Un testo comparabile alla consuetudine quotidiana di molteplici donne, riproposte nell’opera, attraverso un modello femminile instancabilmente inquieto. Una voce, quella della protagonista, che si accinge a un imperterrito scagliar d’anatemi dall’estemporanea e acre fonetica. Un esprimersi rammentante incontentabilità evidenti nella situazione sociofamiliare d’appartenenza. Nell’opera di Carmela Cammarata I santi padri (Del Vecchio editore, pp.144, € 14,00), intercorrono lassi temporali, durante i quali palesa l’attanagliante brama d’evasione dai preposti schemi d’una femminilità insufficientemente valorizzata. Amante della creatività manuale, sostenitrice d’ogni materia plasmabile con arte e fantasia, Carmela Cammarata racconta attraverso un’ottica non tanto sociologica quanto invece umana, le vicende d’un vissuto ordinario che, secondo la protagonista dell’opera, diviene una routine di deludente effetto. L’autrice è socialmente attiva, impiegata nel settore contabilità del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, orgogliosamente dinamica in tutte quelle attività ricreative, degne d’un arricchimento personale. Essa evade per un istante dalla sua realtà, immedesimandosi nelle movenze d’una donna, madre, moglie e figlia, consueta al tedio d’una veste da massaia indossata con ripugnanza, seppur la sua istruzione abbia acquisito una valenza di spessore nel tempo. Infine, disillusa da un legame coniugale fallimentare, succede al discordante rapporto paterno, cresciuto e sviluppato in una grama monotonia.
Il romanzo si presenta in ventitré capitoli, morbosamente atti a evidenziare il malcontento femminile dinnanzi al rapporto con l’universo maschile, descritto attraverso la stesura di comportamenti frivoli e incautamente irresponsabili. La lettura degli episodi s’imbatte in uno strumentalismo della prima persona singolare che invita il lettore ad aver un rapporto diretto d’ascolto con l’agente delle vicende. Uniche fonti di sfogo divengono le citazioni musicali, motivi pronunciati, cantati e interpretati dalla donna, che in quel frangente riconquista uno scorcio di tregua, allontanandosi dalla limitante realtà esistenziale.
Curata è la presenza di note (pp. 115-19), attraverso le quali l’autrice richiama i dettagli discografici e temporali di quei motivi enunciati nella narrazione, canti che in sé possiedono un nesso coerente con le condizionali attese maturate tra le mura domestiche.
Frequente è l’utilizzo dell’esclamazione, spesso ridotta a sconcezza verbale, strategia narrativa efficace giacché rende alquanto reale il travagliato stato emotivo della protagonista. I “santi padri”, una metafora ingegnosa, rivisitata elegantemente dinanzi alle ripetute esecrazioni emerse dinnanzi all’oblio che l’uomo si accinge a produrre. Padre, come un creatore snaturato, artefice d’altrettanti uomini che attraverso la paternità non si capacitano di render amorevole valore certo a ciò che il loro stesso seme ha generato. Un circolo vizioso quasi narcisistico, all’interno del quale la stessa virilità si occulta dietro comportamenti inaspettati, come l’intrigo sessuale indirizzato alla scelta omosessuale oltre il normale contesto etero/coniugale. Nulla è santificato se non la spietata ricerca di urlati epiteti nell’ombra dell’ira.
Insofferenza
Lacrime mai versate in pianti, bensì parole di reazione nella logorrea di consuetudini giornaliere perpetrate in rovinose solite azioni. Pulizie domestiche, cure verso una progenie infante, sicuramente più reattiva d’una madre oramai priva di stimoli: «Sentivo il pianto dei gemelli, anche loro ad accampare diritti con neonata e insistente determinazione; affermavano di prepotenza il loro esserci, che sollecitava però, dentro di me, un nulla, me ne restavo indifferente ai loro singhiozzi». Un progressivo instaurarsi d’uno stato depressivo conscio e ribelle, paradossalmente ragionato, consenziente, condotto a uno sviluppo accomodante: «Adoravo bamboleggiarmi, e forse avrei vissuto tutta la vita felice di soffrire, ma di certo non ero il tipo da suicidio». Un remoto di un’infanzia trascorsa nella vivacità dei giorni traccia il profilo di una bambina che nonostante l’età aveva molteplici ambizioni e un perspicace senso critico, affievolito inspiegabilmente nella crescita. Rimembranze lontane, ritagli d’un passato in cui la gioventù ergeva il suo progresso grazie ad una poliedricità mentale, creativa e pedagogica. Lei, ragazza dall’avvincente istruzione, lavoratrice parallela, personalità instancabile mutata poi in un tempo perduto, così come furono persi gli impulsi vitali nonostante il sopraggiungere di realizzanti e completanti eventi come il matrimonio e la maternità. Un sogno svanito, vittima sacrale d’una vita che tolse voce a quella passione che mai sfociò in senso ultimo dei giorni, cantare: «Ma poi, con la faccenda del lavoro, spesso ero in viaggio e perciò mancavo di qualsiasi credito. La possibilità di dover rinunciare perfino a quello non mi dava pace». Nonostante l’appagamento economico e un legame coniugale apparentemente felice, non stenta mai d’imbattersi nell’avidità d’amore e compiacimento affettivo che gli eventi inderogabilmente sono soliti scagliarle contro.
Sessualità
Testimone oculare del fallimento coniugale, gravida, tradita e delusa da un membro fedifrago. Moglie d’un uomo bipartitosi tra una vulva generosa e un estraneo membro probabilmente più appetibile. Consorte d’un bipolarismo erotico incompreso, inaspettatamente spietato, pressoché incompatibile con il fecondo legame matrimoniale.
Una dignità lacerata, riversata in un femminismo scenico, divenuto spettacolo di pettegolezzo per chi s’ammoina il suo compatimento. Un secondo parto, veduto attraverso un’ottica differente, un episodio non marchiato dall’amore bensì corrotto da una facciata di comodo, meccanicamente costruita con far ipocrita: «E fu vergogna, ‘o scuorno, che quella volta mi destò dal limbo agonizzante e meraviglioso in cui anneghi quando fai la martire». Timore nell’approccio col mondo, impreparata al saper enunciare alla società ancora mentalmente retrograda una scioccante rivelazione: un fallimento matrimoniale, scaturito da un sesso anale d’un marito che prediligeva membri al di fuori del proprio. Evidenza dei fatti, incompresi e additati, consolata da un’instancabile voglia di procedere nonostante il martirio delle vicende: «Ormai sono sola al mondo se muoio anch’io non avrò più nessuno». Una lei, seppur barcollante, ancora in piedi sui suoi passi di donna.
Enrica Meloni
(direfarescrivere, anno VIII, n. 82, ottobre 2012) |