Il confino di polizia fu lo strumento più utilizzato dal regime fascista, a partire dal 1926, per contrastare la nascita di un’opposizione politica organizzata. Fino al 1943 furono attive in Italia ben 262 colonie di confino, situate prevalentemente nel Mezzogiorno, e 13.000 circa furono i cittadini sottoposti a questa misura restrittiva, il 90% dei quali per ragioni di natura politica. Molti dei detenuti, però, non avevano commesso alcun reato, né avevano mai attentato all’incolumità dello stato. La loro carcerazione, infatti, era puramente preventiva, poiché si trattava di soggetti considerati sovversivi e ritenuti potenzialmente in grado di mettere in pericolo l’ordine pubblico. A differenza dei campi di concentramento e di prigionia, l’istituto del confino fu meno cruento, ma non per questo meno lesivo dei diritti personali e della dignità di chi esprimeva opinioni non consone ai dettami fascisti.
Su questo argomento è recentemente uscito l’interessante volume Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime (Laterza, pp. 218, € 20,00) di Camilla Poesio, dottore di ricerca in Storia sociale europea dal Medioevo all’Età contemporanea presso l’Università di Venezia. L’intento del saggio, espresso dall’autrice nell’Introduzione, è quello di «tracciare una storia del confino e dei confinati per cercare di colmare alcuni vuoti storiografici», provando nel contempo a demistificare l’immagine edulcorata del confino, da taluni addirittura presentato «come una villeggiatura».
Da Rattazzi a Mussolini
Nella prima parte del saggio, Poesio fa un rapido excursus storico, delineando le principali disposizioni di legge che anticiparono, nell’Italia prefascista, l’adozione del confino di polizia.
Nel 1862, in occasione della spedizione di Garibaldi conclusasi drammaticamente in Aspromonte, il governo, presieduto da Urbano Rattazzi, proclamò lo stato d’assedio in Campania e in Sicilia. L’anno seguente venne votata in parlamento la legge Pica contro il brigantaggio, che «ampliava notevolmente i poteri delle autorità militari e inaspriva le misure punitive». Fu allora che venne introdotto il domicilio coatto, applicato indiscriminatamente «a coloro che erano sospettati di connivenza con i briganti, agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette e ai camorristi».
Nel 1865 fu approntato il testo unico di pubblica sicurezza, che sancì il domicilio coatto come provvedimento preventivo ordinario contro coloro che potevano mettere a repentaglio l’ordine pubblico. Negli anni successivi, le misure preventive contro i reati furono intensificate e nel 1871 una nuova legge portò il domicilio coatto «a cinque anni per i recidivi».
Nel gennaio del 1894 Francesco Crispi, capo del governo, proclamò lo stato d’assedio in Sicilia e in Lunigiana, per poter fronteggiare militarmente il movimento dei fasci siciliani e le proteste dei cavatori di marmo della Lunigiana. Qualche mese dopo, il parlamento approvò le leggi antianarchiche, che prevedevano l’applicazione del domicilio coatto «alle persone pericolose per l’ordine pubblico», cioè soprattutto ai membri delle associazioni socialiste e anarchiche.
Nel 1898, il governo, guidato da Antonio Starabba di Rudinì, fece reprimere violentemente i moti di Milano, sciogliendo temporaneamente le organizzazioni socialiste e facendone arrestare i capi. Nel giugno del 1900 le opposizioni impedirono l’approvazione alla camera delle leggi eccezionali, proposte dal capo del governo Luigi Pelloux, che limitavano fortemente i diritti civili e vietavano lo sciopero nei servizi pubblici.
L’Età giolittiana segnò l’accantonamento delle misure di prevenzione più aspre, che tornarono in voga dopo lo scoppio della Grande guerra, soprattutto per colpire «coloro, cittadini italiani e austriaci, sospetti di spionaggio [...] o di filoimperialismo [...], di antimilitarismo [...] e di pacifismo». Fu in quel periodo che in varie zone dell’Italia vennero costruite le colonie adibite ad accogliere chi veniva assegnato al domicilio coatto: «Porto Empedocle, [...] isole di San Nicola, Favignana, Lampedusa, Ustica, Lipari, Ponza, Ventotene, Pantelleria, Elba, Capraia, Gorgona e [...] colonia penale di Assab in Eritrea».
Benito Mussolini, in sostanza, non fece altro che inasprire la politica repressiva già adottata dai precedenti governi liberali, approfittando di alcuni attentati (presunti o reali) di cui fu vittima, subito dopo il delitto di Giacomo Matteotti. Le famigerate leggi fascistissime, approvate nel 1926, introdussero una sorta di «stato di emergenza permanente», modificando il domicilio coatto in confino di polizia, a cui si fece sistematicamente ricorso «per preservare il potere assoluto del partito unico e della dittatura».
Le dure condizioni del confino
L’autrice ricorda che furono le piccole isole del Mediterraneo il luogo privilegiato in cui rinchiudere gli antagonisti del regime e coloro che, pur non essendo dei veri oppositori, venivano considerati socialmente pericolosi (ad esempio, taluni fascisti caduti in disgrazia). Dalle isole «era sicuramente più difficile evadere» e ciò faceva «disilludere e disincantare il potenziale fuggitivo», rendendolo inerme. In più, molte delle colonie di confino erano ubicate nel Sud Italia, dove l’interesse per la politica era piuttosto carente e molto basse le possibilità per i confinati di interagire con la popolazione locale, che spesso provava timore nei confronti degli estranei.
Al confino si poteva finire allorché un questore presentava al prefetto una denuncia circostanziata che spesso si basava, oltre che sui rapporti di Carabinieri e Polizia, sulle delazioni della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e degli agenti dell’Opera volontaria per la repressione antifascista (la polizia segreta). A quel punto, si riuniva la Commissione amministrativa provinciale (formata dal prefetto, dal questore, dal procuratore del re, dal comandante della caserma dei Carabinieri e da un membro della Milizia) che «si pronunciava per l’eventuale provvedimento di confino o di ammonizione».
La sorte dell’indiziato, tuttavia, non sempre veniva decisa in sede locale: spesso veniva informato del caso Arturo Bocchini, capo dell’Ovra dal 1926 fino al 1940, che a sua volta metteva al corrente Mussolini a cui spettava la decisione finale. Talvolta, il Duce compiva atti di clemenza nei confronti dei confinati meno pericolosi e poco politicizzati. Tra il 1932 e il 1942, infatti, «furono liberati [...] 3.637 confinati, di cui l’81,44% era classificato come “apolitico”».
Le condizioni di vita degli internati erano generalmente molto precarie. Sebbene avessero diritto a un piccolo sussidio statale per le spese personali (dieci lire giornaliere all’inizio del regime, che si ridussero a cinque dal 1929 in poi), non potevano frequentare i luoghi pubblici ed erano sottoposti ad obblighi e limitazioni di ogni sorta, rischiando, in caso di trasgressione, punizioni anche severe, come «il richiamo, la consegna, la prigione semplice, la prigione di rigore». Quest’ultima, assegnata ai recidivi, comportava fino a quindici giorni di isolamento «in una cella in cui la branda era sostituita dal tavolaccio».
I detenuti politici abitavano in casermoni angusti e malsani, spesso dormivano sopra «due cavalletti di legno su cui erano poggiate due assi e un materasso riempito di paglia», erano costretti a comprare l’acqua potabile, si lavavano saltuariamente e vestivano con abiti lisi, mangiavano poco e male, versavano in penose condizioni igienico-sanitarie ed erano costretti a convivere con ogni sorta di parassiti. Per tali ragioni tra gli internati ci fu «il moltiplicarsi di infezioni e malattie»: oltre alla tubercolosi e al tifo, erano diffusi «artriti, perdite di denti, peribronchiti sui campi polmonari, gastro-enteriti, deperimenti organici», mentre diversi prigionieri cominciarono a soffrire di disturbi psichici o mentali.
Non mancavano, poi, i maltrattamenti da parte della Milizia fascista e le violenze fisiche e psicologiche, che spesso venivano esercitate soprattutto sui prigionieri politici da parte dei detenuti per reati comuni. Particolarmente difficile fu la condizione delle donne confinate, «maggiormente soggette a misure arbitrarie», in quanto «non aderivano al modello della donna esemplare» in auge nel regime fascista, che ne magnificava il ruolo di madri e di mogli.
La vita quotidiana dei confinati
Sebbene i confinati avessero formalmente la possibilità di lavorare, la maggior parte di loro rimase, almeno fino al 1939, «in uno stato di vero e proprio ozio coatto». Una parte ridotta di prigionieri politici, soprattutto nelle isole, riuscì a svolgere qualche attività retribuita: «barbieri, sarti, calzolai, camerieri, muratori, imbianchini».
Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo fascista pensò di allestire anche in Italia, sul modello nazista, dei campi di concentramento finalizzati allo sfruttamento del lavoro coatto, ma di fatto solo a Pisticci, paese del Materano, questo progetto divenne realmente operativo: sessantaquattro confinati vennero impegnati per un triennio nel disboscamento e nella bonifica di una zona demaniale, su cui venne poi costruito un villaggio agricolo, che «fu chiamato “Marconia” in onore di Guglielmo Marconi».
Molti dei confinati non vennero mai impiegati in attività produttive, per cui a scandire la loro vita carceraria furono soprattutto «l’ozio, la monotonia, la ripetizione dei giorni sempre uguali»: durante una lunga e noiosa detenzione, come ha giustamente fatto notare Vittorio Foa, «il tempo si svuota e si fa geometrico e spaziale». Per svolgere qualche attività utile e stabilire vincoli personali più stretti, molti prigionieri politici s’impegnarono, autotassandosi, nell’allestimento e nella gestione di spacci alimentari, di mense e di biblioteche.
La principale occupazione rimase, tuttavia, il lavoro politico clandestino, che continuò anche durante la prigionia, nonostante le delazioni delle spie e le punizioni. Poesio fa notare, a tal proposito, che nelle colonie di confino si riprodussero le divisioni tipiche del quadro politico prefascista e ci furono anche casi di scontri veementi tra antifascisti appartenenti a partiti diversi. Ad esempio, fino al 1933, i militanti del Partito comunista d’Italia mantennero un atteggiamento settario nei confronti degli altri detenuti politici (che cessò solo quando il Comintern adottò la linea politica dei “fronti popolari”), in quanto essi «continuavano a vedere nella lotta contro la socialdemocrazia e i partiti democratici una delle più importanti attività [...] anziché puntare sull’unione delle forze antifasciste».
Non di rado i prigionieri politici, approfittando degli inevitabili buchi che si aprivano nelle maglie della sorveglianza, provarono a scappare dal confino. Molto spesso le fughe finirono male e i prigionieri vennero puniti col prolungamento del periodo di detenzione, ma talvolta i tentativi riuscirono, come nel caso di Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti e Carlo Rosselli (che nel 1929 evasero da Lipari) o di Leonardo Cosenza, Giacomo Costa e Francesco Paolo Giammanco (che nel 1937 scapparono da Lampedusa).
Il consenso passivo al regime
Gli ultimi due capitoli de Il confino fascista sono dedicati a delineare i rapporti tra confinati, guardie e popolazione locale e a discutere delle analogie e delle differenze tra il regime confinario fascista e la Schutzhaft («custodia preventiva») praticata dal nazismo.
A proposito della sorveglianza dei prigionieri politici, Poesio fa notare come fu soprattutto la Milizia fascista a svolgere le principali funzioni di polizia nelle colonie penali, sovrapponendosi, e spesso sostituendosi, ai Carabinieri e agli agenti di pubblica sicurezza. La popolazione locale manifestò, perlopiù, ostilità o indifferenza nei confronti dei confinati, che solo di rado ebbero modo di stringere rapporti di amicizia con qualche abitante del posto. Quando qualcuno si mostrò meno indifferente, il più delle volte lo fece per interesse: a Ventotene, ad esempio, gli isolani «si facevano pagare profumatamente dai confinati per riferire loro informazioni e notizie udite alla radio o per sentito dire».
Tra il confino fascista e la Schutzhaft tedesca non mancarono certo le analogie. Entrambi, infatti, servirono per far arrestare «tutti quei cittadini che, per non aver commesso alcun illecito e/o per mancanza di prove, non erano imputabili».
Inoltre, ambedue furono gestiti da formazioni paramilitari (la Milizia fascista in Italia, le Sa o le Ss in Germania), che inculcarono nella popolazione locale ostilità nei confronti degli internati. Tuttavia, a differenza del confino fascista, la custodia preventiva nazista fu generalmente più aspra: coloro che venivano sospettati di attività contrarie al regime vennero internati in veri e propri campi di concentramento (Heuberg, Kuhberg, Gotteszell, Kemna, Quednau, Breitenau, ecc.), dove subirono maltrattamenti fisici e furono obbligati a sottostare al lavoro coatto.
Poesio sostiene, dunque, che le differenze tra il sistema concentrazionario nazista e quello fascista furono marcate, in quanto «quest’ultimo abusò della persona arrestata in maniera meno eclatante e con mezzi meno evidenti».
Un’altra interessante questione che viene affrontata nei capitoli conclusivi del libro concerne il consenso che il regime fascista acquisì tra le masse popolari. Pur ammettendo che non mancarono «veri e propri atteggiamenti entusiastici espressi da larghi strati della società», l’autrice contesta le tesi di Renzo De Felice, il quale, in opere come Mussolini il duce. Gli anni del consenso. 1929-1936 (Einaudi), ha enfatizzato l’adesione convinta della gente al progetto politico fascista. Poesio, al contrario, insiste sulla «inscindibilità del binomio consenso-strumenti repressivi», sostenendo che buona parte della popolazione assunse nei confronti del regime comportamenti dettati da «consenso passivo, accettazione forzata o indifferenza» e subì le intimidazioni del regime senza condividerne fino in fondo le idee.
Giuseppe Licandro
(direfarescrivere, anno VIII, n. 81, settembre 2012) |