Sono stata recentemente a Simbari Crichi e non sono matta, ci sono stata. Mi ci ha portato Sonia Serazzi, trascinata, pagina dopo pagina e parola dopo parola, attraverso sette racconti che prendono il titolo dal protagonista del racconto e, nel caso di Lulù, Sardignò, Calimero e io, anche dei suoi comprimari familiari. E mi sono trovata in mezzo a tante cose che ti fanno dire col fiato corto che non è assolutamente vero che Non c’è niente a Simbari Crichi (Iride, Gruppo editoriale Rubbettino, pp. 144, € 10,00).
Non esiste certo sulla cartina geografica, ma ogni paese dell’Italia meridionale è un poco Simbari Crichi (nome nato dalla commistione di due veri toponimi calabresi: Simbario e Simeri Crichi).
E chi è nata e cresciuta in una realtà “paesana” non può non riconoscere che molti di quelli che sembrano personaggi immaginari o bozzetti per far sorridere, sono invece realistici. Da Rafela Riscambiolo (undici gravidanze portate a termine) al padre di famiglia Scatalascio (infermiere del manicomio che, da pensionato, se ne sta «appollaiato» su una sedia a lavorare all’uncinetto); dal nonno Bradamante (con «sangue schizzinoso e il cervello bizzarro», che «per pulizia» mangiava solo roba bianca, e cioè latte, formaggio fresco, pane, patate bollite e perfino uova senza tuorlo) alla signora Sirace (che conosce a memoria il tariffario del paese e vaga puntigliosa per ore in cerca del cibo più conveniente, tanto da far lamentare il marito che «a forza di mangiare la convenienza» è diventato stitico) e tantissimi altri esempi di umanità bizzarra, ma non per questo fittizia.
Dai «fessi» ai mariti senza amore…
Simbari Crichi, rispettando quella tendenza del mondo moderno a riempire il portafoglio di tessere, è il paese dove anche «i fessi» sono tesserati grazie all’iniziativa di «Franco il barista». Ai paesani muniti di questa tessera spetta un bicchierino gratis e «il fesso vero si riconosce dal fatto che la tessera l’accetta e beve contento».
Come ogni paese che si rispetti, ha anche un fotografo che con la sua “arte” fa quello che può. Ciascuno di noi può riconoscere nelle foto «da fessi» che Fortunato, Giggi e Rocco esibiscono ai carabinieri e che fa meritare loro il via libera senza contravvenzione, le nostre prime foto tessera, scattate da un fotografo di paese che, scusandosi per il pessimo risultato, infine ci insultava con la sentenza: «Il fotografo non può fare miracoli!». E Fortunato, il protagonista del racconto, tiene a precisare, che, anche se con i carabinieri gli ha fatto comodo: «Non è che noi abbiamo le facce fesse, è che anche al bandito Giuliano gli sarebbe uscita la faccia da minchione se andava a farsi la foto dal fotografo di Simbari Crichi».
E chi non riconosce, sempre in Fortunato, il solito cameriere improvvisato dei matrimoni di agosto? Anche nel paese inventato dalla narratrice la gente si sposa in massa in estate e le spose brutte si ricoprono, nonostante il caldo, di pizzi, veli e ricci «e magari gli pare di confonderti» sul loro vero aspetto. Ma Fortunato non ci sta: «A pigliarmene una brutta io mi vergognerei, invece i mariti delle brutte ci fanno le cambiali per pagare il pranzo a trecento persone che non alzano gli occhi dal piatto per non guastarsi la mangiata». E questo perché, spiega qualcuno, gli uomini scelgono le donne che hanno «la casa sopra come le lumache», perché quelle che non ce l’hanno «muoiono di freddo, anche se hanno il ventre tenero e splendente delle lucciole d’agosto e tutti le seguono per afferrarle».
…ma no al tradimento!
E poi ci sono quelle come Ines chiamata «Zuccheriera», perché, nonostante le gambe rinsecchite e il naso a becco di pappagallo, ha già avuto 30 uomini e tutti pensano che debba avere «una zuccheriera sotto la gonna».
Il punto di vista maschile è sempre su questo tono, come quando il papà spiega a Bradamante Sirace che le donne comprano al mercato e scelgono gli uomini da sposare nello stesso modo, facendo scintillare lo sguardo sulle cose belle e preziose e poi rivolgendosi, per un rassegnato ridimensionamento del desiderio, alle cose brutte e di poco prezzo e facendosi “impacchettare” «speranze di bellezza crepata».
Il punto di vista femminile, invece, vede il matrimonio ridotto a «cucina, lavatrice e letto a due piazze col crocefisso sopra, dormire insieme e “buongiorno signora” e la stessa porta con due cognomi sul campanello» e l’amore tutta un’altra cosa, «come il nocciolo di un’oliva che ti rigiri sotto la lingua se l’oliva non ti è bastata», come se insieme amore e matrimonio non potessero coesistere sotto lo stesso tetto.
Anzi, a Simbari Crichi non ha cittadinanza la dimensione dell’Amore, con la “A” maiuscola, che esiste solo nei romanzi sentimentali che alcune giovani donne divorano. Come Laria Straniti, soggiogata da L’amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence, ma stizzita dall’atteggiamento di rassegnazione tenuto dal marito di fronte al tradimento della moglie Connie: «E ci giurerei io che se Clifford Chatterley il paralitico abitava a Simbari Crichi, al secondo “vado nel bosco” si ruzzolava col turbo al negozio di pistole e ne sceglieva una per azzopparci la moglie tirandole sei colpi sulle ginocchia».
Perché, se con rassegnazione si sceglie il compagno o la compagna per la vita, non con altrettanta rassegnazione si può accettare l’abbandono o il tradimento di questi.
E infine la pillola di saggezza di Brunina Monaca: «I maschi ti impiccano con le corde delle tue stesse parole, e io sto zitta, ché nel silenzio ognuno pesca quello che vuole e lo chiama amore».
Disoccupazione e pensioni di anzianità
A Simbari Crichi, lavoro non ce n’è, ma «disoccupato e vagabondo sono la stessa parola e se non parti per lavoro ci sono giorni che ti ci rassegni e giorni che ti vergogni».
L’economia del paese è basata, perlopiù, sulle pensioni di anzianità e invalidità, con quei soldi i giovani “campano” e forse, scrive la Serazzi, è per questo che nessuno uccide i genitori vecchi, come succede al Nord («macelleria regolare e precisa»), perché sarebbe un po’ come accoppare la gallina dalle uova d’oro.
Poi ci sono i giovani che emigrano e ci sono anche gli emigrati che tornano vecchi al paese, come Totò Cutilli, di ritorno dall’Australia con un cucciolo di canguro impagliato e la pensione, boccone troppo ghiotto per zitelle e vedove.
E triste è la narrazione del sentimento del ritorno: «A Simbari Crichi l’uomo girò per giorni come uno spirito smarrito, un corpo duro di memorie sottopelle che si feriva ad ogni spigolo di realtà».
Questo e molto di più è la raccolta di racconti, quasi un romanzo corale, fatto di tante voci, alcune destinate a bruciarsi in una fiammata e altre destinate a consumarsi lentamente in una Calabria comunque inedita nel panorama letterario, lontana certamente da quella alvariana e, soprattutto, raccontata con un linguaggio nuovo e pieno di brio.
Altro che Non c’è niente a Simbari Crichi!
Annalisa Pontieri
(direfarescrivere, anno I, n. 1, dicembre 2005)
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