Il nostro cervello lavora per inerzia e, quando l’anima guarda altrove, ci destiamo dalle attività abitudinarie in cui siamo immersi e improvvisamente scorgiamo ciò che nella nostra esistenza avevamo ignorato o dimenticato. Un semplice innesco del meccanismo abitudinario salta e l’ottica con cui osserviamo soggetti e oggetti agire nel mondo muta.
Se poi si parla di riscoperta della fede e di missioni che coinvolgono la salvezza dell’umanità, il discorso prende una piega determinante per la collettività, che va oltre la sfera esistenziale e individuale.
Così Sara De Bartolo, scrittrice calabrese, in Dodici ore soltanto (Città del sole edizioni, pp. 64, € 8,00), imposta il discorso narrativo e il lettore, se poco incuriosito da ciò che accade al di là dell’uscio della sua casa e del suo ufficio, si trova sconvolto e non può che valutare nuovamente i valori traino di una vita poco ponderata.
Fermare il tempo per ricominciare
L’autrice motiva il suo processo scrittorio con «Io ho donato quel che ho». Lo fa prima di cominciare la narrazione dell’avventura del suo personaggio: Herman Collin, che lavora a New York in un’importante società informatica. Anche questi, non a caso, nel capitolo iniziale Mi presento…!, parlando in prima persona, sottolinea l’intento didascalico di ciò che racconterà. Lo scopo della scrittrice coincide senza dubbio con quello di Herman: parlare agli altri per modificare e comprendere il negativo e il superficiale che si nascondono nel normale giro positivistico in cui siamo catapultati. Il giovane, con la penna dell’autrice, scrive: «È la società in cui viviamo che ve lo impedisce perché infierisce su di voi, impadronendosi del vostro tempo. Allora non rimane che una sola cosa da fare. Fermarlo… sì. Fermare il tempo! Pensate sia un’idea folle?».
Il protagonista, da ingegnere informatico, si ritrova ad essere “ingegnere sociale”, per uno strano caso della vita che fa confluire insieme diverse contingenze: un’incomprensione al lavoro, la consapevolezza di un’esistenza solitaria, un malanno fisico. In uno stato di semicoscienza, quasi morte, gli si rivela il conoscibile sotto l’aurea dell’inconoscibile, ovvero di un senso nuovo e profondo: «Dovevo recuperare la mia dignità di uomo onesto e di fede e rinnegare l’ateismo che aveva portato la mia famiglia a vivere una vita vuota e senza pace alcuna».
Segue a questa presa di coscienza, una missione. Herman legge il messaggio scritto per lui sulla pagina di una rivista sporca di sangue: il pianeta è stato addormentato, ora «è senza tempo» e lui deve eliminare il male che l’uomo ha creato «nel suo tempo».
Come? Distruggere le armi e tutto quanto c’è di nocivo, a partire dalla sede del Pentagono, in dodici ore soltanto: «Ore 14:00 in punto. Le ore erano contate. Dodici per la precisione. La durata di un giorno. Un giorno soltanto per mettere “fine” all’arroganza e alla stupidità dell’uomo».
Tutto, tranne il protagonista, è completamente bloccato, così la richiesta di spiegazioni diventa un’eventualità inesistente. Herman si concentra sull’annientamento di centrali nucleari, piantagioni di droghe, debiti pubblici dei paesi poveri, armi sottomarine. Tutto ciò si svolge in una delle sedi militari più grandi al mondo.
Ci troviamo di fronte una Mission Impossible narrativa, che dà risalto ad una pacata e continua riflessione. Da qui la derivazione di un genere fantasy misto a quello tipico di un diario, colmo di annotazioni che altro non riguardano se non l’instabile andamento di un pensiero insoddisfatto che, per l’appunto, ferma il tempo e l’osserva. Herman, infatti, scopre di avere un conto personale da pagare con l’umanità, la quale, però, dovrebbe risollevarsi da ingannevoli meccanismi verso l’autenticità. Consapevole di ciò, l’uomo allontana la vista dal colore dei soldi che offusca quello della città vera, colma dei battiti della gente, difficili da udire. Quello che ha compiuto l’ha indotto a una rivelazione esplicita, che solo all’inizio si mostrava ambigua soffermandosi su un’insoddisfazione generale del mondo. La fede ritorna nella sua forma più chiara e illuminante, che rende l’episodio atto a richiamare l’Antico Testamento, nel momento in cui si racconta dei falsi idoli.
Non a caso, passate le dodici ore, la vita ricomincia e il protagonista bacia un piccolo crocifisso, notando dalla finestra un arcobaleno.
Sara De Bartolo e Herman Collin, nella letteraria simbiosi scrittore-personaggio, donano la propria esperienza. Con l’intento forse di scrivere, forse d’insegnare.
Stop alla distruzione
Nelle Osservazioni finali, che seguono alla narrazione, l’autrice sottolinea il pervadente alone di realtà in quello che di fantastico scrive. L’uomo distruttore è ovunque. Si osservino pure i cambiamenti climatici per comprendere come la tesi dell’opera sia non solo attuale, ma anche veritiera.
Per di più, lo stile di Sara De Bartolo, semplice ma provocatorio per lettori abituati ad ignorare quello che li circonda, invita con piacere alla lettura; e a fermare il tempo per indugiare sulle sfumature di un mondo troppo compatto, sommerso da una fantomatica nube nera (immagine da considerarsi a più livelli: da quello climatico a quello economico).
L’autrice, non a caso, offrendoci un tipico topos fiabesco, suggerisce di ipotizzare la nostra esistenza su di un albero: «Immaginiamo, solo per un istante, che qualcuno, con un’ascia, si diverta a spezzare i rami, a tagliare le foglie e a far cadere i frutti. […] L’albero inizialmente soffrirebbe, ma dopo un po’ troverebbe nelle sue radici la linfa per sopravvivere; esso ritornerebbe, col passare del tempo, a vivere esattamente come prima».
Per gli individui, suoi ospiti, cosa succederebbe? Ecco la pronta risposta: «La mancanza di cibo, aria e acqua, provocherebbe in noi una morte lenta e, con il tempo, definitiva».
Conclusione: il male che porterà alla nostra fine ha un'unica origine. Ovvero, noi stessi.
Niente di più banale, niente di più tragico.
Francesca Ielpo
(direfarescrivere, anno VIII, n. 79, luglio 2012)
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