Quattro personaggi storicamente reali, nella Parigi del 1785, e le loro intrecciate vicende – dall’intrigo alla politica, passando per il sesso e la religione – animano, in una sorta di “giallo”, il famigerato “affare della collana”; un fatto misterioso che coinvolse la monarchia capetingia in un periodo denso di epocali cambiamenti: dalla dissoluzione della società aristocratica all’inarrestabile ascesa della borghesia.
È l’ultima fatica letteraria di Roberto Gervaso, noto giornalista e opinionista nonché prolifico scrittore, che – con un romanzo storico, La regina, l’alchimista e il cardinale (Rubbettino, pp. 282, € 18,00) – ricostruisce accuratamente la fisionomia di una Francia alla fine del Settecento con il supporto di un’agile bibliografia, resa esaustiva dall’utilizzo di documentazioni di indubbia attendibilità. A tal proposito, Gervaso analizza la realtà politica, sociale ed economica della Francia antecedente alla Rivoluzione, grazie ai ritratti dei personaggi: con dovizia di particolari, infatti, l’autore ne narra le condizioni sociali, ricostruendo così parte di un ceto aduso a percepire il privilegio come diritto: «Su una popolazione di circa venticinque milioni di abitanti (più di mezzo solo a Parigi), coloro che spadroneggiavano, sfruttavano, dominavano la nazione non erano che poche decine di migliaia. Tutti, salvo eccezioni, appartenenti alle due classi privilegiate: nobiltà e clero».
Le sue descrizioni sono oltremodo persuasive nel dare un’idea delle due classi che erano l’asse portante della vecchia struttura politico-sociale in procinto di essere radicalmente trasformata dalla Rivoluzione francese:
«Se l’anonimo curato di campagna sbarcava il lunario tirando la cinghia, non meno dei suoi parrocchiani, vescovi e abati non si privavano di nulla, vivevano come nababbi, non dovendo rendere ragione dello scialo ad alcuno, se non a Dio, contabile severo, ma remoto. Fede ne avevano poca. Roma era lontana e, comunque, di manica larga nel giudicare i suoi rappresentanti d’oltralpe, non peggiori di quelli che aveva in casa, al servizio più di Mammona che di Cristo. Oltre che di Venere, onorata con puntigliosa assiduità. […]
E veniamo alla nobiltà. Da quando il Re Sole, per domarne l’irrequietezza e meglio controllarla, l’aveva, con le blandizie, le sinecure, le distinzioni, le minacce, fatta affluire a Versailles, essa aveva perduto molto della propria linfa vitale. Non coltivava più le terre, sacrificate al piacere e agli ozi di una corte sempre più molle, insipiente, lasciva e capricciosa. Non faceva nulla, se non ciò che avrebbe fatto meglio a non fare, nel suo interesse e per la sua stessa sopravvivenza. Non produceva, ma pretendeva. Viveva in un mondo fuori dal mondo, marcio e insieme rarefatto, schiava di regole grottesche e rancidi formalismi».
Maria Antonietta, l’austriaca
Il matrimonio di Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena con il delfino di Francia, Luigi XVI, non fu altro che un “accordo” dinastico per rinsaldare l’alleanza tra la Francia e gli Asburgo. La sovrana non suscitò alcuna simpatia presso i suoi sudditi: «frivola, spensierata, impulsiva, pur se conscia della propria regalità, cercò e trovò almeno in apparenza, sfogo e sollievo nei divertimenti: pranzi, balli, feste mascherate, partite a carte, teatro, escursioni».
Della coppia reale, l’autore scrive: «Se la ragion di Stato li aveva uniti, il matrimonio non li aveva fusi».
Il cardinale
«Nella Francia del tempo, Luigi Renato Edoardo de Rohan non aveva bisogno di presentazioni. Il suo nome era dovunque pronunciato con rispetto; la famiglia era tra le più le più ricche e influenti, a Parigi come in provincia». Così Gervaso presenta il principe della chiesa, la cui parola d’ordine è “divertirsi”:
«Si sentiva, pur senza albagia, anzi con amabile distacco, al di là e al di sopra di quelle regole e convenzioni cui, in virtù della nascita e degli uffici che ricopriva, avrebbe dovuto scrupolosamente attenersi. Assolveva i propri obblighi – religiosi, politici, diplomatici – più con grazia che con scrupolo.
Ma erano proprio queste lacune a farne il beniamino delle signore, l’idolo dei salotti. In compagnia delle prime, fra le pareti dei secondi, veniva fuori il vero Rohan, intrattenitore garbato, conversatore forbito ed eclettico, maestro insuperabile di galanteria. Ogni suo gesto era studiato, ogni parola calcolata, ogni allusione ponderata. Le dame pendevano dalle sue labbra e facevano per lui quel che non facevano per i mariti. Non c’era invito che non gli rivolgessero, non c’era favore che gli negassero, né elogio di cui non lo ritenessero meritevole. Il bel principe non aveva che da chiedere, e loro lo accontentavano».
Già coadiutore, venticinquenne, del vescovo di Strasburgo, suo zio, il Rohan venne nominato ambasciatore nell’ambita Vienna dove:
«pur conoscendo il carattere schivo della sovrana, il suo puritanesimo, i suoi monastici costumi, trasformò l’ambasciata in una reggia, spendendo un mucchio di quattrini e facendo un mucchio di debiti. […] Ma Luigi seguitò imperterrito per la sua strada. Una strada che portava il fior fiore della società viennese al suo bel palazzo, dove le cene si alternavano ai balli, le cacce alle gite, in un clima di festosa dissipazione».
Odiato dall’imperatrice Maria Teresa, venne in seguito allontanato dall’incarico e costretto a rientrare a Parigi.
Nel frattempo Maria Antonietta, figlia dell’imperatrice, era divenuta la sovrana di Francia.
Cagliostro, l’immarcescibile
Alla figura di Alessandro Cagliostro, che nell’“affare” ha di per sé un ruolo estremamente marginale, viene dedicata una particolare attenzione; molto probabilmente perché vi è una sorta di benevola consuetudine, da parte di Gervaso, nei confronti dell’avventuriero palermitano – nato Giuseppe Balsamo:
«Non un taumaturgo e un profeta, dunque, ma un ciarlatano, mercante di fole, spacciatore di chimere? Per i nemici – e quanti ne ebbe – certamente sì. Ma per gli amici – legione multiforme, osannante, fanatica – no. In Alessandro questi videro, o vollero vedere, quasi un ente superiore, un medico dei corpi, un terapeuta delle anime, un’infallibile guida spirituale. Quale la verità? Chi fu Cagliostro? Un ciurmatore? Talvolta. Un taumaturgo? Anche. Un venditore di fumo? In più di un’occasione. Un filantropo disinteressato? Sicuramente. Non soltanto un reprobo, ma neppure solo un santo. Un miscuglio dell’uno e dell’altro, di bene e di male, conoscenza e ignoranza, magnanimità e grettezza, improntitudine e ingenuità, stregoneria e autentica fede».
Le ambizioni di una poltroniera
Protagonista indiscussa delle pagine del romanzo è Giovanna de Saint-Remi de Valois de la Motte, definita dallo scrittore come un’odierna «scalatrice sociale, avida di denaro, potere, prestigio, pronta a tutto pur di raggiungere questi obiettivi».
L’imbroglio ordito dalla nobildonna ruota attorno a un prezioso monile, una collana con cinque giri di diamanti creata dai gioiellieri parigini Boehmer e Bassenge, il cui costo era di un milione e seicentomila livres.
In un quadro di sintesi: da un lato, la contessa de la Motte millantava di godere del favore della regina Maria Antonietta; dall’altro, il cardinale Rohan ambiva alla carica di primo ministro e cercava in ogni modo di riconquistare credito presso la sovrana dopo la disgraziata parentesi viennese.
Una girandola di momenti e figure porta il cardinale – abbindolato dalla contessa – ad acquistare in gran segreto la collana per conto di Maria Antonietta, ignara di tutto…
La verità viene a galla con risvolti ed esiti dall’aspetto tragicomico, tant’è che della faccenda se ne occuperà la giustizia e, in particolar modo, l’opinione pubblica di una Francia prossima alla Rivoluzione del 1789. L’ineffabile epilogo della storia – ben nota ai più – è riservato ai lettori che potranno intrattenersi con un’acuta abilità narrativa.
Nicola D’Agostino
(direfarescrivere, anno V, n 41, maggio 2009)
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