L’autore del libricino che ci apprestiamo a presentare ci illustra in poco più di trenta pagine il profilo di un personaggio troppo spesso sottovalutato: si tratta di Joseph Roth, nato in Austria alla fine dell’Ottocento da famiglia ebraica di condizioni borghesi. A lui la Storia ha destinato l’arduo compito di incarnare, a suo modo, la dissoluzione dell’impero austroungarico. Ed egli riesce a farlo, oltre che con i suoi romanzi di successo e con i numerosi articoli, soprattutto con i suoi racconti, le «favole», come vengono definite in questo saggio. Favole analizzate con entusiasmo da Franco Arcidiaco, titolare della casa editrice calabrese Città del sole, che, in questo caso, si è “dato” alle stampe nella veste di autore.
In questo piccolo ma denso volume egli raccoglie il testo della sua relazione tenuta al Convegno nazionale sulla letteratura svoltosi a Reggio Calabria nell’aprile del 2010 con il titolo “Chi fuor li maggiori tui?”, nato da un’iniziativa dell’associazione culturale Pietre di scarto federata BombaCarta. Il libro in questione, di recente uscita (Le favole allegoriche di Joseph Roth. Tra sradicamento e decadenza, Città del sole edizioni, pp. 40, € 5,00), vuole proprio porre l’accento sulle allegorie attraverso le quali lo scrittore austriaco ha decretato la fine di un impero, di una civiltà, di un’epoca.
Un’affascinante biografia
Roth è uno di quegli autori che ci raccontano di sé quello che vogliono farci credere: c’è del romanzo e della mitomania nella sua nascita, nella sua famiglia e anche nella sua morte, che la Storia ci presenta come un decesso “contestato” dai monarchici, dai cattolici, dagli ebrei, da tutti coloro che volevano accaparrarsi l’appartenenza alla propria categoria di questa grande personalità. Al punto che, come sottolinea l’autore, la cerimonia funebre, in cui l’oratore osannava la sua fede monarchica, lasciò insoddisfatti tutti i presenti. Le frontiere che la sua sfaccettata personalità abbracciava, erano davvero troppe, come ebbe a dire il critico letterario e scrittore-giornalista Italo Alighiero Chiusano, citato in questo testo.
Invece, paradossalmente, proprio sulla mancanza di appartenenza si fonda la sensibilità di Joseph Roth. Il sottotitolo del libro coglie infatti lo «sradicamento» e la «decadenza» che impregnano le sue pagine e la vita stessa. Si definiva un uomo «senza patria», dal momento che Brody, la sua città natale, costituiva «una classica area di frontiera dove convivevano pacificamente polacchi orientali, russi ucraini, cattolici ed ebrei, in un clima di gran tolleranza ispirato dalla devozione al diritto asburgico, alla sua politica di pace, alla sua mentalità cosmopolita». La condizione di sradicato proviene poi dalla traumatica perdita del padre in giovane età, un vuoto che Roth cerca di colmare in una delle sue grandi opere, il romanzo Giobbe, attraverso la rappresentazione della figura di un padre ebreo, un uomo buono, sempre presente e attento nei confronti dei figli, secondo precetti religiosi. L’idea del padre come patria, nel senso di appartenenza e sicurezza, lo accompagnerà fino al crollo della stessa, crollo del quale sarà loquace testimone. La ricerca di tali certezze lo vede cambiare spesso luogo, amante e orientamento politico, per inseguire un ubi consistam di certo irraggiungibile nel momento storico e nel luogo in cui viveva: un luogo e un tempo “di passaggio” dei quali si percepiva già l’eco della decadenza.
La riscoperta di piccole «perle» della letteratura
Le incredibili doti di descrittore e narratore ci vengono testimoniate dalle pagine del nostro volumetto, quando si parla de L’allievo modello, prima delle favole allegoriche, e del suo protagonista, Anton Wanzl, dal carattere insolito, quanto solita è invece la sua storia, mentre la lungimiranza di cui ogni autore dovrebbe essere dotato la troviamo nel suo primo romanzo La tela di ragno, che racconta le attività sovversive di gruppi di estrema destra. Per non parlare di Hotel Savoy, forse il racconto più allegorico di tutti, che ha come protagonista un chiaro alter ego dell’autore ed è intriso di una sorta di realismo magico, sul quale si è soffermato il critico Claudio Magris nel suo saggio Lontano da dove, sottolineando la componente jiddish della letteratura di Roth.
Aprile. La storia di un amore viene definito da Arcidiaco un puro «esercizio di scrittura», caratterizzato da «magistrali pennellate», oscurate dal forte cinismo del protagonista, a sua volta uno sradicato, mentre Lo specchio cieco ci regala un Roth espressionista, attento ai dettagli nella descrizione di una giovane donna dalla vita triste a confronto delle altre «non ancora segnate dall’amarezza del piacere».
Infine segue La leggenda del santo bevitore, lungo racconto dal quale è stato tratto nel 1988 un film dall’omonimo titolo, con regia di Ermanno Olmi e che ha ottenuto, nello stesso anno, il Leone d’oro al Festival di Venezia: una narrazione degna dell’atteggiamento più decadente, di un personaggio che va incontro alla sua stessa rovina, in modo consapevole, alla ricerca di un nulla che viene identificato nella quiete e in una redenzione vagamente religiosa che il protagonista, naturalmente un esule e quotidianamente dedito alla perdizione, ricerca. Ambiguo ed enigmatico, questo racconto conclude in modo definitivo la parabola dell’impero austriaco di Francesco Giuseppe, crogiolo di culture, civiltà, esperienze da condividere nella “città laboratorio del mondo”, come la Vienna di fine secolo veniva considerata.
Il Roth giornalista: ancora una volta figlio del suo tempo
Ma Roth, a cui la sua stessa patria aveva insegnato come diventare cittadino del mondo, viaggiava in continuazione. Scriveva su alcuni dei più importanti giornali dell’epoca come il Frankfurter Zeitung, pubblicando articoli di argomento vario, spesso di critica sociale (da qui la sua fama non ingiustificata di socialista) e reportage dall’Albania, dalla Jugoslavia e dall’Italia. La sua carriera di giornalista inizia nel 1919 ma conoscerà l’acme a partire dall’anno successivo, quando Roth si trasferisce a Berlino, intensificando la collaborazione con riviste e periodici e gli incontri con intellettuali del tempo nei caffè della capitale. Sono i tempi in cui i nazisti cominciano ad organizzare clandestinamente formazioni paramilitari e il nostro sceglie di collaborare con Vorwärts, l’organo ufficiale del Partito socialdemocratico unificato. Questa sua esperienza non viene per niente ignorata in questa opera di Arcidiaco così come il suo stile che oscillava tra un espressionismo sfiorato qui e lì, e il movimento della “Nuova oggettività”, al quale comunque Roth non obbediva del tutto, restando fedele soltanto al suo spazioso eclettismo. Se da una parte, infatti, scrive nella Prefazione a uno dei suoi primi romanzi, Fuga senza fine, che «la cosa più importante è ciò che viene osservato», dall’altra critica una scrittura troppo “giornalistica” che si limita ai nudi fatti, raccontati con gelida lucidità, come avviene appunto nel movimento artistico della “Nuova oggettività”, una sorta di “realismo emotivo” che si è sviluppato in Germania a cavallo della Repubblica di Weimar. Tuttavia, come sostiene Arcidiaco, la sua formazione intellettuale risente soprattutto della nascita dei nuovi movimenti politici: l’austromarxismo, il sionismo e l’antisemitismo.
Un ulteriore aspetto del saggio, oltre all’appassionato omaggio alla grande e spesso sottovalutata letteratura mitteleuropea, è la serrata critica al mercato editoriale. L’autore (ed editore) Arcidiaco vuole rivalutare queste piccole preziosità spesso ignorate dalle comuni esigenze del mercato librario oppure oscurate dai romanzi di successo dei relativi autori, nel caso di Roth, La marcia di Radetzky (Marzocco, 1925), forse il suo romanzo più decadente, perché inserito nel contesto storico della Grande guerra, proprio il momento in cui l’autore si definisce «senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi, senza professione». Di questo grande scrittore, così, vengono distrattamente messi da parte racconti significativi, che possono diventare – come spesso accade – anche chiave di lettura delle opere più grandi.
Angela Galloro
(direfarescrivere, anno VII, n. 63, marzo 2011)
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