Nel De contemplu mundi, il monaco benedettino Bernardo Morliacense sosteneva che la Roma primordiale continua ad esistere soltanto nel nome: l’essenza è tutto ciò che resta dell’antico splendore della città che fu Caput mundi, mentre i secoli cancellano sotto una coltre spessa anche le vestigia di un popolo che credeva imperitura la sua gloria. Molto tempo dopo, il Fascismo coltivò l’ambizione di far rivivere in sé i fasti della Città eterna riportando alla luce i simboli scomparsi della sua grandezza. L’invenzione dei Fori Imperiali. Demolizioni e scavi: 1924-1940 (Palombi editori, pp. 64, € 9,00) è una raccolta di saggi firmati, in ordine di comparsa, da Anita Margiotta, Rossella Leone, Claudio Parisi Presicce, Angela Maria D’Amelio, e Fabio Betti. Tale raccolta documenta, attraverso fotografie d’epoca di straordinaria qualità, le fasi di rinvenimento dei Fori Imperiali, mentre una serie di dipinti testimonia la nostalgia di celebri artisti romani intenti a immortalare spaccati di vita negli angoli della città che gli scavi stavano cancellando per sempre. Le immagini, estremamente nitide e ricche di dettagli, furono realizzate utilizzando grandi negativi su lastra in vetro che veniva cambiata ad ogni fotografia, permettendo l’uso di un tipo di stampa a contatto. Il titolo si presta ad una duplice chiave di lettura del termine “invenzione”: quella prettamente etimologica di “ritrovamento”, e quella moderna di “invenzione”, poiché il regime tentava davvero di “inventare” una nuova realtà che, sorta dalle ceneri dell’Impero romano, divenisse altrettanto maestosa.
L’ideologia del «piccone risanatore»
I Fori tornarono così a narrare le gesta di Cesare e degli imperatori Augusto, Nerva e Traiano. Contemporaneamente ai ritrovamenti venne costruita la Via dell’Impero, rinominata via dei Fori Imperiali alla fine della Seconda guerra mondiale. L’imponente opera fu realizzata a scapito dei numerosi edifici che si erano sovrapposti a causa del naturale processo di stratificazione di una città in continua espansione e delle preziose chiese antiche, rase al suolo con i loro tesori fatti di affreschi e statue di cui ben poco venne risparmiato. In seguito agli scavi del 1842 ad opera dell’architetto francese Toussaint Uchard, misere tracce sorsero a ricordare i luoghi in cui era stato edificato il Foro di Augusto, voluto fortemente dal giovane Ottaviano alla vigilia della battaglia di Filippi, in nome di un voto fatto a Marte Ultore, “il vendicatore”, affinché il dio gli concedesse di punire gli uccisori di Cesare. All’epoca di quegli scavi si ergevano ancora, incastonate in una delle costruzioni circostanti, le «colonnacce» del Foro di Nerva, inaugurato da quest’ultimo, ma costruito per volontà di Domiziano allo scopo di unificare i complessi costituiti dal tempio della Pace e dai Fori di Cesare e di Augusto. Le demolizioni fasciste restituirono in tempi rapidissimi anche il Foro di Cesare, che comprendeva il tempio di Venere Genitrice, di cui il console si vantava discendente attraverso l’eroe troiano Enea e il figlio Iulo. Un’innumerevole quantità di frammenti marmorei dei monumenti antichi rinvenuti, era stata riutilizzata durante il Medioevo per la costruzione di edifici realizzati il più delle volte con materiali eterogenei: questo li aveva salvati fortunatamente dalla distruzione, ma soltanto gli occhi esperti degli archeologi erano poi riusciti a individuarli, permettendo che venissero ricomposti grazie a un paziente e delicatissimo lavoro di ricostruzione. Il più vasto tra i Fori Imperiali, e ultimo per edificazione, fu il Foro di Traiano. Forse progettato dall’urbanista Apollodoro di Damasco, il complesso venne eretto con l’ingente bottino ricavato dalla conquista della Dacia, l’odierna Romania. Contemporaneamente ad esso, furono edificati i Mercati che avevano funzione forense e commerciale. Emblematico per la propaganda fascista, il complesso aveva la tipica pianta degli accampamenti militari, perché la politica di Traiano, come quella del Duce, era impostata sulla componente bellica. A causa del progressivo impantanamento dell’area su cui sorgevano i Fori, una serie di rialzamenti del terreno aveva favorito la costruzione del quartiere alessandrino, i cui edifici si sovrapposero a quelli già esistenti, che vennero utilizzati come cantine e, col passare del tempo, definitivamente sepolti. L’opera di recupero, piuttosto che per motivi etici, fu perpetrata durante il Ventennio per fini politici, allo scopo di dare lustro al Fascismo e a Mussolini che gli italiani, galvanizzati dall’enorme successo conseguito durante la campagna d’Etiopia, avevano acclamato come colui che aveva riportato Roma alla grandezza conosciuta sotto i Cesari.
L’esaltazione della romanità
Il nome “duce” in latino è dux, termine che venne usato per secoli nel linguaggio militare con la sola accezione positiva: egli non era semplicemente un condottiero, ma il generale che conduceva le milizie alla vittoria. A lui, durante la cerimonia del Trionfo per le strade dell’Urbe, veniva incessantemente ricordato da un servo di non innalzarsi mai al di sopra di Roma: standogli accanto sulla biga, questi aveva il compito di sussurrare senza posa al suo orecchio le parole: «Memento mori! Memento te hominem esse», «Ricorda che devi morire! Ricorda che sei soltanto un uomo». Nella nostra epoca l’appellativo “Duce” riporta soltanto al simbolo che per anni la storia ha tentato invano di cancellare, spazzando via dai libri perfino la memoria di ciò che di buono era stato realizzato durante il Regime. Forse, se Mussolini avesse ricordato di essere soltanto un uomo durante la marcia su Roma, il Paese non sarebbe stato gettato nel baratro di una guerra sciagurata. I lavori di demolizione non avevano destato scontento nei romani, già abituati, negli anni precedenti all’ascesa del Fascismo, a veder sparire interi quartieri a causa di lavori volti a rimodernare l’aspetto della Capitale. Tuttavia, le fotografie di quegli anni, scattate col semplice intento di documentare i ritrovamenti, diventarono testimoni inconsapevoli del senso di smarrimento che si impadronì della gente comune mentre osservava le maestranze e gli operai intenti a portare via una parte della loro storia personale. Quella stessa storia rivive nei 7.700 scatti fotografici conservati presso l’Archivio fotografico del Museo di Roma, di cui questo libro rappresenta una pregevole sintesi: esso, lasciando parlare le immagini, riesce a emozionare, regalando anche a chi non c’era i preziosi squarci della Roma perduta.
Sandra Granata
(direfarescrivere, anno VI, n. 51, marzo 2010)
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