Mai come nella vicenda in questione ci siamo trovati di fronte a un connubio indissolubile tra un reato e il suo presunto autore, seppur dichiarato anni dopo innocente e infine prosciolto: parliamo dell’agghiacciante serie di delitti compiuti su bambine di età compresa tra i diciotto mesi e i sei anni ad opera di un assassino seriale che agiva nella Roma degli anni Venti, erroneamente identificato nello sfortunato Gino Girolimoni. Rivivremo dunque in queste 176 pagine l’orrore degli omicidi e dei sopralluoghi sulle scaenae criminis ma anche un’esperienza investigativa scrupolosa e metodica ad opera degli autori, Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani, in Un mostro chiamato Girolimoni. Una storia di serial killer di bambine e innocenti (Sovera edizioni, pp.176, € 15,00).
Un «riflesso onomatopeicamente sinistro»
Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, il nome Girolimoni sortisce, se pronunciato, uno sgomento profondo, poiché associato ai due reati più infami che si possano immaginare: la pedofilia e l’assassinio. Il nome è inoltre divenuto il titolo di un commovente film del 1972 di Damiano Damiani in cui un superbo Nino Manfredi assiste attonito e amareggiato alla sfilata degli improbabili testimoni che lo accusano di quegli atroci delitti contro natura. Dunque il nome è già di per sé una condanna, a tal punto da divenire, presso il popolo capitolino, sinonimo di “pedofilo” sino ai giorni nostri. La realtà storica però ci restituisce l’immagine di un Gino Girolimoni, distinto mediatore di trentotto anni, che non subì infine una condanna ma fu anzi totalmente scagionato dalle infamanti accuse.
Eppure, la riabilitazione dell’accusato fu impossibile e, come scrive il prefatore del libro, il criminologo Vincenzo Maria Mastronardi, «l’oblazione è stata impedita dal nome, Girolimoni, un nome singolare, raro, con un riflesso onomatopeicamente sinistro per chi lo pronuncia».
Conseguenza alquanto significativa è l’attuale, e pressoché totale, assenza di famiglie Girolimoni all’anagrafe capitolina.
Nel triste destino del mediatore trentottenne e del suo nome, buona parte ebbero certamente la psicosi collettiva, che reclamava a gran voce e a tutti i costi un volto da associare all’“ombra” che rapiva e uccideva le bambine, e la stampa dell’epoca, che aprioristicamente aveva deciso per la colpevolezza di Girolimoni e per l’onta a vita. Infatti, lo sfortunato protagonista morirà in povertà e in disgrazia nel 1961, con un partecipante però di tutto rispetto al suo poco gremito funerale: il commissario Dosi, che ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda.
Un commissario tenace
Fu proprio il commissario Giuseppe Dosi («lo stesso Giuseppe Dosi che venne spedito a spiare D’Annunzio al Vittoriale dopo la sua misteriosa caduta da una delle finestre della villa», lo stesso Dosi «che nel giugno 1947 proporrà a Parigi la sigla Interpol per la nascente polizia europea») che, dubbioso rispetto alla versione ufficiale, aveva trovato altre piste investigative, invise però all’autorità fascista, la quale osteggiò il suo lavoro tanto da costringerlo a un ricovero al manicomio provinciale di Santa Maria della Pietà.
Amara ironia della sorte, la stessa struttura in cui lavorava il padre di una delle giovani vittime e dove anni prima aveva forzatamente soggiornato l’unico altro possibile colpevole dei delitti, Ralph Lyonel Bridges, un pastore anglicano di nazionalità britannica, già resosi protagonista di molestie nei confronti di bambine inglesi. A posteriori possiamo affermare che, nonostante la pista del “poco reverendo” Bridges abbia notevolmente contribuito a restituire Girolimoni alla libertà, elementi oggettivi di prova oggi ci indirizzano in altre direzioni, che rimangono però senza nome.
Rifare le indagini?
I due autori del libro hanno ripercorso le indagini da capo non solo per merito dell’esperienza di giornalista investigativo dell’uno, Fabio Sanvitale, e della conoscenza della scena del crimine dell’altro, Armando Palmegiani, ma anche grazie alle tecniche investigative attuali e a una squadra di esperti ad hoc, composta dal medico legale Giorgio Bolino, dalla psicologa Chiara Camerani e dal profiler Ruggero Perugini.
Le sette aggressioni (di cui quattro letali) vengono ricostruite minuziosamente, perfino le strade sono state ripercorse (e quelle che hanno cambiato denominazione risultano comunque identificate), le testimonianze lette di nuovo e controllate, addirittura vengono recuperate tre delle quattro autopsie effettuate sulle bambine.
Il tutto mentre si delinea, tra un ragionamento a due voci e una ricostruzione storica, il profilo del vero mostro che terrorizzò la Roma degli anni Venti, un profilo che poco ha a che fare con l’ignaro Gino Girolimoni. Un profilo che sembra uscire proprio da quei vicoli bui e senza vita che furono teatro dei rapimenti e delle sparizioni delle bambine e che, ad oggi, sembra ancora voler celare l’identità dell’“ombra”.
Sanvitale e Palmegiani restituiscono dunque dignità non solo a un nome che per anni, fino ai giorni nostri, ha purtroppo evocato infamità e orrori, ma anche a un commissario che, avendo intuito l’errore, in una prospettiva garantista, ha rappresentato il precursore del moderno metodo investigativo.
Alessandra Prospero
(direfarescrivere, anno VIII, n. 75, marzo 2012)
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