«C’era una volta, nell’ex Regno delle Due Sicilie, il gattopardismo». Così inizia, con una raffinata duplice citazione sia del capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa che dell’altrettanto memorabile affresco cinematografico di Luchino Visconti, il romanzo storico di Luigi Michele Perri, Il monocolo (Rai Eri, pp. 224, € 13,00), vincitore ex aequo della seconda edizione del Premio letterario “NarreRai” a fianco di Nera la notte di Riccardo Besola e di La maschera di Emanuele Gagliardi.
Al centro della narrazione, come i Montecchi e i Capuleti della tragedia di Shakespeare, due antichi ceppi nobiliari calabresi del Cosentino: i Morelli di Rogliano (ancora legati all’arcaico mondo rurale, ma accesi fautori dell’anelito risorgimentale unitario) e i Quintieri di Carolei (già protesi verso la speculazione finanziaria e l’iniziativa imprenditoriale, e quindi ancorati a una visione della politica assai più pragmatica e meno idealista), intenzionati, attraverso un matrimonio dinastico, a intrecciare un indissolubile legame di sangue blu.
Le radici del feudalesimo baronale fra politica e affarismo
Una prosa elegante, densa di reminiscenze classiche, ripercorre un affascinante itinerario storico, dalla spedizione dei Mille all’epoca crispina di fine Ottocento e giolittiana di primo Novecento (riaffiora il verismo del Verga di Mastro-don Gesualdo e del De Roberto de I viceré in non pochi snodi del racconto, ma si nota anche una certa contiguità della struttura narrativa con la letteratura vittoriana e mitteleuropea: il Galsworthy de La saga dei Forsyte e il Mann de I Buddenbrook sono ulteriori, immancabili punti di riferimento).
L’ultimo rampollo della dinastia Morelli, Donato, si sposa con una consanguinea di trent’anni più giovane, Teresa, la quale però non riesce a generare il sospirato erede maschio, ma solo una femmina, Caterina. Donato Morelli diventa senatore, e comincia a progettare un avvenire di prestigio per la figlia amatissima. Parallelamente, si snoda la parabola della stirpe dei Quintieri: l’intraprendente Angelo diventa deputato nel 1890, in pieno trasformismo crispino. Scrive acutamente Perri che i Quintieri «avevano colto la differenza tra il mondo agrario settentrionale, produttivo e ricco, e il blocco agrario meridionale, largamente infruttuoso e limitatamente redditizio». Salvatore, il più giovane dei fratelli di Angelo, inizia il tenace corteggiamento della bella Caterina, che dalle pagine di Perri emana un candore intrigante: «Ad incrociarlo, quello sguardo vivo e malizioso, il brivido arrivava magico per accendere la vampa dell’attrazione. Il predatore, portato a condividere la malizia e ad ignorare l’innocenza, faceva la sua parte. E Salvatore, che predatore era, sapeva recitarla, la sua parte, ogniqualvolta se ne procurava l’occasione». Il matrimonio fra Salvatore Quintieri e Caterina Morelli, dunque, sancisce il connubio fra «due modelli culturali: quello della casta agraria che aveva fatto la rivoluzione, sostenendo la sua tensione verso gli ideali nazionali, pur con esigenze di tutela dei propri possedimenti, e quello del ceto imprenditoriale che, rimasto indifferente ai fermenti liberali, aveva avuto tutto il tempo di elaborare e realizzare un proprio avanzato programma di arricchimento attraverso investimenti finanziari di sicura redditività».
Nel Palazzo di Giustizia si dibatte su un parto fantasma
Fra intrighi elettorali e rivalità rancorose fomentate dalle due famiglie ora imparentate, la sospirata gravidanza di Caterina, invece di appianare ogni dissidio, alimenta nuove e più lancinanti tensioni: il referto di un luminare della medicina aveva quasi sancito in modo irreversibile la sterilità di Salvatore, per cui sorge il dubbio che l’onore della coppia sia rimasto infangato da una relazione adulterina della giovane sposa. La nascita del (presunto) erede scatena un terremoto: sei mesi dopo Salvatore accusa la moglie di adulterio (o, in alternativa, di parto simulato con la frode) e la trascina in tribunale. Il processo si contorce in un inesplicabile groviglio di perizie, controperizie e testimonianze spesso contraddittorie: Perri si destreggia con maestria in questo labirinto di mezze verità e di mezze menzogne, come un emulo del Gadda di Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, dipanando con asciutto rigore giornalistico una fitta ragnatela di carte processuali dell’epoca, pazientemente scovate, catalogate e sintetizzate con la passione certosina di un moderno amanuense. Una ricostruzione, la sua, minuziosa, ma non certo prolissa, che arricchisce il romanzo di una tensione narrativa in grado di competere con gli schemi collaudati del thriller giudiziario all’americana.
Prosciolta dai giudici, Caterina ottiene un pieno risarcimento, anche pecuniario, del «supplizio morale che, per anni, era stata costretta a subire». Ma, sotto il profilo morale, il prestigio dei Quintieri ne esce devastato: Angelo abbandona la scena politica e, in occasione delle elezioni del 1904, nel collegio di Rogliano suo fratello Luigi viene clamorosamente sconfitto da un oscuro avvocato di provincia. La separazione consensuale di Caterina e Salvatore spalanca un abisso fra le due famiglie, ora divise da un odio implacabile: per Caterina inizia un periodo di atroce tribolazione interiore: «Pativa incubi notturni popolati di mani trepide e vogliose, che la toccavano, dissacrando di sé, del proprio corpo, quella parte che avrebbe voluto donare, con trasporto tutto esclusivo, all’uomo che l’aveva conquistata. Un uomo, oramai, senza volto, che, nelle sue visioni più mostruose, assumeva occhi polifemici e grugni bestiali. Ogni volta, un soprassalto, un urlo, un pianto rabbioso, che squarciava le tenebre della stanza». In questi passaggi, Perri sfodera un impeto visionario che trasforma le sue pagine in una specie di inquietante trasposizione retrò dell’universo onirico della protagonista paranoide del capolavoro cinematografico di Polanski, Repulsion. Caterina muore prematuramente all’età di soli quarantadue anni. Quanto a Salvatore, perseguita accanitamente il figlio di Caterina, tentando di sottrargli per via giudiziale l’eredità materna, ma fallisce nel suo losco disegno. Perri conclude la sua storia con un amaro e profetico epitaffio: «Con il loro patto, i Quintieri e i Morelli diventarono espressione tra le più emblematiche della decadenza del baronaggio e del blocco agrario del sud. “Patto” e “matrimonio”, nella loro evoluzione, divennero metafore del sottosviluppo meridionale. Nel nome e sotto il segno della vorace gattoparderia del ceto dominante. Destinata a sopravvivere nelle caste che verranno».
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno VIII, n. 74, febbraio 2012)
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