Ognuno di noi è prigioniero benevolo di un passato che, per forza di cose, non sfugge e ritorna nella quotidianità, in gesti e sguardi inconsapevoli della razionalità, del mondo delle spiegazioni logiche.
Camminiamo velocemente e nei nostri passi riconosciamo quelli di nostra madre che, all’udire uno strano trambusto e timorosa che fosse successo qualcosa di grave, accorreva a noi, ancora piccoli e indifesi.
Rivelazioni alla Proust, in procinto di cibarsi della sua madeleine.
Potremmo parlare di geni, caratteristiche ereditarie, o solo di occorrenze casuali. Ma se, ancora, nel voltarci, riproponiamo agli altri gli stessi occhi tristi e stanchi che eravamo soliti vedere in nostro padre, sarebbe superficiale parlare solo di fisionomica somiglianza.
Ne La pazzia di Dio. Il romanzo di una generazione (La Lepre edizioni, pp. 304, € 22,00), Luigi De Pascalis (uno degli scrittori italiani di narrativa fantastica più apprezzato negli Stati Uniti) tratta di similarità di una storia famigliare, il cui corso intreccia rilevanti fatti storici e riporta i peculiari segni del suo essere negli ultimi esponenti dell’albero genealogico.
Andrea, rappresentante di una famiglia e di una generazione
Nato nel 1895, il protagonista del romanzo, Andrea, è il secondogenito di Filippo ed Elvira Sarra, appartenenti alla famiglia più in vista di Borgo San Rocco, in Abruzzo.
Andrea, oltre che il perno catalizzatore di tutte le vicende raccontate, è il narratore stesso. Cosicché ci troviamo prima davanti alle parole di un bambino e poi davanti a quelle di un ragazzo o, meglio, di un uomo che, di fronte alla paura dell’incognito futuro, fa i conti con il passato.
Naturalmente tutto è traslato dal ricordo: non si tratta di un “diario di bordo”, ma di un romanzo “testimonianza” in cui il passato è caratterizzato da avvenimenti emblema di una generazione e di una famiglia. Non si parla, quindi, di azioni istantanee, ma lontane negli anni. Eppure la loro efficacia è così viva e significativa, da sentire l’urgenza di raccontarle. Questa è la sensazione che si prova leggendo il romanzo di De Pascalis.
Nonostante quella dei Sarra sia, probabilmente, una storia di pura invenzione, essa è senz’altro frutto dell’esperienza personale dell’autore – che è abruzzese – e trae, dunque, origine proprio dalla regione in cui è principalmente ambientata.
La Maiella è lo sfondo delle fanciullesche peripezie, insieme a Mimina e Cicco. Tutto appare tanto perfetto da sembrare incredibile, al punto che il protagonista, seppur bambino, si pone questa domanda: «È tutto così bello, anche sull’Olimpo, quando il sole cala?».
Presto, però, avviene il trasferimento in un collegio di Napoli, segno della fine dell’infanzia. Qui dà il via alla sua iniziazione alla vita, per la prima volta in una città, insieme a degli sconosciuti con cui instaurare rapporti di amicizia e/o di rispetto. Giungono le prime scoperte sessuali con Cesira e Polpetta, le prime consapevolezze di fronte a misfatti, considerati, nella sua originaria dimora, eticamente inammissibili. Lontano dal mondo fiabesco, «Napoli è tutto il contrario di tutto. Ti sembra di amarla e invece la odi, ti pare di odiarla e invece la ami: tale e quale la vita».
Improvvisamente, però, le ore di scuola, musica e disegno (verso cui Andrea mostra una certa passione) vengono interrotte, o bruscamente alterate, dall’entrata in guerra dell’Italia nel 1915.
Parteciparvi sembra un dovere e come tale viene interpretato: da qui il cambio di contesto e di personaggi, con sulla scena trincee, campi di battaglia e soldati. Ognuno combatte per un motivo, quello che ha scatenato la guerra è in secondo piano: «Sai che è una dichiarazione di guerra? […] È uno specchio magico. Ognuno ci vede dentro quello che vuole. Il re ci vede nuovi territori per la corona; il Parlamento ci vede un mare di chiacchiere su cui fare leva per le prossime elezioni; […] i violenti ci vedono una maniera per sfogarsi con la scusa della difesa della patria».
Andrea parte volontario per conservare il primato nel cuore di suo padre. Ed ecco che storia collettiva e individuale si confondono: laddove si rappresenta la Storia, c’è sempre un individuo a raccontarla.
D’altra parte, una volta terminata la guerra, è difficile ritrovare l’uomo che si era: «Mancavo da Borgo San Rocco da quasi quattro anni. Per tutto quel tempo ero stato dietro la pazzia di Dio e degli uomini, compresa la mia». Uccidere o avere perennemente tra le mani un’arma a scopo difensivo è frutto di follia umana, di bestialità confusa con strategie belliche. L’ultimo spiro prima di morire può diventare segno di vittoria o semplice rumore, sì fastidioso, ma parte del frastuono in cui si vive.
Così di fronte alla morte di tutti i suoi vecchi famigliari, a causa della spagnola, Andrea si ritrova inerte, senza passione e sentimento. In più, d’un tratto si ritrova solo e alla guida di una famiglia, la sua.
Un cambio di generazione che non contempla preavvisi e che richiede coraggio e abilità nel non indietreggiare di fronte alle mille responsabilità dalle quali, da bambino, si rifugge.
Nel paesaggio romanzesco ritorna ancora una volta l’elemento agreste e naturale, tipico abruzzese, in contrasto con quello battagliero e quasi estraneo allo scorrere del tempo, che invece porta con sé luce elettrica e acqua corrente.
In Africa: alla ricerca di un sogno sconosciuto
Dalla Prima guerra mondiale si passa agli albori del Fascismo: i primi anni in cui il nome Mussolini desta o entusiasmo o disgusto.
Andrea non è un patriottico, non si ritrova nelle idee collettive della sua generazione. Il suo pensiero rimanda solo a quello del padre, che sognava l’Africa e restava fedele a un amore perduto, mai intrapreso. La donna sognata dal padre, e mitizzata dal figlio, proveniva da Zanzibar.
Ancora un conto da coprire. Se Andrea parte all’improvviso verso l’isola africana, è per conoscere la natura stessa dei suoi sogni (ragione per cui vive, lontano da altre spiegazioni civiche, politiche e sociali) e, perché no, per riscattare suo padre. Una vena nostalgica, malinconica e fortemente astratta (paradosso di un mondo che non lo richiede) vive nelle sue rughe. Lo stesso approccio alla realtà di mast’Alfredo che, da Borgo San Rocco, va in America, lontano dal silenzio, in cerca di musica e poesia.
Un’opera completa, dai mille sfondi geografici, storici e interpretativi. La storia di una generazione che se ne va, per poi ritornare in qualche sua forma nella generazione futura.
Lo stesso stile scrittorio, prevalentemente asciutto e scorrevole, con l’impiego di parole quali «mammà», troncamenti come «zi’ Saverio» o appellativi come «mast’Alfredo», è frutto di un tempo remoto, ma dolcemente presente.
Il testo altro non è che un circolo progressivo di avvenimenti che sembrano portare a un’origine univoca, che evoca fantasia e mito.
Come scrive De Pascalis: «Ma chi può impedire a un sogno d’immaginare una montagna che il cielo, invece che sopra, se lo porta dentro come un sentimento? Nessuno. Solo che nella vita questa cosa non ha capo né coda. È il sogno d’un sogno».
È la rievocazione di una pazzia che, se vogliamo, possiamo attribuire a Dio: unica entità metafisica, nella società occidentale, legittimata a essere tale, dai secoli dei secoli.
Francesca Ielpo
(direfarescrivere, anno VII, n. 72, dicembre 2011)
|