Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La recensione libraria
Un giallo di ambientazione “letteraria”:
le strane macchinazioni e gli inganni
di un traduttore più che spregiudicato
Ambizione, suspense ed ironia in un romanzo
pubblicato da Voland nella sua collana Intrecci
di Rita Bastone
La continua ricerca della fama, i metodi a volte ortodossi, altre volte molto subdoli, perseguiti al fine di raggiungerla appartengono al genere umano. Molte volte ci si chiede come arrivare ad un traguardo e sono molti gli espedienti che siamo disposti a mettere in atto per riuscire nel nostro scopo. Ma una volta arrivati, la smania del successo e il sentirsi al di sopra di tutto possono spingere l’uomo ad essere veramente crudele al punto da compiere gesti estremi solo per l’affermazione di se stesso, gesti che possono segnare anche la propria fine, non tanto per raggiungere una maggiore sicurezza economica, quanto per un perverso gusto di supremazia sugli altri.
Leggendo il romanzo di Claude Bleton, scrittore e traduttore, I negri del traduttore (Voland, traduzione di Paola Carbonara, pp. 122, € 11,00) entriamo, attraverso le vicende del protagonista, Aaron Janvier, ambientate tra Francia e Spagna, nel mondo dell’arrivismo e anche dell’intimo contrasto umano tra ordine e disordine, linearità e trasgressione. Il libro, con tono ironico e sarcastico e utilizzando un linguaggio vivace che ne rende piacevole la lettura, narra dell’ascesa negli ambienti intellettuali di un traduttore.
La trama del racconto è intessuta di ambizione, vi trovano posto un matrimonio di convenienza – pattuito non tanto per amore quanto per riaffermare i principi borghesi di un apparente ordine stabilito –, avventure passionali extraconiugali e delitti. Miscelando sentimenti reconditi che formano la psicologia del personaggio principale, incontri con soggetti diversi tra loro per cultura e stato sociale, nonché circostanze e situazioni disparate, Bleton non fa mancare nessuno di quegli ingredienti che servono a mantenere alta la suspense.

Il gioco maledetto di un traduttore
Aaron Janvier, personaggio ironico e di elevata cultura, ci rende partecipi delle sue vicissitudini sorseggiando l’ennesima bottiglia, ormai indiscussa compagna della sua esistenza.
Interloquendo con Gilda, casualmente conosciuta in un incontro-scontro mentre, entrambi ubriachi, passeggiavano per le strade di Parigi, inizia a raccontare di sé partendo dai tempi in cui, ignaro del suo destino, era appassionato di libri. Nei suoi ricordi, talvolta confusi e che spaziano da un evento ad un altro, riaffiora in modo sbiadito e fugace la sua infanzia, causa del suo disordine. Continua con il racconto dei suoi studi e della sua predilezione per la lingua spagnola. Sin da piccolo, imparando a leggere da solo, divorava qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano, dai foglietti illustrativi ai libri ricevuti in regalo. Una passione innata e inizialmente ingenua lo spinge a trascorrere più tempo possibile a studiare testi in spagnolo e in francese.
Questa consuetudine, man mano, si lega sempre più alla brama di successo e di affermazione sociale. Utilizzando diversi stratagemmi, Janvier riesce ad inserirsi nell’élite dei letterati parigini e a conoscere “le persone giuste”. Poco più che ventenne firma il suo primo contratto come traduttore. Da lì inizia la scalata verso il successo e anche il percorso che avrebbe segnato la sua fine. Ai momenti di lavoro intenso seguono quelli di stasi e monotonia. Non sempre gli autori scrivono libri e soprattutto testi degni di traduzione e diffusione in altri stati. Janvier, che aveva sempre tenuto ben presenti i suoi obiettivi di certo non poteva rimanersene con le mani in mano in attesa che qualche scrittore iberico si sentisse particolarmente ispirato. Ecco allora che, colto da un’illuminazione, decide di mettere in atto un meccanismo che capovolge diabolicamente il ruolo del traduttore e lo fa diventare anche autore. Questo gioco lo coinvolge fino al punto da fargli superare qualsiasi limite. Continuano così i viaggi verso la Spagna per discutere con gli autori a cui impone il suo bizzarro modo di tradurre, poiché tutto doveva corrispondere ai suoi desideri e niente e nessuno poteva mettere in discussione la sua fama.

Un capovolgimento di ruoli
Il nostro personaggio, con la sua assurda tecnica – che non sveliamo –, ci porta in una nuova dimensione della traduzione in cui vengono capovolti i ruoli tradizionali autore-traduttore e dove quest’ultimo non è più il cosiddetto “traditore” del testo, ma nel caso specifico diventa autore e traduttore di se stesso, uccidendo e violando la creatività di chi dà vita a un’opera e il valore dell’opera stessa. Fa fuori così la secolare egemonia di questo rapporto che solitamente vede nell’ombra chi si accinge a realizzare la traduzione di un testo. Di certo ci troviamo dinanzi al superamento estremo di una diatriba sempre esistita e che continuerà forse senza soluzioni. In questo caso c’è una predominanza esasperata dell’arrivismo e della presunzione, ma, uscendo per un attimo dal racconto, non si può negare che l’arroganza a volte può annidarsi negli ambienti intellettuali anche se, proprio in quanto tali, dovrebbero esserne privi, a vantaggio della libertà di creare. D’altra parte, come l’autore suggerisce con ironia nello svolgersi della vicenda, la fine del nostro Janvier, simbolo di questi attriti, non è delle migliori...
Janvier continua per anni a vivere con lucida freddezza nella sua duplice personalità di doctor Jekyll e mister Hyde, tra ordine e disordine. Nulla sembra turbarlo, il fine giustifica i mezzi e la sua spregiudicatezza diventa sempre più palpabile. Un certo senso di irritazione sopravviene quando Janvier inizia a ricevere una serie di lettere da parte di un tal signor Labroisse... Quelle fastidiose lettere iniziavano sempre allo stesso modo «Caro signore, io non la conosco e lei non conosce me…».
Il nostro traduttore, sempre più seccato e pensieroso, riteneva che costui fosse «il granello di sabbia nel sistema perfettamente lubrificato» che aveva messo a punto.
Janvier prosegue però per la sua strada, avvertendo che qualcosa stava cambiando, finché le sue supposizioni lasciano spazio al vuoto, quello stesso vuoto che lo avrebbe inghiottito segnando il suo declino.
La storia si chiude con Gilda che lo ascolta per tutta la notte, finché il nostro traduttore, esaurite le bottiglie, non si azzittisce. Lei, poggiando la testa sulla sua spalla e ruttando delicatamente, prima di addormentarsi dopo un’altra giornata trascorsa nell’intorpidimento dell’alcool e nell’indifferenza, gli chiede di continuare a parlare.

Rita Bastone

(direfarescrivere, anno VI, n. 50, febbraio 2010)
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