Studioso di letterature classiche e traduttore, nonché attivo militante e politico tra le fila del Gruppo nazionalista e più volte sottosegretario alla Pubblica istruzione e Belle arti, Luigi Siciliani diede un notevole contributo alla vita letteraria italiana dei primi del Novecento, non solo con traduzioni e scritti di natura saggistica e giornalistica, ma anche con opere più marcatamente creative: consistente fu, infatti, la sua produzione lirica, raffinata e dai richiami classici, raccolta in numerose antologie pubblicate tra il primo e il terzo decennio del secolo scorso.
Egli, però, è soprattutto ricordato per un’opera in prosa, Giovanni Fràncica, il suo unico romanzo, pubblicato nel 1910, in cui affiorano originali abilità narrative. L’opera è adesso riproposta al pubblico grazie alla ristampa anastatica pubblicata da Città del sole edizioni (pp. 344, € 16,00) a cura del notaio strongolese Carlo Perri, attento studioso della cultura crotonese che ha seguito e concretizzato questo importante progetto editoriale, presentandone le caratteristiche nella Nota del curatore che apre il volume. Perri infatti, in tale Nota, evidenzia tre ragioni alla base della pubblicazione: «Il mondo letterario italiano pare abbia dimenticato il calabrese di Cirò Luigi Siciliani. Il primo (e principale) motivo di questa ristampa anastatica del suo Giovanni Fràncica è quello di colmare questo vuoto. […] Il secondo motivo che ci ha indotto a realizzare questa pubblicazione è certamente il valore documentale del romanzo. Il libro, infatti, rappresenta un notevole affresco, molto realistico, della vita in un piccolo paese di Calabria, Cona-Cirò, nel primo decennio del secolo scorso. […] Terzo e non ultimo motivo è l’attualità del messaggio del Fràncica. Il protagonista del romanzo, lontano dalla sua terra, sviluppa una visione idilliaca del suo paese, venata da una colta nostalgia per l’età dell’oro della Magna Grecia (“noi che fummo greci ma greci più grandi ora siamo negletti in solitario abbandono”), rendendosi conto dei problemi, della ambiguità e delle miserie della politica locale, dell’inadeguatezza delle classi dirigenti».
L’opera, peraltro, rappresenta la prima pubblicazione della collana Storia e Cultura del Crotonese che, come evidenzia Perri, «riunirà e cercherà di far rivivere opere e documenti riguardanti Crotone ed il suo territorio, sconosciuti o dimenticati, per far conoscere ai calabresi curiosi pagine della propria storia sulle quali è sceso, a torto o a ragione lo stabiliranno i lettori, l’oblio».
Di seguito riportiamo la Prefazione all’opera, a firma di Margherita Ganeri, docente di Letteratura italiana contemporanea.
La redazione
Prefazione
La Calabria nel 1905: un ritratto variegato e vivace
La pubblicazione di questa ristampa anastatica dell’unico romanzo edito in vita da Luigi Siciliani è un’iniziativa editoriale lodevole, che mette finalmente a disposizione del pubblico, dopo decenni, un interessante libro ormai introvabile. Giovanni Fràncica era uscito, presso la casa milanese Quintieri, nel 1910, e aveva avuto, nel 1920, una seconda edizione, su cui si basa la presente ristampa. Nel 1973, una riedizione era stata approntata dalla periferica Casa del Libro di Cosenza. Da allora, sul narratore sembra calato un silenzio quasi totale, tanto dell’editoria, quanto della critica: un oblio senz’altro ingiustificato e ingiusto.
Un notevole interesse suscita la ricostruzione d’ambiente singolarmente ricca. Il romanzo offre un vivace panorama del contesto sociale e culturale calabrese, con escursioni ampie in quello nazionale, soprattutto romano. Il bozzetto verista si prospetta articolato e ricco di sfumature, sfaccettato e fedele, tra luci e ombre, come un diorama. La società meridionale post-unitaria è molto ben rappresentata, sia dal punto di vista economico, sia da quello politico. Largo spazio trovano, nel variegato affresco, l’emigrazione, le pratiche agricole arcaiche, il sottosviluppo dei commerci, la ramificata e chiusa struttura clientelare dei poteri, la forma mentis familistica, le consuetudini amorose e matrimoniali. La mentalità e il costume sono raccontati con vitalità partecipe e insieme con disincanto, mettendone in luce, obiettivamente, tanto i pregi, quanto i difetti. Il tono arguto, sereno e quasi ilare della voce narrante si alterna alle considerazioni malinconiche o propriamente disilluse, senza che mai la cifra dominante scivoli nel pessimismo.
La vicenda è ambientata nell’immaginaria cittadina di Cona, in provincia di Catanzaro, metafora, secondo quanto leggiamo, dei paesi di provincia meridionali, ma forse anche calco della Cirò di inizio secolo, che diede i natali allo scrittore. Ampie sezioni si svolgono a Roma, perché il protagonista, citato nel titolo, vi si trasferisce, e non mancano menzioni di molte città settentrionali, in cui Giovanni viaggia prima di rientrare in Calabria, con il progetto di darsi alla politica locale. A quanto pare, prima del 1920 l’autore avrebbe redatto anche una seconda parte del Fràncica, mai pubblicata, che avrebbe voluto intitolare Da Cona a Roma. Ciò conferma l’impressione di un collegamento stretto tra la vita e l’opera. Molti aspetti del romanzo sono autobiografici.
Siciliani fu una personalità di spicco nel suo tempo. Nato nel 1881, dopo gli studi liceali a Catanzaro si trasferì nella capitale, e vi conseguì due lauree, una in Legge e una in Lettere. Dal 1907 visse per un periodo a Milano, dove fondò, con altri, l’Associazione nazionalista italiana, e, poco dopo, il settimanale interventista Il Tricolore. Si arruolò volontario durante la Prima guerra mondiale, intervenendo in importanti battaglie. Alla fine del conflitto, proseguì l’attività politica, e partecipò, con D’Annunzio, di cui era diventato amico, all’impresa di Fiume.
Ammiratore di Carducci, intimo di Pascoli, che gli dedicò alcune poesie, Siciliani fu sia letterato, soprattutto poeta, sia uomo d’azione, come già questi brevi cenni biografici dimostrano.
Nel 1919 fu eletto per la prima volta alla Camera, nel collegio di Catanzaro. Prese così avvio la sua brillante carriera sotto il fascismo, che lo portò, nel 1922, alla nomina di sottosegretario al ministero dell’Istruzione pubblica per le antichità e le belle arti, nel gabinetto Facta, e poi nel primo governo Mussolini. Venne rieletto deputato nel 1924, ma si ammalò di nefrite, e ne morì, a Roma, l’anno successivo.
La vasta cultura dell’autore è testimoniata anche dalla fitta serie di traduzioni di rilievo di testi poetici, dal greco, dal latino, dal tedesco, dal portoghese, dall’inglese, e dall’opera saggistica, dedicata a vari argomenti. Siciliani fu anche giornalista e brillante conferenziere. I suoi contatti culturali erano molto fitti e altolocati. Il quasi del tutto inedito archivio epistolare, custodito dagli eredi, pare contenga una miniera di corrispondenze con letterati e artisti di primo piano: Boccioni, Bontempelli, Borgese, Cecchi, D’Annunzio, De Bosis, De Roberto, De Unamuno, Di Giacomo, Gozzano, Marinetti, Moretti e Ada Negri, fra gli altri. Le lettere di Pascoli, di cui era, oltre che amico, anche critico e commentatore, sono state pubblicate da Einaudi, a cura di Ghidetti, nel 1979.
Nel 1920, Siciliani pubblicò anche una raccolta di cinque novelle, L’ignota, corredata da una premessa autobiografica, in forma di lettera, in cui rievoca il successo di critica ottenuto dal Fràncica.
Il romanzo ricevette, in effetti, un’ottima accoglienza, sui giornali nazionali più importanti. Ne scrissero molto bene i noti critici Oliva, Borgese, anch’egli amico di Siciliani, e, soprattutto, Emilio Cecchi. Quest’ultimo definì Fràncica una sorta di redento Andrea Sperelli o Giorgio Aurispa, che ripudia alla fine l’estetismo e la lussuria in favore dei valori “provinciali” derivanti dalle sue radici calabre. Dopo un percorso di formazione filosofica e una fase di vita sentimentale dissoluta, il personaggio decide, infatti, di tornare dalla capitale a Cona, per perseguire un nobile progetto politico, in favore del riscatto della sua terra.
Giovanni non entra in scena fin dalle pagine iniziali. Il primo capitolo si apre con una vicenda marginale: una relazione amorosa del futuro cognato con una popolana il cui marito è emigrato in America. Progressivamente prendono rilievo le figure dei familiari, il fratello Pietro, la sorella Sofia, il cognato Nicodemo. Alla famiglia si affiancano vari altri personaggi minori, tutti icasticamente molto ben caratterizzati. Il loro insieme corale compone un ritratto a tutto campo dei diversi ceti sociali, e prepara l’ingresso del protagonista in uno sfondo efficacemente definito.
Un motivo di interesse che mi preme sottolineare riguarda la rappresentazione priva di pregiudizi, schietta e acuta della condizione femminile. Nel 1905, l’anno in cui è ambientata la vicenda, in Italia comincia a diffondersi il femminismo. Basti pensare che nel 1906, con grande scandalo, sarebbe stato dato alle stampe il primo romanzo femminista italiano, Una donna, di Sibilla Aleramo. La posizione dell’autore non è esplicitamente a favore del movimento in via di affermazione, ma è degna di nota la sensibilità con cui egli tratteggia i personaggi muliebri, evidenziando le differenze e i limiti della loro educazione nelle varie classi sociali, e mostrando una simpatia del tutto scevra da tensioni discriminanti. Se pensiamo che, negli anni in cui scriveva, il mondo culturale italiano era nella quasi totalità dei casi permeato da maschilismo, l’attenzione riservata, nel Fràncica, alla psicologia femminile risalta in tutta la sua originalità e importanza.
La formazione umana e intellettuale di Giovanni, e la sua decisione del ritorno a Cona, prendono corpo nella sezione romana, che potrebbe essere vista come un interno romanzo di formazione. In essa spicca la figura dell’amico fraterno e poeta Lorenzo Spùlica, che potrebbe essere definito come un secondo alter ego, oltre a Fràncica, dello scrittore.
Se questi era diviso tra la propria vocazione letteraria e le ambizioni pragmatiche della carriera pubblica, nel testo le due anime si scindono, prendendo corpo in due figure contrapposte. La vox auctoris si può sentire in entrambe, e, più che contrarie, le elucubrazioni reciprocamente letterarie e filosofiche dei due, si percepiscono come speculari, sullo sfondo di un’intensa relazione intellettuale, costruita per crescente contrapposizione. Lorenzo resta fino alla fine un esteta carducciano, nostalgico verso il passato classico e refrattario all’azione. Nel romanzo vince la scelta del pratico e fattivo amico, che rinuncia alla filosofia per dedicarsi al sogno della modernizzazione del meridione, in nome di un solitario idealismo, pieno di idee e di buoni propositi. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, se il contrasto tra la vita di paese e quella della città mondana percorre tutta la storia, benché non idealizzata, la prima appare nel complesso assai più positiva dell’altra, perché priva delle sue vacuità e frivolezze.
Sono ben poche le testimonianze narrative di ampio respiro sulla Calabria di inizio Novecento. Tanto maggiore è, dunque, l’interesse che può rivestire, non solo per il lettore regionale, quella di Siciliani.
Giovanni crede nella possibilità di un cambiamento e di un progresso. Considera la situazione tragica in cui versa la regione come la conseguenza di un malgoverno secolare e come un effetto voluto, per tornaconto, dai detentori del potere nazionale. Se volessimo paragonare il profilo morale di un politico scaltro e cinico come Consalvo Uzeda di Francalanza, protagonista dei Viceré e dell’Imperio di Federico De Roberto, il risultato del confronto sarebbe tutto a favore del sincero e intelligente Fràncica. La descrizione dell’apatia ambientale non si traduce in lui in noncuranza apatica, non produce paralisi: al contrario, lo spinge alla reazione. Giovanni è scettico, sì, ma non corrotto, né fatalista, né passivo, come purtroppo, ora come allora, tanti calabresi rischiano spesso di apparire nelle testimonianze della cronaca.
Per questo, la forza positiva e propositiva espressa dal personaggio, proprio in virtù dell’acutezza della sua analisi sociale, potrebbe porsi, anche per i lettori d’oggi, non solo come un bagaglio utile, ma anche come un’incoraggiante prescrizione agendi.
Margherita Ganeri
(direfarescrivere, anno VIII, n. 78, giugno 2012)
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