Stato e Costituzione fra costituzionalismo liberale, costituzionalismo sociale e costituzionalismo europeo
1. Come Maurizio Fioravanti aveva già sottolineato, in un suo bel saggio di storia costituzionale [1], qualche anno fa, di libertà può parlarsi “al singolare o al plurale”. L’una o l’altra delle due grandi prospettive di indagine seleziona fin da subito la metodologia che gli studiosi utilizzano nel loro approccio al tema del costituzionalismo e della protezione dei diritti e delle libertà; nel primo caso, seguendo il percorso dell’analisi filosofico-politica e della sua costruzione storica (che è, al contempo etica, morale, naturale) della libertà dell’individuo; nel secondo, seguendo il percorso frequentato dai costituzionalisti e dagli storici costituzionali nello studio delle garanzie assicurate alle libertà – intese come diritti – a partire dagli assetti degli ordinamenti costituzionali, essi stessi riguardati da una evoluzione e da una trasformazione continua nel corso del tempo, sia in ragione del lento progredire della democratizzazione dello Stato – che si accompagna con la universalizzazione del suffragio – sia della stessa crisi delle idee economiche del liberalismo classico, quelle della concorrenza perfetta, che hanno favorito e accompagnato le rivoluzioni liberali, nei termini di una loro inadeguatezza ad assicurare una presunta capacità auto-equilibratrice complessiva fra la domanda e l’offerta dei beni economici e con esso la ‘felicità’ dei consumatori e dei produttori e lo stesso sviluppo economico complessivo.
L’Autore di questo volume – un autorevole studioso di diritto costituzionale, cattedratico di questa disciplina presso l’Università spagnola di Santiago de Compostela, ben noto nel dibattito scientifico del nostro Paese tanto agli studiosi quanto agli stessi studenti universitari [2] – parla delle libertà nella seconda delle due prospettive richiamate e lo fa coniugando chiarezza espositiva e profondità di analisi storico-costituzionale nell’indagine sulla evoluzione del pensiero filosofico-politico in tema di libertà e sulle problematiche connesse alla organizzazione della forma dello Stato e della stessa forma di governo, nel loro percorso evolutivo dalla fase originaria dello Stato moderno a quella contemporanea, ma aprendo l’approccio della sua analisi alla stessa prospettiva del processo di integrazione europeo.
Le forme storiche risalenti del potere statale dal quale i costituzionalisti fanno abitualmente partire la loro analisi sono quelle delle monarchie assolute. Tali forme di esercizio del potere in origine si presentavano auto-legittimate, sulla base della diretta investitura divina ovvero della mera discendenza ereditaria. Con maggiore o minore efficacia, tali forme di organizzazione del potere monarchico durano fino ad epoca recente – due secoli fa – esprimendosi storicamente nelle forme della monarchia legibus soluta, cioè priva di vincoli esterni.
Questo primo avvicinamento al tema, tuttavia, consente agli studiosi di operare importanti distinzioni fra l’esperienza della monarchia britannica e quella francese, che si presentano come veri e propri modelli ideal-tipici nello sviluppo del costituzionalismo moderno. Il primo modello di tale costituzionalismo – quello britannico – si dimostra (culturalmente e istituzionalmente) capace – fin dall’atto di concessione, nel 1215, nel primo Medioevo, della Magna Charta libertatum da parte di Giovanni Senzaterra, Re d’Inghilterra (1167-1216) – di un positivo dialogo con i corpi intermedi della società di quel Paese (in questo periodo storico, in realtà, si trattava dei soli baroni del regno e del Parlamento della città di Londra), permettendo in tal modo l’avvio di una esperienza di ‘costituzionalismo consuetudinario’, che ne fa un modello a sé e che fonda da più secoli formule di una limitazione del potere monarchico mediante la stipula, da parte del monarca, di importanti atti costituzionali che punteggeranno la storia costituzionale britannica dei rapporti fra potere e libertà, costituendone l’assetto materialiter costituzionale; da un punto di vista tipologico, oggi inquadriamo questa esperienza storico-costituzionale come monarchia costituzionale, aggiungendovi l’aggettivo ‘illuminata’ per differenziarla rispetto alle monarche ‘assolute’. Vi è, infatti, un secondo modello di monarchia dal quale i paesi europei hanno preso le distanze in modo radicale, spesso violento, rivoluzionario – è il caso della Rivoluzione francese – ed è appunto quello delle monarchie assolute. Nei capitoli introduttivi di questo libro sono presentati con dovizia di dati e di ricostruzioni storico-costituzionali ma al contempo con grande chiarezza i tratti distintivi di questi due modelli, traendone gli istituti e le formule che, rispettivamente, hanno dimostrato di poter avere una loro continuità nelle corrispondenti modalità di funzionamento del costituzionalismo moderno, fondato appunto per dettare una discontinuità politica e giuridica con l’Ancien Régime.
Il potere assoluto, soprattutto in questa seconda concezione (benché in forme diverse, naturalmente, l’analisi si estende allo stesso assolutismo illuminato), è tale proprio perché non deve dare conto a nessuno e soprattutto non deve darlo ai suoi sudditi. Questo modo di essere dello Stato e dell’esercizio del suo potere durerà fino alla metà del ’700, allorché si afferma un processo avviato con l’autoproclamazione rivoluzionaria della sovranità popolare da parte di soggetti fino a quel momento sudditi, senza identità giuridica e/o politica.
Con l’affermazione del principio di sovranità popolare (1789, Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino) e della rappresentanza politica, così, si pongono le basi di un processo di trasformazione radicale dello Stato moderno, sia nella sua legittimazione democratica – fondando una democrazia di tipo rappresentativo – sia nelle forme della sua organizzazione politica, sulla base di un ‘nuovo’ principio di separazione dei poteri, alla cui elaborazione avevano lavorato i filosofi politici inglesi e successivamente quelli francesi, approdando, con Montesquieu, a precise formule costituzionali a cui si richiameranno gli Stati europei al momento di rompere con le risalenti esperienze assolutistiche. Preparato dall’apporto fondamentale del pensiero filosofico e politico (prima inglese e poi anche francese) e da un inedito accordo fra la borghesia commerciale del tempo e i componenti del cd terzo stato, così, negli ultimi due secoli, la forma dello Stato – che, nel tempo, si era concretizzata nella sostanziale identificazione del Re con la Corona (Stato patrimoniale) – assume, con le Rivoluzioni borghesi, una nuova veste, completamente diversa da quella dello Stato feudale, assoluto. Nasce in questo modo lo Stato moderno, ispirato a princìpi liberal-democratici, e con esso nascono le nuove forme costituzionali della democrazia parlamentare; in tale quadro si afferma l’idea rivoluzionaria della legge espressione della volontà generale portata ad esistenza dai delegati del popolo in Parlamento e che per tale ragione si presenta come unico strumento di democrazia che non ammette controlli esterni sui relativi contenuti decisionali. Si tratta di una forma di Stato che per molti decenni rimarrà segnata dalle idee liberal-democratiche che ne costituivano la base culturale e sociale originaria e soprattutto dalla limitazione censitaria del suffragio (Stato monoclasse, secondo l’efficace definizione di Massimo Severo Giannini). Una forma di Stato che per questa specifica ragione non si è dimostrata idonea a resistere alle lusinghe totalitarie, che si accompagnarono con profonde trasformazioni autoritarie dello Stato dagli anni ’20 agli anni ’40 del secolo scorso nella quasi totalità degli Stati europei, tranne quello britannico.
Se dello Stato moderno si vogliono cogliere le dinamiche profonde, che lo hanno segnato nella sua discontinuità con la fase liberal-democratica della sua organizzazione statale e i regimi totalitari degli anni appena citati, risulta utile richiamare due principali idee guida e al contempo due culture politiche che hanno accompagnato il processo evolutivo del costituzionalismo moderno, affermando l’esigenza di ripensare ad una idea di Stato nuovo per la democrazia, allorché lo Stato totalitario imploderà in tutta Europa e sarà ricacciato dalle contrade dei diversi paesi talora con una eroica lotta di resistenza, come è avvenuto in Italia. Nell’ordinamento costituzionale italiano più recente, più in particolare, tali idee fanno riferimento alla centralità della persona umana, alla stretta integrazione costituzionale fra libertà ed uguaglianza, e all’apporto fondamentale del lavoro come processo partecipativo e come garanzia costituzionalizzata dei diritti dei lavoratori nel quadro di un evoluto governo democratico dell’economia.
Nella sua versione contemporanea, la democrazia costituzionale ha registrato un’ulteriore, fondamentale, trasformazione dello Stato nella direzione della valorizzazione della partecipazione politico-partitica alla formazione della sua volontà (Stato di partiti) ed in quella della valorizzazione e della crescita dei compiti assegnati dalla Costituzione alla garanzia dei diritti e delle libertà, a partire dai diritti sociali (Stato sociale di diritto). Alla base di questi nuovi ‘compiti’ dello Stato, ritroviamo un profondo cambiamento costituzionale consistente nell’assumere il principio di eguaglianza sostanziale, accanto a quella dell’uguaglianza formale, come base dell’azione dei pubblici poteri verso la società e verso i singoli individui. In tal modo, cambiano in modo profondo fini e modalità di essere e di operare dello Stato, ormai non più guardiano esterno del mercato economico e del suo funzionamento, secondo il classico brocardo laissez-faire laissez-passer; al contempo, cambia lo stesso statuto dei diritti e delle libertà, la cui effettività dipenderà non più solo dall’esercizio individuale delle libertà, in uno scenario economico e sociale di tipo competitivo, bensì dalle nuove funzioni cui lo Stato è chiamato per dare attuazione al suo programma di giustizia sociale e di eguagliamento formale e sostanziale dei soggetti. L’individuo, così, non è più solo all’interno di un mercato che premia i soli soggetti forti e a fronte di uno Stato (che può e sa essere) oppressivo, come Hobbes ci ricordava nel suo Leviatano. L’individuo – ora divenuto persona in modo pieno – vede garantito il progetto e l’obiettivo dell’eguaglianza effettiva rispetto ai soggetti più forti nel mercato e nella società. In tal modo, lo Stato sociale diviene uno Stato sussidiario, la cui azione, in particolare, giova ai soggetti deboli, i quali, in assenza di un suo intervento, rischierebbero di vedere ipotecata la pienezza della propria persona, dei relativi diritti e delle libertà, a partire dalla dignità umana. Con modalità diverse, le Costituzioni del secondo dopoguerra si atteggiano in modo similare. In un simile quadro evolutivo, lo Stato costituzionale contemporaneo ha conosciuto la limitazione dei suoi poteri con modalità differenziate; da una parte, mediante l’assoggettamento dell’amministrazione e dei suoi atti al giudice amministrativo e dall’altro mediante l’assoggettamento del Parlamento e della legge alle Corti costituzionali. La giurisdizione come potere autonomo e indipendente dello Stato vede in tal modo pienamente riconosciuta la propria funzione al servizio di un progetto egualitario di soggezione di tutti e di ognuno alla legge, senza discriminazioni di sorta, che sia censo o potere economico non rileva. Accanto a tale garanzia, il significato profondo della giurisdizione risiede nella cultura della limitazione del potere dello Stato (Stato legale) quale massima garanzia dei diritti e delle libertà.
Tanto brevemente richiamato, sia pure in modo molto generale, delle tematiche della evoluzione dello Stato e del costituzionalismo, si vuole osservare che non necessariamente il lettore di questo libro deve appartenere alla cerchia ristretta (spesso anche chiusa) dei giuristi per professione per accedere e godere dell’analisi a tutto campo che gli viene proposta in questo magnifico volume che qui si presenta. Le sue pagine sono dense di dati, di riflessioni e di approfondimenti storico-costituzionali, che spaziano dalla formazione dello Stato costituzionale (liberale nella ispirazione ideologica, rappresentativo nelle forme politico-istituzionali della legittimazione politica del potere, borghese prima della sua trasformazione in sociale) fino alla razionalizzazione delle forme di governo registrate nel costituzionalismo contemporaneo, attraverso l’evoluzione dei singoli paesi nel corso dei due secoli da poco lasciati alle nostre spalle ma soprattutto a partire dagli anni ’20 del secolo scorso e poi, in modo più organico, con la previsione di controlli di costituzionalità delle leggi e con la introduzione di princìpi di rigidità nelle Costituzioni del secondo dopoguerra. In questo processo evolutivo – che costituisce, al contempo, un evidente progresso nello sviluppo della democrazia costituzionale – una particolare attenzione viene assicurata dall’Autore alla lenta ma inesorabile uscita di scena della monarchia nella quasi totalità degli Stati contemporanei, restando in quelli residui poco più che un potere simbolico della continuità del relativo Stato (si pensi in tal senso alla monarchia britannica e a quella spagnola nella esperienza europea). Una perdita storica di ruolo politico che – in modo più o meno espresso – vede consegnare parte del suo potere ai capi di Stato repubblicani, la cui alta magistratura – pur in presenza del riconoscimento ad essi di un mero potere neutro – costituisce una importante riserva di potere all’interno delle forme di governo, quanto mai preziosa soprattutto nelle fasi di crisi dei sistemi politici-costituzionali contemporanei.
Nell’accostarsi alla lettura del libro, così, il lettore deve sapere che la lettura delle sue pagine – gradevole e leggera come non sempre accade per i testi giuridici – gli darà modo di confrontarsi e di porsi centrali interrogativi sui contenuti e l’effettività delle sue libertà e di cercare delle risposte convincenti e realistiche nella storia del costituzionalismo europeo e in quello nordamericano. Una storia costituzionale che, alle soglie del nuovo millennio e nel bel mezzo di una turbolenza formidabile del processo di integrazione europea, ha visto consumarsi, con le cangianti idee sul rapporto fra libertà e potere, fra persone e Stato, risalenti categorie e modelli di legittimazione politica e di organizzazione del potere costituzionale, fino alle forme accolte nel costituzionalismo del secondo dopoguerra. Si tratta di formule evolute, come si ricorderà in modo molto schematico, di razionalizzazione nella forma dello Stato e nella forma di governo che, al contempo, riguardano l’arricchimento del catalogo dei diritti fondamentali e la previsione di adeguati checks and balances volti ad evitare ogni rischioso sbilanciamento nella forma di governo. Tale processo di trasformazione, infatti, vede portare alle estreme, ragionevoli, conseguenze il processo di partecipazione politica, in unum con l’universalizzazione del suffragio (che costituisce una conquista solo recente nel costituzionalismo contemporaneo) e con esso legittimare (istituzionalmente) soggetti politico-comunitari, come i partiti politici che si sono dimostrati capaci – prima di implodere essi stessi – di democratizzare lo Stato con l’apporto del loro concorso plurale alla determinazione della sua volontà. È quanto rileviamo con la formula dello Stato dei partiti o meglio ancora con quella dello Stato della partecipazione politica diffusa.
2. La presentazione del libro al lettore italiano ci spinge ora a proporre alcune riflessioni di tipo generale che muovono dall’analisi della crisi di nozioni e di categorie interpretative fondamentali affermatesi nel costituzionalismo contemporaneo per procedere verso una lenta affermazione di un costituzionalismo sovranazionale, europeo, che è tuttora statu nascenti ma che pare destinato a porsi come una trasformazione inevitabile – se non perfino necessaria – dei costituzionalismi nazionali, a fronte del processo attualmente raggiunto dalla integrazione delle economie nazionali.
La complessa architettura del costituzionalismo contemporaneo alla quale si legano gran parte delle presenti conquiste in termini di civiltà e di giustizia sociale e le concrete aspettative in termini di organizzazione dei poteri e di tutela dei diritti, agli inizi del nuovo millennio, sembra scomporsi e incrinarsi sotto l’influsso di una moltitudine di forze e di tendenze che fanno vacillare quelle forme e quei modi di essere dello Stato costituzionale apparsi mezzo secolo fa saldi e definitivi perché appropriati a una democrazia concepita come patrimonio di ciascuno e di tutti [3]. Lo ‘Stato sociale’, lo ‘Stato sovrano’, lo ‘Stato dei partiti’, forme storiche di questo Stato e di questa democrazia che coniuga libertà ed equità, pluralismo sociale e pluralismo dei poteri, manifestano attualmente i segni della loro decadenza, coinvolgendo inevitabilmente nel disfacimento quei princìpi e quei valori che rappresentano l’impalcatura di tutto il costituzionalismo del Novecento e che solo in queste forme contemporanee della statualità riescono a trovare il loro naturale quanto armonioso campo di espansione. La crisi dello Stato contemporaneo si rivela, pertanto, profonda e complessa perché variegata e poliedrica; una crisi di forme e di sostanza, di strumenti e di obiettivi, di princìpi organizzativi non sempre rivedibili e di princìpi ispiratori inderogabili. Questa discrasia tra mezzi e fini che corrode la schiusa architettura ideale del costituzionalismo democratico è particolarmente evidente e intensa nel processo di destrutturazione del Welfare State, in atto ormai da più tempo in presenza della crisi fiscale degli Stati e dei relativi fenomeni economici e sociali connessi alla globalizzazione. La crisi dello Stato sociale, infatti, non rappresenta solo il fallimento di un modello politico dell’economia che vanta il merito storico di aver consentito l’equilibrio sociale in regime capitalistico. Tale crisi rappresenta anche l’appannamento di uno Stato costituzionale che assume la dignità dell’uomo come suo punto di partenza storico-culturale e che fissa una scala di valori dominanti come base di questa dignità e come linea direttrice del proprio sviluppo funzionale. Con la crisi del sistema economico e del mercato del lavoro, così, lo Stato sociale – speranza per molti, mezzo di sopravvivenza per tanti, privilegio per alcuni – rivela una sua caratteristica molto importante, quella di una forma di Stato che proclama i diritti di tutti ma senza assicurarne l’effettività.
Se la crisi dello Stato sociale tende a destrutturare l’ampio e complesso sistema creato da un costituzionalismo in cui la linearità della tradizione liberale si fonde con la complessità della democrazia sociale, la crisi dello Stato-Nazione che a esso si accompagna sembra invece piegarlo dentro un ordine di cose e di tendenze che sfuggono alle sue regole e alle sue determinazioni. Nell’era della globalizzazione in cui il tutto domina sulle parti, l’universale sul particolare, tra nuovi luoghi e nuovi detentori del potere, si disperde, infatti, quell’attributo essenziale della personalità politico-giuridica dello Stato che lo rende istanza originaria, indipendente e suprema. La sovranità, grande sfida delle Rivoluzioni liberali, diventa, così, l’incommensurabile miraggio del nuovo millennio, la copertura rituale di uno Stato che, privo delle sue fondamenta, della sua autorità, si trasforma in ‘non Stato’, in mero elemento costitutivo di una realtà in continua evoluzione. Intaccata l’essenza stessa della statualità, questo vecchio sovrano ormai senza scettro si destruttura e si sfalda avviandosi verso un lento e forse inesorabile declino, sollevando molti dubbi sulla sua capacità di riassorbire la crisi. Questo processo erosivo del potere sovrano che scandisce la crisi dello Stato contemporaneo e del costituzionalismo che l’ha prodotto, comincia storicamente con la perdita del governo statale dell’economia. L’esaurirsi dell’economia nazionale e il sorgere di economie aperte oltre i confini nazionali, con elevato grado di dipendenza dal sistema economico mondiale, infrange, infatti, la storica coincidenza tra mercato e territorio dello Stato, finendo così per privare quest’ultimo di un vasto ambito statale d’intervento. La lunga e contraddittoria esperienza delle Costituzioni del Novecento [4], iniziata con la riappropriazione dell’economico da parte del politico, sembra chiudersi, così, sulla scia di uno Stato sempre meno sovrano, sempre più spettatore inerme e cassa di risonanza dei grandi processi economico-decisionali che si snodano al di là dei suoi confini geopolitici e che gli sfuggono con il loro dinamismo, sovrastandolo con la loro portata e rendendo incerti i suoi processi decisionali. Nato per governare l’economia, insomma, lo Stato sociale finisce per piegarsi alle sue esigenze, alle sue tendenze, alle sue forze; forze che si sommano e si fertilizzano, determinando la crisi dello Stato sovrano e, con esso, anche il disfacimento del mondo democratico, delle sue istituzioni, delle sue leggi. All’affermazione di un simile processo di mondializzazione dei processi economici corrisponde una crisi della sovranità degli Stati contemporanei surrogata dalla crescente centralità del mercato e del contratto come categorie paradigmatiche di un nuovo costituzionalismo conservatore, che si presentano come tali da fondare nuove interpretazioni delle stesse norme costituzionali che erano state poste alla base delle modellistiche di Stato sociale nelle Costituzioni del secondo dopoguerra [5]. La latitudine della crisi in cui si dibatte lo Stato contemporaneo come Stato costituzionale e democratico sospinge, dunque, non solo a ripensare i topoi classici del costituzionalismo, ossia le garanzie imposte costituzionalmente a tutti i poteri a tutela dei diritti fondamentali, ma anche a ripensare ad un costituzionalismo sganciato dai suoi luoghi classici, vale a dire disgiunto dalla statualità.
Se la destrutturazione della sovranità e la decadenza del Welfare hanno alterato profondamente i tratti originari dello Stato costituzionale, occorre altresì rilevare che tale diminuita capacità d’intervento e di controllo dell’economia finisce per privare partiti e parlamenti dei “tradizionali bersagli verso cui dirigere i loro colpi per indirizzare e correggere la crescita economica sulla base di interessi e visioni del mondo non prettamente economicistiche” [6], accentuando, così, agli inizi della nuovo secolo, quella crisi degli attori e degli istituti della rappresentanza politica nella quale è possibile leggere anche il declino dello Stato contemporaneo come ‘Stato dei partiti’ e del modello di democrazia partecipativa che ne sta alla base. Ripercorrendo i sentieri di una storia ormai secolare, così, non è difficile comprendere che i partiti politici hanno rappresentato il presupposto dello sviluppo democratico della società, avendo ‘educato’ quest’ultima ad aggregarsi per esprimere le proprie domande e a organizzarsi per entrare nello Stato, e che spesso la ‘democrazia dei partiti’ si è trasformata in una ‘democrazia per i partiti’, che li vede fare del Parlamento una cassa di risonanza di dinamiche e di decisioni politiche assunte al di fuori delle sue aule, occupare le istituzioni dello Stato e utilizzare le sue risorse ai fini del conseguimento del consenso secondo logiche ‘pigliatutto’ che esulano dai canoni classici dell’agire partitico e minano, con la capacità programmatica degli stessi, quella stessa legittimità politica che li aveva resi pilastro portante della democrazia costituzionale pluralista. Strutturalmente inadeguati a rappresentare e a mediare i nuovi conflitti e i nuovi clevages della società post-industriale, i protagonisti assoluti della democrazia rappresentativa di questo secolo, gradualmente, smettono di essere i detentori esclusivi della funzione di raccordo tra Stato e società. Tale funzione finisce, infatti, per essere talora superata, talora compressa, tanto sul piano delle domande sociali, che spesso trova canali di democrazia diretta, quanto sul piano dei processi di formazione degli orientamenti collettivi che, sempre più basati sulle immagini e sui messaggi diretti di una politica mediatizzata e personalizzata, si allontanano dalle forme e dagli strumenti tradizionali della comunicazione e dell’agire politico. Tendenze ‘plebiscitarie’ e tendenze ‘pubbliche’ della democrazia, insomma, che scardinano il monopolio partitico della rappresentanza degli interessi e sollecitano processi revisionistici delle loro identità e del loro agire. Tali processi ridimensionano, ma non annullano, gli spazi di quei partiti che in modo più o meno adeguato hanno rappresentato per mezzo secolo l’impalcatura materiale dello Stato costituzionale, schiudendo, in questo scenario di inizio millennio, nuovi, quanto ambigui, orizzonti per la democrazia.
Mutate le condizioni politiche, economiche e sociali del secondo dopoguerra, è difficile stabilire quanta parte resti di quello Stato del pluralismo politico commisurato a una “democrazia che per essere politica e soltanto politica non fu economica e per essere borghese e soltanto borghese, nonostante la forza numerica dei partiti socialdemocratici, non fu popolare” [7]. La crisi della sovranità, la decadenza del Welfare, il ridimensionamento del Parteienstaat, infatti, hanno alterato profondamente i tratti di questa forma di Stato e di questa democrazia con ovvie ed evidenti conseguenze per il positivo perseguimento delle finalità statali, per il reale funzionamento delle istituzioni formali, per l’effettiva realizzabilità delle libertà individuali e collettive. La crisi della statualità contemporanea rappresenta, infatti, qualcosa di più e di diverso di un momento di difficoltà dello Stato analogo a quello di cui parlava Santi Romano all’inizio del secolo scorso, in quanto ha posto in gioco aspetti della civiltà e della cultura considerati a lungo come un patrimonio definitivamente acquisito. Essa ha infranto la storica pretesa di limitare il potere attraverso il diritto ed ha riaperto, con la limitata effettività dei diritti sociali, vecchie questioni di libertà e nuovi problemi di democrazia. Questo cambiamento strutturale dello Stato, che procede nei tornanti della storia fra poteri non limitati e princìpi non realizzati, tende insomma a creare una ‘costituzione materiale’ sempre più distante dalla Costituzione formale e a trasformare quest’ultima in un “ordinamento parziale” [8], in una rete che imbriglia solo una parte dei poteri e delle tendenze che determinano il reale funzionamento dello Stato e il concreto rendimento del sistema democratico. La stessa prestazione fondamentale della Costituzione, così, sarebbe venuta meno: da “atto creativo” essa si sarebbe trasformata in “testo responsivo” [9], in un testo, cioè, nel quale cercare le soluzioni ai problemi che sorgono nel corso della via costituzionale; quasi un archivio storico-ideale, in grado di fornire informazioni e indicazioni, di provenienza e di direzione. Se è vero che la crisi dello Stato contemporaneo ha aperto una crisi profonda della Costituzione nel suo aspetto progettuale quanto in quello garantistico, tuttavia, nell’era dei poteri reali e delle grandi incertezze, non è venuto a mancare quel bisogno di ordine e di sicurezza che ne ha giustificato (e ne giustifica) l’origine e l’affermazione storica. La necessità di pervenire a un giusto equilibrio tra conservazione e innovazione costituzionale, i richiami a una Costituzione mondiale, o anche solo europea, dimostrano che, nello scenario del nuovo secolo e delle sovranità concrete, la Costituzione continua a essere vista e vissuta come momento integrante della società e principio ordinatore dei poteri e delle istituzioni. Si scopre così che la decostituzionalizzazione [10] non è l’unica tendenza in atto e che ad essa si associano anche tendenze al conservatorismo costituzionale e alla iper-costituzionalizzazione [11]; tendenze diverse e contrastanti, certamente, ma anche tendenze che lasciano intravedere un futuro per la Costituzione e quindi per il governo democratico della società. La democrazia, infatti, non è solo governo del popolo, ma governo del popolo entro determinati canali, regole, procedure [12].
La Costituzione europea sembra essere divenuta il punto di coagulo di questa esigenza, la risposta formale ai problemi sollevati dalla globalizzazione dei mercati e dal policentrismo dei poteri pubblici, ovverosia dal pluralismo dei centri di decisione tecnocratica e dal polimorfismo delle istituzioni democratiche. Nella idea di una Costituzione ‘allargata’, quindi, non si prefigura solo l’ultimo stadio evolutivo di un costituzionalismo dinamico che reca in sé il germe del sovranazionalismo, ma si palesa anche, e forse soprattutto, l’ennesimo sforzo della teoria costituzionale – esattamente come mezzo secolo fa – di restituire al politico il controllo dell’economico, ridisegnando il sistema delle fonti e degli organi dell’U.E. in cui si sedimenta il potere dell’antico sovrano nazionale e sottoponendolo, da un lato, alle regole della democrazia politica e alle forme della legittimazione democratica e, dall’altro, al principio guida dell’effettività dei diritti fondamentali. Quella che sottende la Costituzione europea si presenta, insomma, come un’idea globale, tanto di rinnovamento del sistema istituzionale delle Comunità, quanto di arricchimento del sistema delle identità e della cittadinanza nell’Unione Europea.
Scandagliando il presente con le categorie concettuali del recente passato, non è difficile avvedersi che, al di là delle forzature concettuali e semantiche attraverso cui si cerca di dare veste formale al processo d’integrazione politica avviato dall’Unione Europea, una Costituzione europea in senso proprio non esiste [13]. La mancanza di un atto costituente riconducibile a un popolo sovrano, il mancato ossequio del montesquieviano principio della separazione dei poteri, l’assenza di un compiuto catalogo dei diritti (almeno fino alla proclamazione della Carta di Nizza, nel 2000, ora nuovamente proclamata a Strasburgo, nella sede del Parlamento europeo) capace di porre sotto il principio guida dell’eguaglianza formale e sostanziale i rapporti tra l’Unione Europea e i suoi cittadini, rivelano come si sia davvero distanti dall’impalcatura filosofica e giuridica che sorregge il costituzionalismo moderno e contemporaneo, rappresentandone l’essenza. La Costituzione europea come “atto di un popolo che crea un governo”, come strumento di “limitazione del potere e di garanzia dei diritti”, allo stato attuale, non esiste se non come ‘acquisizione evolutiva’, in bilico tra essere e divenire, se non come progetto politico-ideologico che non ha saputo trasformarsi in realtà né, contrariamente a quanto avviene per la ‘costituzione mondiale’, è rimasta mera utopia. Un progetto, dunque, che si risolve e si surroga in un ordinamento giuridico non originario [14] che, pur non trovando in sé il titolo della propria legittimazione, è comunque in grado di esprimere meccanismi propri di produzione e di applicazione di un diritto che, se alla prova dei fatti si svela qualcosa di più di un diritto internazionale, è sicuramente ancora qualcosa di meno di un diritto costituzionale in senso proprio. Quel diritto primario comunitario che mette in discussione la sovranità degli Stati – un tempo loro massimo orgoglio e, secondo la visione hegeliana, loro ultima regola – che arricchisce di nuovi diritti lo status di cittadino dei (e nei) moderni ordinamenti democratici, si rivela, difatti, come un diritto posto ed imposto attraverso i trattati. Pur essendo vincolanti per gli organi dell’Unione e degli Stati membri, questi ultimi non sono espressione dell’autodeterminazione di un popolo europeo che, riconoscendosi come comunità politica, sceglie la forma giuridica della propria unità, né posseggono la totalità materiale della Costituzione, rivelandosi, per le loro intrinseche caratteristiche, degli ordinamenti parziali, geneticamente inadeguati ad assolvere a quelle funzioni di ordine e di sicurezza che sul piano interno spettano alla Costituzione [15]. Se è chiaro, allora, che il diritto primario comunitario non è declinabile come ‘diritto costituzionale’, è altrettanto evidente, tuttavia, che esso è innervato da molti elementi che tale natura posseggono e che, miscelandosi con dosaggi diversi rispetto agli impianti costituzionalistici del recente passato, danno vita non a una Costituzione europea, bensì a un ‘sistema costituzionale europeo’ che, formalmente retto dai trattati, vive e si esprime materialmente attraverso organi con competenze assimilabili all’esercizio dei poteri tradizionalmente considerati sovrani. Che questo sistema costituzionale, dal carattere frammentario, sia una forma costituzionale priva della sua sostanza o una sostanza costituzionale priva ancora della sua forma è difficile stabilirlo. Quel che è certo è che il processo in atto, che sfuoca e trasfigura i canoni costituzionalistici del Novecento, ha aperto una fase di transizione profonda che amplia gli orizzonti spaziali del costituzionalismo ma non sempre, e nemmeno con la stessa intensità, quelli della democrazia.
A voler analizzare questo complesso fenomeno con la cautela di chi, con il bagaglio concettuale del passato, si accinge a intraprendere un viaggio nel presente conservando il gusto di cogliere i particolari nuovi o ancora nascosti di un paesaggio sempre più in controluce, non si può fare a meno di rilevare che il sistema costituzionale dell’Unione, che si dipana nel XXI secolo sotto le insegne della effettività, si definisce sempre più come un ‘costituzionalismo dei governanti’, vale a dire un costituzionalismo dall’alto, molto diverso, quindi, da quel ‘costituzionalismo dei governati’ che è stato protagonista della costruzione degli Stati europei nel primo e (soprattutto) nel secondo Novecento. Ciò non solo perché manca un atto formale voluto e legittimato dal popolo sovrano per suggellare i princìpi regolativi dell’organizzazione istituzionale dell’Unione Europea e i rapporti tra questa e i suoi cittadini; non soltanto perché quel potere costituente attraverso cui il popolo che si riconosce sovrano sceglie la forma giuridica della propria unità politica viene continuamente trasferito a istanze nazionali e sovranazionali, ma anche e soprattutto perché quello stesso potere costituente, che oggi non si riconosce più libero ma vincolato al rispetto dei diritti fondamentali, viene incessantemente rimesso a istanze diverse dal titolare originario. Si scopre, così, che il sistema costituzionale comunitario è ben lungi dal rispondere ai canoni tradizionali della democrazia rappresentativa ormai parte integrante della cultura politica e della tradizione giuridica degli ordinamenti costituzionali occidentali e che il suo Parlamento, organo rappresentativo per antonomasia, pur avendo accresciuto e riformulato significativamente il proprio ruolo negli ultimi anni, non possiede ancora capacità decisionali comparabili a quelle dei parlamenti nazionali degli Stati membri. Le decisioni più importanti, infatti, tendono a essere prevalente (se non proprio esclusivo) appannaggio dei vertici degli esecutivi dei singoli Stati o della tecnocrazia comunitaria, con il risultato, sicuramente ambiguo, che nel sistema dell’Unione Europea l’organo rappresentativo manca di adeguata capacità decisionale e gli organi con capacità decisionale, pur non mancando di rappresentatività (di primo grado), finiscono per difettare in legittimità oltre che in responsabilità. Se a tutto ciò si aggiunge che i singoli parlamenti nazionali riescono con difficoltà a inserirsi in tali processi decisionali (e solo nelle evoluzioni più recenti dei trattati), non è difficile avvedersi che il costituzionalismo europeo opera una sostanziale espropriazione del potere legislativo e, quindi, anche un’incisiva lesione di quel principio della sovranità popolare. Pilastro portante dello Stato di diritto, oltre a individuare nei cittadini l’origine e il fondamento della sovranità, tale principio assume che i fondamentali poteri dello Stato siano esercitati dagli stessi mediante rappresentanti liberamente eletti. Questo deficit di legittimazione costituzionale (più che democratica) che si consuma sotto le insegne di una politica dell’Unione concepita non dall’organo direttamente rappresentativo delle comunità nazionali, bensì dalle altalenanti maggioranze politiche che queste sono in grado di esprimere, non è l’unico aspetto in cui il costituzionalismo europeo si rivela deficitario sotto il profilo democratico. Anche sul piano dell’effettività dei diritti fondamentali il sistema costituzionale dell’U.E. non è (ancora) in grado di apprestare garanzie analoghe a quelle offerte dal costituzionalismo nazionale specie nella sua versione del secondo dopoguerra. Certo, non si può negare che il riconoscimento ad ogni cittadino europeo del diritto di circolare e di fissare la propria residenza nel territorio di tutti i paesi dell’Unione Europea, di essere eletti al Parlamento di Strasburgo e nelle elezioni comunali del luogo di residenza, indipendentemente dalla cittadinanza nazionale, di rivolgere petizioni al Parlamento europeo e istanze al Mediatore, di vedersi assicurata l’assistenza diplomatico-consolare hanno dilatato il catalogo dei diritti e delle ‘libertà dei moderni’, creando le premesse per l’arricchimento della ‘cittadinanza’ [16], ma non si può neppure fare a meno di riconoscere che il costituzionalismo dell’Unione non ha affatto creato le premesse politico-culturali per il rinnovamento delle identità, né le condizioni materiali per rendere i cittadini dell’U.E. eguali, oltre che in diritti di libertà, anche in dignità [17]. Tutto ciò rivela come la sostanza concreta dei diritti continui ad essere custodita dal costituzionalismo nazionale, il che significa che, allo stato attuale, l’essere cittadini europei non dà affatto luogo a eguali posizioni nei contenuti della cittadinanza. Se è chiaro, dunque, che il deficit democratico o, addirittura, le derive tecnocratiche del sistema costituzionale dell’Unione lo rendono, al momento, poco idoneo ad ampliare gli orizzonti della democrazia, appare ancora più evidente che il suo costituzionalismo, con la relativa frammentarietà, non induce a prefigurare un processo lineare di inequivocabile e progressiva riproduzione su vasta scala dei canoni costituzionalistici del XX secolo. Il costituzionalismo europeo, difatti, se, da un lato, assorbe con gradualità crescente i poteri e le competenze degli Stati nazionali, erodendo l’essenza stessa delle loro Costituzioni, dall’altro, non accenna a ricalcarne le forme, a rifletterne i princìpi, a riecheggiarne i valori, dispiegando al nuovo millennio una gracile trama istituzionale su cui appare davvero difficile tessere, con l’ordito di una cittadinanza che ‘integra’ ma non ‘supplisce’ quella nazionale, una nuova e più ampia epoca dei diritti e delle libertà [18].
3. La traduzione e la diffusione di questo libro in Italia si devono alla generosità di molti che voglio per questo ringraziare in modo personale. Innanzitutto, ringrazio i traduttori [19] che hanno immediatamente accettato la mia richiesta di collaborazione, condividendo generosamente una parte del loro tempo per partecipare, unitamente a chi scrive, ad un progetto culturale a cui abbiamo tutti subito creduto, quello di rendere disponibile per l’ampio pubblico dei lettori italiani un’opera che abbiamo ritenuto assolutamente utile allo sviluppo della conoscenza, quale appunto la storia costituzionale del lento ma costante processo di costruzione della libertà, a partire dal costituzionalismo liberal-democratico fino alle proiezioni attuali di un ‘costituzionalismo a più livelli’. Spero che i lettori vorranno confortarci in questa valutazione. I traduttori sono dei dottori o dottorandi di ricerca universitari che, fin dai mesi estivi, hanno lavorato intensamente e con competenza alla traduzione dei capitoli loro affidati. Io stesso ho riletto con ognuno di loro la traduzione svolta per armonizzare il linguaggio complessivamente utilizzato. Il lettore ci dirà se l’esito di questo lavoro sarà stato di suo gradimento, come auspichiamo. Unitamente ai traduttori, ringrazio Fernando Puzzo per avermi voluto coadiuvare nella lettura delle traduzioni. La responsabilità del lavoro finale di supervisione delle traduzioni ricade in ogni caso su chi scrive, al quale deve addebitarsi ogni eventuale incongruenza, che spero comunque molto limitata. Oltre al lavoro dei traduttori, il libro ha potuto godere dell’amicizia e della professionalità di Fulvio Mazza, che ha facilitato la pubblicazione di questo Volume, sottoponendolo all’Editore Rubbettino e ottenendo che fosse inserito nel suo catalogo. Ringrazio infine l’Editore Rubbettino che ha creduto nelle parole di chi scrive al momento di promuoverne la pubblicazione. Last but not least, ringrazio l’Autore di questo libro per averlo voluto scrivere; si tratta di una raccolta davvero impressionante di informazioni, di dati e di esperienze costituzionali e della loro sistematizzazione storica e teorica, che apporta uno sviluppo indubbio delle conoscenze nell’ambito della storia e del diritto costituzionale comparato. A chi scrive, che già può godere dell’amicizia dell’Autore, è toccato l’onore e il piacere di lavorare con coloro che hanno reso possibile la disponibilità del libro nelle mani del lettore italiano.
In ragione delle tematiche affrontate, un libro come questo ha come destinatario, direi naturale, un pubblico impegnato e colto; accanto ad esso, ho pensato in modo del tutto particolare al vasto pubblico costituito dagli studenti universitari di discipline giuspubblicistiche e di storia costituzionale e del diritto.
[1] M. Fioravanti, Appunti di storia delle Costituzioni moderne. I. Le libertà: presupposti culturali e modelli storici, Giappichelli, Torino, 1991.
[2] Una sua opera è disponibile nella traduzione in italiano con il titolo Il valore della Costituzione, Cedam, Padova, 1997.
[3] Per uno sviluppo più organico di queste riflessioni cfr. anche S. Gambino, “Costituzionalismo multilevel, diritti fondamentali e Unione Europea”, in G. D’Ignazio (a cura di), Multilevel constitutionalism tra integrazione europea e riforme degli ordinamenti decentrati, Giuffré, Milano, 2011.
[4] Cfr. anche S. Gambino e M. Rizzo, “Le costituzioni del Novecento”, in A. Vitale (a cura di), Il Novecento a scuola, Donzelli, Roma, 2001; S. Gambino, “Diritti fondamentali e Unione europea”, in L. Moccia (a cura di), Diritti fondamentali e Cittadinanza dell’Unione europea, Franco Angeli, Milano, 2010.
[5] La rilettura dell’art. 41 Cost. (I co.), che ne è stata fatta da parte di autorevole dottrina (così G. Amato, “Il mercato nella Costituzione”, in AA.VV. (A.I.C.), La Costituzione economica, Padova, 1997), circa la centralità della libertà d’impresa rispetto al suo bilanciamento con le tutele accordate alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità del lavoratore (II co.) e, soprattutto, con le previsioni della riserva di legge, di cui al III co., secondo le quali “la legge determina programmi e controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, ne costituisce un esempio quanto mai illuminante, con il suo evidenziare una nuova interpretazione della Costituzione alla luce dei princìpi posti a base del processo d’integrazione europea, come è noto, d’ispirazione liberistica.
[6] Cfr. A. Cantaro, “Dopo la democrazia dei partiti”, in Democrazia e diritto, 1995, n. 2; S. Gambino, “Forma di governo e rappresentanza politica fra costituzione materiale e prospettive de jure condendo. Riflessioni introduttive”, in S. Gambino (a cura di), Forme di Governo. Esperienze europee e nordamericana, Giuffré, Milano, 2007.
[7] Cfr. N. Bobbio, Tra due Repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, Roma, 1996, p. 40.
[8] Cfr. D. Grimm, “Il futuro della costituzione”, in G. Zagrebelsky - P.P. Portinaio - J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino, 1996, p. 163.
[9] Cfr. G. Zagrebelsky, “Storia e costituzione”, in G. Zagrebelsky - P.P. Portinaio - J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, cit., p. 74.
[10] Sul punto, cfr. anche il nostro “La revisione della Costituzione fra teoria costituzionale e tentativi (falliti) di decostituzionalizzazione. Limiti sostanziali e Costituzione materiale”, in S. Gambino - G. D’Ignazio (a cura di), La revisione costituzionale e i suoi limiti, Giuffré, Milano, 2007.
[11] Cfr. sul punto P. Portinaro, “Il grande legislatore e il custode della Costituzione”, in G. Zagrebelsky - P.P. Portinaio - J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, cit., passim.
[12] Cfr. S. Holmes, “Vincoli costituzionali e paradosso della democrazia”, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, cit., passim.
[13] Cfr., sul punto, fra gli altri, D. Grimm e G. Zagrebelsky, in AA.VV., Il futuro della Costituzione, Torino, 1996; S. Gambino (a cura di), Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, Costituzioni nazionali e diritti fondamentali, Giuffré, Milano, 2006.
[14] La nozione di originarietà su cui si fonda tale valutazione attinge, naturalmente, alla ricerca costituzionale. Nella dottrina europea, si assume, in senso diverso, che l’ordinamento dell’Unione possa definirsi come originario, in quanto comprende al proprio interno le garanzie di attuazione delle norme.
[15] Per uno sviluppo di quest’orientamento cfr. anche i nostri “La (recente) evoluzione dell’ordinamento comunitario come processo materialiter costituente: un’analisi alla luce delle categorie classiche del diritto pubblico europeo e dell’esperienza concreta”, in La cittadinanza europea, 2006, n. 1, nonché “Integrazione comunitaria e legittimazione costituzionale”, in Scritti in onore di Giuseppe G. Floridia, Jovene, Napoli, 2009.
[16] Fra gli altri, sul punto, cfr. anche L. Moccia (a cura di), Diritti fondamentali e Cittadinanza dell’Unione europea, Franco Angeli, Milano, 2010; V. Lippolis, “La cittadinanza europea”, in Quaderni costituzionali, 1993, n. 1, p. 136.
[17] Cfr. M. Luciani, “Diritti sociali e integrazione europea”, AA.VV. (A.I.C.), Annuario 1999. La Costituzione europea, Padova, 2000; S. Gambino, “Cittadinanza e diritti sociali fra neoregionalismo e integrazione comunitaria”, in Quaderni costituzionali, 2003, n. 1, nonché “I diritti sociali e l’Unione Europea”, in La cittadinanza europea, 2008, nn. 1-2.
[18] Sul punto, nell’ampia bibliografia, cfr. anche il nostro “Tendances du constitutionnalisme contemporain en France et en Europe”, in Astrid Rassegna, 2011, n. 144.
[19] Le traduzioni sono state svolte dai seguenti dottori di ricerca, tutti appartenenti alla Università della Calabria: dott.ssa Tiziana Salvino (Introduzione e Capitolo IV); dott.ssa Greta Massa Gallerano (Capitoli I e II); dott.ssa Maria Felicia Gemelli (Capitolo III); dott.ssa Anna Margherita Russo (Capitolo V); dott. Gaetano Sorcale (Capitolo VI); dott.ssa Elda Serra (Capitolo VII); dott.ssa Francesca Ugolino (Capitolo VIII); dott. Claudio Di Maio (Capitolo IX); dott.ssa Francesca Iusi (Capitolo X ed Epilogo). Prima della revisione finale da parte di chi scrive, il prof. Fernando Puzzo ha riletto l’intera traduzione del libro.
Silvio Gambino
(direfarescrivere, anno VIII, n. 81, settembre 2012)
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