Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La recensione libraria
La metamorfosi inevitabile delle città
tra globalizzazione, temi interculturali
e il futuro che non si lascia pianificare
Dall’urbanistica alle “sfide” del nostro secolo:
spunti di riflessione, in un saggio edito Meltemi
di Luciana Rossi
Come stanno diventando le nostre città? Di quali modi di vivere, di quali abitanti saranno dimora accogliente o teatro di battaglia?
Quanto e come è possibile o è legittimo orientare o tenere sotto controllo il loro sviluppo? E questo, come si inserisce nelle dinamiche globali del pianeta? Sono queste le domande a cui Città morenti e città viventi, di Enzo Scandurra (pp. 144, € 13,75), cerca di dare, almeno parzialmente, una risposta. Si tratta di un saggio, pubblicato da Meltemi editore nella collana dal [profetico!, Nda] nome di Babele e corredato da una nutrita bibliografia.
Il testo, oltre a osservare i fenomeni urbani da una prospettiva più approfondita, sa anche appassionare e stimolare, grazie a una straordinaria ricchezza di idee e di spunti, tratti spesso dal pensiero di autorevoli urbanisti, architetti ma anche scrittori e filosofi.
L’autore, che insegna Ingegneria del territorio presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università “La Sapienza” di Roma, ha raccolto nei sei capitoli e nell’epilogo di questo saggio – con una unità tematica di fondo − contributi inediti e testi già pubblicati come articoli sul quotidiano il manifesto o in altre pubblicazioni.
Illustriamo di seguito alcuni degli aspetti principali affrontati in questo libro.

Dalla piazza al mondo
Cittadine, metropoli tentacolari, centri storici ricchi di antiche vestigia, agglomerati urbani di occidente e di oriente: basta osservare la piazza di una città per riflettere sul futuro dell’umanità e del mondo.
I luoghi in cui viviamo non ci sono indifferenti: sono legati a noi in un vincolo di reciproca interdipendenza, che traccia una storia e, allo stesso tempo, una potenzialità. Essi si fanno scenari per le nostre emozioni e azioni, e allo stesso tempo le influenzano in modo sottile in una sorta di osmosi e, altrettanto inevitabilmente, ne restano trasformati, compenetrati, intrisi.
Nei luoghi – lo sapevano bene gli antichi – abita un’anima loci che parla di come siamo, di come siamo stati, di come saremo e, ancor più, di come vorremmo essere. Ha senso, allora, domandarsi “cosa ci dicono” questi luoghi, primi tra tutti le città, in cui centinaia di milioni – se non miliardi − di individui, in numero sempre crescente, si muovono, inter-agiscono, si amano (o si odiano), nascono, muoiono, si ritrovano tra di loro o – come diremmo per accostarci in analogia a quanto sancito nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (4 luglio 1776) – ricercano, ciascuno a suo modo, “la felicità.
Le città sono luoghi speciali, perché è lì che fatalmente “scocca” la scintilla collettiva della trasformazione della società; è lì che, come una scossa elettrica, il mutamento può prendere il via e propagarsi, rapido e inarrestabile, nel bene... o nel male. È nelle città che possiamo avvertire l’accelerazione del progresso o intercettare i primi segni della decadenza.

L’abbondanza del reale
Un dilemma sottende molte delle riflessioni contenute in questo libro: è giusto, e – soprattutto – può essere efficace pianificare puntualmente e regolare lo sviluppo dei centri urbani, ispirandosi a criteri di ordine, uguaglianza, pulizia ed efficienza oppure a lungo termine si corre in tal modo il rischio di considerare quello sviluppo in astratto, anziché nelle sue dinamiche effettive finendo per perderne, di fatto, il governo? E se in effetti questo rischio fosse reale, non sarebbe allora una strategia migliore lasciarsi ispirare, nella ricerca delle soluzioni, dall’osservazione di questo sviluppo, con la sua spontanea verità e varietà?
L’abbondanza del reale non si lascia facilmente imbrigliare negli schemi. I piani degli specialisti – suggerisce l’autore − e a maggior ragione il “Piano” con la “p” maiuscola, quello degli urbanisti, assurto quasi a valore universale, ci fanno perdere la visione delle persone e del loro modo di essere al mondo e snaturare i luoghi dove esse sono destinate a vivere. Il “Piano” diventa una sorta di interpretazione semantica dei luoghi reali, che troppo spesso chiama le cose a cui siamo abituati con nomi diversi da quelli a cui siamo abituati. Un “modello” che inesorabilmente cala dall’alto come una lapide e sancisce l’impossibilità di partecipare di chi abita quei luoghi.

Questione di prospettiva
Esiste una dissociazione tra la visione zenitale, panottica della città (dall’alto, come in una mappa) e la città vista “all’altezza degli occhi”; l’esperienza soggettiva di essa. La prima ci offre una percezione astratta, certa, ma “innaturale”.
E più ci sentiamo “sicuri” in astratto, più ci allontaniamo dalla natura e dai sensi, restando soltanto logici e tecnologici, più rischiamo di diventare vulnerabili, vedi il tragico evento delle Twin Towers dell’11 settembre 2001, costruzioni certo esteticamente molto valide, ma anche molto esposte e vulnerabili nella realtà pratica. Per dirla con le parole del geografo Franco Farinelli, citato in questo testo, sulle carte «è sempre stato impossibile rappresentare l’incertezza», sulle carte «qualcosa o c’è oppure non c’è, ogni terzo o dubbio è escluso, e tutta la nostra ragione si fonda sulla logica binaria (o A o B) cui essa dà origine (...) Ma il mondo non è una carta, è un’altra cosa».
Racconta lo piscoanalista e filosofo James Hillman del «provinciale che va in giro a vedere le meraviglie di New York e torna a casa con il torcicollo»[1] per aver guardato sempre in alto, nello sforzo di orientarsi e di coglierne l’aspetto, inutilmente. È all’altezza degli occhi, invece, che si incontrano gli sguardi degli altri, si stringono le mani, si intavolano i discorsi, all’altezza degli occhi si intreccia tutto il mondo vivo di relazioni che fa pulsare il cuore dei luoghi.
Sulle carte non si possono rappresentare le singolarità e le differenze.
Come ben sintetizzato dal filosofo, psicanalista e studioso di scienze sociali Michel de Certeau in L’invenzione del quotidiano (Ed. Lavoro, 2001), citato in questo testo, la macchina-città-moderna è «il flusso continuo della folla, tessuto fitto come una stoffa senza strappi né rammendi, composta da una moltitudine di eroi quantificati che perdono il nome e il volto divenendo linguaggio mobile di calcoli e di razionalità che non appartengono a nessuno. Fiumi di numeri lungo le strade». Figure senz’anima – aggiungeremmo noi – “carne da macello”, buona per i sondaggi di opinione.
Ma la realtà si prende la sua rivincita attraverso le cosiddette “invenzioni quotidiane”: «arti pratiche e tattiche di resistenza all’invasione, mediante le quali eludere i soffocanti vincoli dell’ordine sociale e dei prodotti che vengono imposti», piccoli ( o grandi) atti di disubbidienza e di creatività che non rientrano nei piani di chi ha deciso come devono essere gli spazi urbani e che mostrano forse come davvero essi potrebbero essere «se le leggi dello sviluppo non imponessero, per il bene di tutti, di trasformare la città in una bolgia infernale al servizio della santa produzione». Occorre quindi – suggerisce l’autore − ripensare la figura e il ruolo dell’urbanista, e anche considerare attentamente i criteri adottati per la formazione dei “tecnici” di domani, oggi purtroppo orientati a una sempre maggiore specializzazione e frammentazione di competenze, piuttosto che a una visione integrata e complessa dei problemi.

Città-macchina o città-animale? Quale evoluzione è possibile?
La città fatta di «barriere, confini, regole, procedure» è incalzata «dal tumultuoso insorgere del disordine, della disarmonia, del rumore, del conflitto, della polifonia, della policromia».
Il bisogno di “colore” e di “immagini” della mente, l’impulso dei cittadini a partecipare, senza dover rinnegare la propria autenticità, sono talmente insopprimibili nell’animo umano che, se soffocati, sprofondano nell’inconscio e da lì prima o poi risorgono, esprimendosi in forme eccessive, ossessive, come gli invadenti graffiti sui muri cittadini che negano, pur se in modo distorto, il grigio e l’omologazione dei palazzi.
Eppure la pluralità può essere una matrice evoluzionistica, in quanto produttrice di esemplari di diversità capaci di sopravvivenza in un contesto soggetto a continue trasformazioni e non statico o idealizzato.
Di questo incessante divenire la città moderna concepita dagli architetti e dagli urbanisti non riesce che a fissare qualche breve tratto, qualche intuizione, qualche movimento, subito riassorbiti dalla «oscillazione della città vivente». Quale città sopravvivrà? La città-macchina moderna o la città-organismo vivente, con un suo circuito sanguigno e una rete neuronale fatti di condutture, cavi, strade, infrastrutture?
Un “animale” determinato a evolversi, in qualsiasi modo, per sopravvivere? Forse. La città sfugge a tutte le definizioni e agli schemi, si fa beffa dei pianificatori e dei neoliberisti, «per cambiare continuamente di forma, per cambiare pelle, per offrire falsi bersagli di sé, per rinnegare e deridere coloro che vorrebbero ingessarla, irretirla, governarla, costringerla dentro improbabili schemi. La città si fa scherno di tutti e di se stessa, essa non si annuncia essa s’impone, si afferma, esiste e resiste, c’è».

Città di pietra o città di voci
Nel paragrafo Da piazza Navona a piazza Djemaa el-Fna, e ritorno troviamo un’affascinante descrizione, che ci piace riportare in parte, perché sintetizza il tema principale del libro e dà conto, allo stesso tempo, delle suggestioni e delle emozioni che la sua lettura può suscitare:

«Da tutto il mondo le persone arrivano a Roma per conoscere e ammirare piazza Navona. È bellissima, e dimostra come l’uomo possa produrre paesaggi artificiali, rappresentazioni, simboli, architetture paragonabili alle meraviglie prodotte dalla natura. Se piazza Navona l’attraversi di notte – quando è deserta e silenziosa – il suo incanto non è minore; è stupenda anche senza esseri umani.
Da tutto il mondo le persone arrivano a Marrakech per conoscere e ammirare piazza Djemaa el-Fna – la piazza dei folli – l’enorme piazza situata nella Medina che fa da sfondo a uno dei più imponenti spettacoli del mondo. Ma la piazza non esiste senza la gente: è un’area quasi di risulta, priva di confini, delimitata da brutte architetture e da grandi arterie.
Su di un lato si apre la grande Medina. A vederla di mattina, senza gente, ti chiedi perché non ci facciano un parcheggio [...]La piazza è la gente che la occupa. [...]
Piazza Navona è la sua architettura, l’armonia delle sue forme, la potenza dei simboli, la grandiosità dell’ingegno, così come piazza Djemaa el-Fna è la gente, la capacità di costruire storie, il rinnovarsi – ogni giorno – del vivere insieme.
Piazza Navona è l’Occidente, la sua storia, la sua bellezza. Racconta dello splendore di una città che appare al tramonto, delle meraviglie di un passato che non sa rinnovarsi.
Piazza Navona la puoi solo ammirare, contemplare, ascoltare il suo racconto.
Piazza Djemaa el-Fna è l’altro mondo che avanza, un’ibridazione di razze, di dialetti, di culture. La prima è la manifestazione della potenza, dell’ordine e dell’armonia; la seconda, quella della potenza, [...] della contaminazione, della sovrapposizione di migliaia di storie individuali che s’intrecciano e si mescolano dando vita a nuove storie e nuovi racconti.
Piazza Navona è il luogo del silenzio e della contemplazione, come piazza Djemaa el-Fna, quello del frastuono di voci, luci, scoppi di motori, gruppi elettrogeni, fumi, odori.»

Piazza Djemaa el-Fna non è un luogo da contemplare, ma piuttosto uno che contempla l’esperienza del vivere. Il cuore pulsante del divenire. Il “corpo vivente” del mondo e non il suo monumento funebre, celebrazione marmorea e immutabile. Una città viva, contro la città dei “consumatori di merci”, dell’homo oeconomicus; un linguaggio vivo, mutevole, contro il linguaggio banale ed enfatico che l’autore chiama «Affarese», sempre più diffuso.
È un dinamismo che coinvolge, un rinnovarsi che “contagia”, una sensazione che non è momentanea, ma perdura nell’anima: «Io credo – è una citazione da Le voci di Marrakech (Adelphi, 1983) dello scrittore Elias Canetti, riportata nel testo − che con una semplice descrizione di quello che ho visto [...] mi sia possibile costruire in me una nuova città... [...] un altro spazio, non sfruttato in cui posso stare: un nuovo respiro, una legge innominata.»

La pratica della libertà
È importante che questo “atto di creazione” possa avvenire nell’individuo, perché la libertà può nascere soltanto dall’esperienza di ciascuno e non può essere prodotta artificialmente, semplicemente progettando degli spazi pubblici volti a favorirne l’espressione: «La libertà è una cosa che deve essere praticata.», afferma lo storico e filosofo Michel Foucault (Space, knowledge and Power nella rivista Skyline, marzo 1982), citato nel testo.
La città è stata sin dall’inizio plurale, variegata; i centri abitati storicamente erano luoghi di accoglienza di viandanti, nomadi, pellegrini, commercianti, viaggiatori.
Luoghi accoglienti e circoscritti di approvvigionamento, di incontro e di scambio, luoghi utili a tutti, come i caravanserragli nei deserti.
Oggi la sfida tra individuo e collettività, tra identità e integrazione, tra singolarità e pluralità è divenuta sempre più intensa.
La Modernità ha esaltato il soggetto, ma il soggetto è di per sé “identità” e “identità” vuole automaticamente dire “definizione di caratteristiche” e perciò “appartenenza”.
Se si respinge questo concetto a favore di un’indistinta universalità, di una mancanza di radici, si rischia di finire – come afferma il filosofo Pietro Barcellona in La strategia dell’anima (Città Aperta, 2003), citato in questo testo – in un mondo disgregato in cui ciascuno è «sovrano di se stesso come atomo in sé concluso, affidando poi alla “mitologia” della volontà generale e dell’interesse generale il compito di ricondurre necessariamente ad unità la società degli atomi fluttuanti e dei desideri senza padrone».
In questo contesto, cosa vuol dire allora “pubblico”? Lo spazio pubblico oggi – e ce ne danno conferma ogni tanto gli articoli sui giornali – è rappresentato dallo shopping center: perché il consumo è l’unica attività di fronte a cui cadono le barriere di classe e di razza; l’unico “rituale collettivo” veramente ineludibile.
Ma lo spazio pubblico dovrebbe essere lo spazio di condivisione vivente, non di singoli moltiplicati all’infinito, piuttosto lo spazio di scambio dove ci si rivela gli uni agli altri nella propria unicità
Uno spazio non identificato territorialmente, ma fatto dalle relazioni e per le relazioni. Se cessano le relazioni, non esiste più alcuno spazio “pubblico”.

Condivisione e dialogo: la devianza come sopravvivenza
L’occidente stesso nasce da un luogo ibrido, il Mediterraneo, punto di incontro di molte culture diverse.
Eppure l’occidente, «terra al tramonto» – come suggerisce con un’immagine molto efficace lo scrittore Ernesto Balducci, citato nel testo – sembra aver dimenticato queste sue origini, sembra non sapere più che il suo futuro è possibile solo mutando, accogliendo l’altro e la sua storia diversa, disfacendosi per diventare altro, ridefinendo il proprio ruolo.
Solo un luogo di dialogo delle diversità può produrre una possibilità di sopravvivenza attraverso l’evoluzione di persone “nuove”, originali, di creature “emergenti” come eccezioni nel loro tempo, ma premiate nel lungo periodo da capacità migliori di adattamento: gli hopefullmonster – “i mostri promettenti” – come li definisce l’autore: «mutanti che, in una successiva fase, possono dar luogo alla specie vincente». La devianza come speranza di sopravvivenza.
Il tempo futuro porta con sé un invito allo scambio, alla comunicazione, al dialogo.
Un invito a non isolarsi, per mantenere il contatto con il “polso” della vita che si trasforma, dove siamo sempre noi, con le nostre emozioni uniche per ciascuno eppure comuni a tutti, e allo stesso tempo mutiamo incessantemente nelle nostre forme espressive, per tenere il passo con il tempo che scorre e poterlo seguire in un percorso che, fatalmente, riconduce verso noi stessi.
Vorremmo chiudere, a questo proposito, con una citazione dal testo di un celebre brano del compianto cantautore Giorgio Gaber, un brano del 1974, ma ancora molto attuale, che forse molti lettori ricorderanno, C’è solo la strada:

«Nelle case non c’è niente di buono
appena una porta si chiude dietro a un uomo
[...]
C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia, il bisogno di uscire
di esporsi nella strada, nella piazza
[...]
Perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.»

Luciana Rossi

[1] - James Hillman, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, Rizzoli, Milano, 2004, p. 60

(direfarescrivere, anno VI, n. 49, gennaio 2010)
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